Nel giorno della ricorrenza dalla strage del Tarajal, il 6 febbraio 2014, quando la Guardia Civil colpì indiscriminatamente i migranti, che si erano recati alla recinzione di frontiera dell’enclave spagnola di Ceuta in Marocco, provocando quindici vittime ed altrettante persone ferite negli scontri; dalla piattaforma di MeltinPot Europa viene rilanciato un appello alla CommemorAzione per una Giornata Mondiale di lotta contro il regime di morte alle frontiere.
L’intento è quello di esigere verità, giustizia e riparazione per le vittime della migrazione e per le loro famiglie, attraverso la denuncia pubblica e la “trasformazione del dolore il azione collettiva”. L’accorato appello di persone sopravvissute, parenti e solidali con migranti ribadisce la libertà di movimento per tutte e tutti coloro che sono in cerca di un futuro migliore; e l’importanza del rispetto dei diritti umani.
In apertura infatti sono riportate le pratiche di soccorso, sostegno, accoglienza e mediazione di molte attiviste e molti attivisti, anche loro parte di una “grande famiglia che non ha confini e non ha nazionalità”, che si batte per “affermare il diritto di migrare, la libertà di circolazione e la giustizia globale per tutti e tutte”.
Di fronte al massacro continuo e alle reclusioni illegali nei centri di detenzione, l’intento è quindi quello di rompere il silenzio per ricordare le vittime e denunciare le violenze lungo la rotta balcanica, l’attraversamento del Mar Mediterraneo, del deserto del Sahara o di quello dell’Arizona, così come alla Frontiera Sur Messicana.
Parlando apertamente di ‘genocidio’, vengono messi sotto accusa i governi per l’elevato numero di vittime di un sistema di controllo, perpetrato con la militarizzazione e l’esternalizzazione delle frontiere, che rendono sempre più pericolose le rotte migratorie.
Il caso della strage di Tarajal e del proscioglimento dalle accuse degli agenti responsabili, ripropone poi l’impunità per questo sistema repressivo.
Proprio per questo, gruppi di familiari di migranti deceduti, dispersi e/o vittime di sparizione forzata si sono incontrati nel 2019 a Oujda (Marocco) per la prima giornata di CommemorAzione, rivendicando la libertà di circolazione e giustizia nel trattamento di persone, che non devono essere equiparate a meri numeri.
L’invito ad unire le forze e connettere le iniziative di sensibilizzazione è stato sottoscritto e rilanciato da oltre sessanta organizzazioni prevalentemente europee ed africane, fra cui anche Transform!Italia, insieme ad Alarm Phone, Association Maghreb Fraternité, Project Missing at the borders, Énergie pour les Droits de L’homme (Senegal), Plataforma Personas Refugiadas Mérida, Borderline-europe Menschenrechte ohne Grenzen e.V. e molte altre ancora.
Sui canali social sono state condivise le immagini delle iniziative di qualche giorno fa, da Marocco, Germania, Turchia, Spagna, Francia, così come le foto delle vittime della strage del 2014. In Italia alcune iniziative si sono svolte a Milano, Porto Recanati e Messina.
Quella che a più riprese viene definita come “un’emergenza migratoria” rappresenta la ricaduta sociale ormai di tipo strutturale di un sistema di sfruttamento predatorio di risorse e persone, che sono costrette da condizioni di deprivazione insostenibili a cercare prospettive migliori altrove. Di fatto poi la retorica emergenziale torna utile a censurare i problemi legati alla preclusione della mobilità internazionale per molte persone provenienti da paesi extra-UE, con cui si fanno accordi commerciali o di libero scambio, che però spesso non riguardano la libertà di circolazione.
Uno dei casi esemplari a proposito è il Senegal, dove i fattori ambientali e la crisi petrolifera hanno spinto molte persone a lasciare il paese già dagli anni ‘70, con un’intensificazione dei flussi in tempi recenti, nonostante l’inasprimento delle politiche di ingresso in Europa.
Il propulsore principale dell’emigrazione qui è l’impoverimento crescente, dovuto anche alla riduzione delle risorse ittiche, causate da concessioni poco trasparenti delle licenze di pesca agli armatori stranieri, che ha precorso la cosiddetta “chiamata a prendere il largo” da parte di giovani disposti ad affidarsi ai trafficanti di esseri umani.
Così il Mediterraneo del terzo millennio si è trasformato da alveo di scambi fra popoli – pur contaminati dalle mire coloniali di molti stati europei – in un vero e proprio cimitero in mare aperto, che anche nel 2021 ha registrato oltre 1860 vittime di naufragio, con un tragico primato rispetto ai due anni precedenti, soprattutto per la rotta centrale proveniente dalla Libia. Qui la sedicente ‘guardia costiera’ ha provveduto a catturare oltre 32.400 migranti fino allo scorso periodo natalizio, riportandoli in quei noti ‘lager’ finanziati dagli europei, dove vengono perpetrati trattamenti inumani e degradanti.
Perciò nei giorni scorsi, in occasione dell’anniversario del Memorandum Italia-Libia, sottoscritto nel febbraio 2017 dai rispettivi capi di governo, Gentiloni e Al Sarray, su iniziativa dell’allora Ministro degli Interni Minniti, molte ONG – fra cui Amnesty International e Medici Senza Frontiere – hanno pubblicato un appello al Presidente della Repubblica Mattarella per la cancellazione dell’accordo ed il rispetto degli obblighi internazionali di protezione, da sistemi di estorsione ed abusi perpetrati in questo periodo anche con finanziamenti italiani ed europei.
Oltre a portare avanti attività di soccorso umanitario in mare, sopperendo alla coplevole indifferenza delle autorità dei paesi UE, le organizzazioni italiane insieme alle loro corrispondenti libiche – come la Commissione per i Diritti Umani della Libia – hanno ribadito che l’area non rappresenta “un porto sicuro”, chiedendo al governo di Roma di rivedere radicalmente entro la scadenza del prossimo novembre il sostegno alla guardia costiera, definito in una missione conoscitiva indipendente delle Nazioni Unite alla base di violazioni e crimini contro l’umanità.
Il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, in un rapporto presentato a gennaio, aveva infatti dichiarato di essere “gravemente preoccupato” per le continue violazioni dei diritti umani contro i rifugiati e i migranti in Libia, inclusi casi di violenza sessuale, tratta di esseri umani ed espulsioni di massa.
Lo scontro fra la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali con le priorità governative di controllo delle frontiere, esternalizzando a paesi terzi questo compito, è così stridente e contraddittorio, che le stesse notizie delle istituzioni europee tradiscono ogni retorica.
Le recenti dichiarazioni del portavoce della Commissione UE sulle ‘condizioni inaccettabili dei migranti nei centri di detenzione in Libia” fanno incredibilmente il paio con l’annuncio del capo dell’Unità Programmi regionali presso la Direzione delle Politiche di Vicinato e Allargamento della Commissione Europea, Henrike Trautmann, sull’imminente consegna di cinque nuove imbarcazioni per le attività di “ricerca e soccorso” alla Guardia costiera libica, che nei mesi scorsi ha tradotto questa consegna in pratiche così solerti da arrivare ad aprire il fuoco contro i naufraghi intercettati.
Viene da chiedersi come sia spiegabile un simile obolo militare a fronte delle posizioni espresse dall’ONU e della stessa operazione aerea e navale europea denominata ‘Irini’, che dovrebbe monitorare un certo embargo di armi, che la stessa UE non sembra rispettare.
Nel frattempo, la rappresentante speciale dell’UE per il Sahel, Emanuela Del Re, ha messo in guardia sull’effetto domino della perdurante instabilità libica anche in altri stati dell’area, dove si stanno susseguendo crisi politiche profonde con numerosi colpi di stato militari, come in Mali, Burkina Faso e Ciad.
Dallo scorso gennaio inoltre è diventata operativa la nuova ‘Agenzia dell’Unione Europea per l’Asilo’ (EUAA) con il compito di “migliorare il funzionamento del sistema europeo comune di asilo, fornendo maggiore assistenza operativa e tecnica agli Stati membri e garantendo una maggiore coerenza nella valutazione delle domande di protezione internazionale”. Questo in ottemperanza agli otto piani di azione varati lo scorso ottobre dal Consiglio Europeo per i paesi di origine e transito dei migranti, con lo scopo niente meno che di sviluppare “rimpatri efficaci e la piena attuazione degli accordi di riammissione”.
In attesa che si concretizzi il famigerato ‘Patto per la Migrazione e l’Asilo’, vacante nell’iter inter-istituzionale europeo dal 2020; da gennaio 2021 sono stati infatti registrati 11.901 respingimenti alle frontiere interne ed esterne dell’Unione Europea, il 32% dei quali riguardanti persone provenienti dall’Afghanistan, alle quali è stato negato il diritto di fare richiesta malgrado vi siano tutti i requisiti.
Proprio pochi giorni fa l’UNHCR ha rivolto alla Presidenza del Consiglio Europeo una raccomandazione formale all’interruzione dei respingimenti, richiamando al rispetto delle disposizioni della Convenzione di Ginevra, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (art.4) e della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE (art.19), che non sembrano avere di fatto più alcuna rilevanza nella prassi corrente.
A tenere banco nei mesi scorsi è stata soprattutto la vicenda del confine con la Bielorussia, definita dall’UE un “attacco ibrido” da parte del governo di Minsk, con il ricatto dei migranti sul confine orientale, per cui si è arrivati all’elaborazione di una proposta europea, che prevede addirittura la sospensione di alcune prerogative sull’asilo nei tre paesi limitrofi di Polonia, Lettonia e Lituania.
Non meno vessatoria è la relazione con il regime di Erdogan, con cui gli accordi quinquennali in materia di immigrazione sono attualmente in fase di rinegoziazione.
Nell’inter-regno di apparente superamento dell’emergenza pandemica, derive nazionaliste ed autoritarie sembrano riproporre meccanismi di emarginazione e violazione dei diritti umani, tali da da chiedersi quanto resti di quell’Europa “accogliente”, che si trova a fare i conti con il proprio retaggio storico di potenza coloniale, prediligendo in modo del tutto reazionario la ragione di stato, anzi di governo – scandita dalle scadenze elettorali e dalle guerre fra poveri in un contesto di compressione dei diritti sociali e politici – allo Stato di Diritto.
Non resta che la società civile, il più possibile organizzata e collegata da reti internazionaliste, che riescano a superare il dualismo migranti-nativi, declinando su scala mondiale quella solidarietà e quelle rivendicazioni di per sé senza confini.
Tommaso Chiti
INFO:
https://vimeo.com/154265793?fbclid=IwAR1ZL7FLE2NqLWEKZMhWyvuGnqrWLDnBUUPuKPaFCFL0yjzY5xgyLuhoKug
https://www.medicisenzafrontiere.it/news-e-storie/news/accordo-italia-libia-migranti/
https://www.consilium.europa.eu/it/infographics/migration-flows/
https://www.europarl.europa.eu/infographic/welcoming-europe/index_it.html#filter=2020