Di Stefano Galieni – Quanto sta accadendo in buona parte d’Europa e non solo, con l’affermarsi di populismi identitari, xenofobi e per propria natura stessa escludenti, mette la parte più attenta della sinistra in condizioni di allarme e di emergenza. Non mi riferisco certamente a chi, da noi come negli altri paesi, ha provato a cavalcare simili impulsi ammantandosi di una veste progressista e pensando così di sottrarre terreno alle destre.
Costoro si sono dimostrate pallide fotocopie di chi invocava il pugno di ferro, di chi terrorizza evocando presunte invasioni, sostituzioni etniche e religiose, criminali che profittavano delle nostre leggi troppo permissive o al più disperati che abbassavano il costo del lavoro. 10 anni di crisi economica, di politiche di austerity, di imbarbarimento sociale, hanno di fatto annientato chi pensava di poter ripetere l’ipocrita litania del “coniugare accoglienza e sicurezza”. Oggi vince l’idea del paese chiuso, pronto a respingere e a cacciare chi non è ritenuto compatibile, addirittura vince il messaggio puramente propagandistico secondo cui, non volendo intervenire sui fattori di reale diseguaglianza sociale, si eliminano un po’ di “esclusi” per far credere che in questa maniera la redistribuzione possa aumentare. Un falso certamente ma che vince perché disabituati da decenni a comprendere quali siano le cause del disagio sociale, si combatte contro chi sta un gradino più in basso nella scala sociale riconosciuta invece che affrontare chi determina tale gerarchia ormai considerata naturale. Si crede insomma alla guerra fra poveri quando in realtà è in atto una spaventosa e crudele guerra “contro i poveri”, gli sfruttati per meglio dire.
Partendo da queste banali premesse forse si dovrebbe inquadrare quanto accade nelle società europee superando la dicotomia fra “frequent flyers” e comunitaristi, operando una distinzione che è soprattutto, ma non solo, di classe. I paesi dell’UE, con tempi e modalità diverse, hanno modificato la propria composizione sociale in virtù dell’arrivo di persone provenienti da altri contesti. Prima quelli delle ex colonie (soprattutto in Francia e Gran Bretagna, poi quelli chiamate da ottime prospettive occupazionali e miglioramento delle proprie condizioni di vita, soprattutto in Germania e Nord Europa ma anche in Italia.
E parlando proprio dell’Italia, oggi nell’occhio del ciclone per il governo “giallo verde” appena insediato, da noi questa stratificazione si è estremamente diversificata nel corso degli anni. In tante e tanti (per un certo periodo oltre 300 mila persone l’anno) si arrivava in condizioni di irregolarità, si riusciva tramite una delle numerose sanatorie ad ottenere i titoli di soggiorno, lentamente emergeva una forte mobilità sociale che permetteva di fuoriuscire dalla marginalità e di trovare occupazione non solo nelle nicchie economiche più vulnerabili e meno retribuite. Ne è prova la forte crescita di imprenditorialità (soprattutto edilizia e commercio) la specializzazione in alcuni settori come la ristorazione, col risultato che si costruivano o si ricostruivano nuclei familiari, nascevano figli che trovavano inserimento nei circuiti scolastici, avvenivano insomma faticosi processi di inserimento sociale, economico e culturale di tutto rispetto.
Guardando le classi di ogni ordine e grado, sentendo parlare figli e a volte ormai anche genitori di seconda generazione, si fa difficoltà a non considerare milioni di persone come cittadini a tutti gli effetti. Solo una vetusta e miope legge sulla cittadinanza ha impedito di facilitare tali percorsi insieme alla diffidenza tipica di chi vede mutare il tessuto sociale in cui vive e lo percepisce come foriero di preoccupazione. Grande assente è stata la politica che ha nei 30 anni passati preferito un approccio proibizionista ed emergenziale, non solo discriminatorio ma sovente inefficace anche ai fini di quello che veniva chiamato pomposamente “governo del fenomeno”. Nel frattempo l’Europa, nata già come fortezza nei confini dello “spazio Schengen” (libera circolazione solo per i cittadini dei paesi compresi in tale area), alzava inutili muri, fomentava la creazione di ulteriori confini esterni ed interni, arrivava ad esternalizzare, ad est e a sud le proprie frontiere.
L’arrivo della crisi ha drammaticamente peggiorato la situazione. E l’assurdo è che paesi come l’Italia in cui l’immigrazione si è dimezzata, ridotta all’ingresso di soli richiedenti asilo in assenza di canali regolari per entrare a cercare lavoro, in cui i confini settentrionali hanno definito i limiti della gabbia del Regolamento di Dublino, ha cominciato a vivere la presenza dei nuovi arrivati come vera sindrome d’assedio. Le forze populiste hanno cresciuto i propri consensi anche grazie al fatto che chi arriva oggi è percepito o come un pericolo o come ennesimo soggetto che sottrae risorse di una coperta sin troppo corta. La coperta potrebbe contenere molte più persone ma le politiche perseguite hanno fatto si che anche cittadini stranieri, stabilmente residenti, percepiscano oggi chi arriva come un proprio ostacolo.
La xenofobia giallo verde cosa potrà fare per peggiorare ulteriormente la situazione? Difficile dirlo. Molto hanno già fatto di proprio i governi di centro sinistra tanto che Salvini non perde occasione per lodare il lavoro svolto dal suo predecessore del Pd Marco Minniti che, tra accordi con il governo e le milizie libiche per rispedire nei centri di detenzione e tortura i fuggitivi, gestione scellerata del sistema d’accoglienza, creazione di nuove strutture di contenzione come gli hot spot, ha già tracciato la rotta. L’Intenzione di Salvini e del Presidente del Consiglio Conte è stata più volte dichiarata ma difficilmente sarà eseguibile. Bocciando la riforma del Regolamento Dublino in sede UE si vorrebbe tornare ai respingimenti di massa del 2012, proibiti dalla Convenzione di Ginevra e dalla Convenzione Europea per i Diritti Umani e questo potrebbe avere ripercussioni tanto diplomatiche quanto giudiziarie. Estendendo il “reato di solidarietà” per chi soccorre, in terra o in mare, persone in difficoltà aprirebbe un vulnus giuridico che potrebbe far saltare l’intero impianto europeo.
Chi definisce le Ong “vice scafisti” non solo ignora le leggi del mare ma è privo di qualsiasi pudore, si augura di fatto che quella fossa comune che è oggi il Mediterraneo Centrale (30.000 morti accertati in 15 anni), debba colmarsi ancora di più e inutilmente perché vogliono o non vogliano le frontiere continueranno ad essere violate a qualsiasi costo. Rimpatriare le persone prive di documenti in paesi di transito o in quelli di provenienza con cui non si sono stipulati accordi bilaterali, non solo sarebbe difficile e costoso, ma porterebbe all’apertura di gravi procedure di infrazione presso la Corte Europea (CEDU), presso cui l’Italia è da tempo presa sotto mira. Ma non solo, per tornare all’origine di quanto scritto, l’esasperazione dei provvedimenti di carattere repressivo, aprirebbero veramente le porte a tensioni diffuse e di difficile gestione per chiunque. In queste ore piangiamo in molti la morte di Soumayla Sacko, il sindacalista, bracciante del Mali ucciso perché sorpreso insieme a due compagni a cercare lamiere in una fabbrica dismessa per aiutare altri a ricostruirsi una baracca. Per lui ci sono state mobilitazioni in tutta Italia degli sfruttati insieme a tanti silenzi. Silenziosi il ministro dell’Interno e quello del Lavoro (i due leader della nuova maggioranza), silenzioso il Capo dello Stato, tardive le parole del Presidente del Consiglio che ha considerato grave la morte di un migrante regolare (come se l’assenza di un titolo di soggiorno rendesse meno grave un omicidio). E balbettanti il centro sinistra fino a ieri al governo e la segretaria del più importante sindacato italiano.
Azioni e silenzi che istituzionalizzano questa gerarchia che, ripetiamo, è soprattutto di classe, di genere e di ordine etnico, laddove i 3 fattori combinati determinano il livello di marginalità in cui si può essere confinati, sfruttati financo uccisi. Dobbiamo impedire che diventi questa la mappa sociale dei prossimi anni, tornare a utilizzare parole di giustizia ed eguaglianza, magari partendo dai campi, come faceva Di Vittorio o, per tornare ad anni più vicini, come accadde dopo l’uccisione del rifugiato sudafricano Jerry Maslo nelle campagne di Villa Literno, nel 1989. Allora la parte migliore di un paese si mosse per diminuire la distanza oscena fra un “noi” e un “loro”, totalmente artificiale. Dovremmo provare a farlo anche ora.