di Cantiere delle idee – Un gruppo di ricercatori ha dato vita ad un “Cantiere delle Idee” che ha svolto una serie di interviste tra persone appartenenti a ceti popolari in 4 città (Cosenza, Firenze, Milano e Roma). Quella che pubblichiamo è la bozza di analisi e di interpretazione di questo spaccato di pensiero popolare.
Nuclei di analisi del primo blocco tematico: condizioni di vita, quartieri, Italia, responsabilità, conflitti
Per quanto riguarda i quartieri, viene segnalata soprattutto la presenza o l’assenza di: collegamenti (mobilità); servizi; degrado (strutture fisiche, rifiuti, ecc.). Molto dipende dalle città: a Milano più soddisfazione per la vita nel proprio quartiere, benché periferico, che a Roma e, soprattutto, a Firenze. Segnalato ma non molto il tema della casa e delle condizioni delle abitazioni. L’accento è soprattutto su mobilità e servizi.
Si lamenta molto la mancanza nei quartieri di reti di socialità e spazi di ritrovo, aggregazione, discussione, ecc. I problemi segnalati relativamente alla città nel suo complesso, sono analoghi a quelli segnalati per il quartiere. Si lamenta molto nello specifico la mancanza di rete fra le associazioni. Dove ci sono, restano isolate.
Colpisce come solo alcuni abitanti delle Piagge (Firenze) abbiano toccato il tema della discriminazione subita, abbiano raccontato di come loro siano gli esclusi rispetto al resto della città. Forse perché parte degli altri intervistati non vivono nelle case popolari? Forse perché i quartieri si stanno così chiudendo che manca il confronto con il resto della città? Vergogna a parlarne? Interessante in questo senso il tema dei trasporti e dei collegamenti.
La sporcizia: tema molto sentito. Anche in questo caso sarebbe interessante capire di cosa è fatto. Certamente del dato letterale: i quartieri popolari vengono puliti e curati molto meno di altre parti di città. Ed è noto che sporco chiama sporco. Ci si abitua, diventa il paesaggio ordinario e non si trova più la molla per reagire.
Non sono quasi mai segnalati problemi diretti, concreti, con i migranti, nemmeno dagli intervistati apertamente anti-immigrati (se non: “sono troppi”). I pochi problemi diretti nei quartieri sono evidenziati soprattutto da anziani.
I problemi segnalati più insistentemente rispetto all’Italia sono: a) il lavoro, da diversi punti di vista: perché non c’è; perché si lavora male, troppo, con troppo poco potere, con nessuna voce in capitolo rispetto alle decisioni dei capi; perché è pagato troppo poco; perché è troppo precario, questione segnalata soprattutto da genitori relativamente ai propri figli. b) La sanità. Tantissimo, in particolare, i problemi legati all’avere parenti a carico, l’assenza di sostegno istituzionale per situazioni di grossa difficoltà, ecc. c) La sicurezza, in 3 versioni diverse: nelle interviste ai meno politicizzati, proprio come questione legata agli stranieri. In questi casi, è la ripetizione di slogan ‘alla Belpietro’; nei più sensibilizzati, come problema del razzismo da contrastare (si sente il dominio della tematica nel dibattito pubblico); da quasi tutti, come problema legato alla microcriminalità che rende insicuri. D) la casa. Questione soprattutto inserita nei problemi relativi al futuro/progetti di vita, e infatti usato soprattutto da coorti più anziane in riferimento ai figli. E) la mancanza di socializzazione, di rapporti di sociali, di cooperazione e aiuto reciproco tra le persone e tra le persone e le istituzioni.
Al Sud (Cosenza), il principale problema percepito è certamente l’assenza del lavoro, da cui poi discendono a cascata gli altri. La richiesta di lavoro pare in controtendenza con l’immagine del Sud assistenzialista.
Spesso sembra venga proiettato sui migranti, da parte di questi intervistati, il volto delle èlite. I migranti quindi sono descritti come: privilegiati; che godono di risorse e opportunità immeritate; che non devono fare alcuna fatica per accedere a servizi e possibilità irraggiungibili per ‘gli italiani’; sono prepotenti e non rispettano le regole e le leggi che la gente comune deve rispettare per forza. Sono le stesse caratteristiche che gli stessi intervistati attribuiscono spesso ai potenti e ai privilegiati.
Non poche volte, gli intervistati anti-immigrati mostrano in diversi passaggi dell’intervista una ‘coscienza di classe’ piuttosto sviluppata, e un discorso classicamente laburista e redistributivo.
Le responsabilità dei problemi segnalati sono attribuite quasi sempre a istituzioni pubbliche, a elementi dello stato, ma molto anche ai cittadini, agli italiani furbi che non rispettano le regole, egoisti, spesso descritti come ignoranti e manipolati dal potere e dai media. C’è una forte diffidenza verso i propri connazionali, non emerge quasi mai un senso di ‘identità nazionale’, né alcuna forma di patriottismo.
Emerge invece molto forte la sensazione di vivere in uno stato di natura, nella giungla selvaggia del tutti contro tutti e della legge del più forte. Si chiede quindi, tantissimo, la ricostruzione di un rapporto di reciprocità tra istituzioni e cittadini, la presenza dello Stato, la ricostruzione di una prevedibilità della vita sociale, anche con molta insistenza sulla necessità di regole riconosciute da tutti che lo stato faccia rispettare.
Soprattutto in chi è più vicino alla classe media, emerge molto il rimpianto per le aspettative tradite, per possibilità e sogni che si avevano e che non si è riusciti a realizzare, per colpa di una mancanza di opportunità di cui è responsabile prima di tutto lo stato. C’è una sensazione diffusa che si potrebbe riassumere così: “non mi è stato consentito di diventare ciò che sono”.
C’è anche una frattura generazionale. Sono i più anziani a essere preoccupati per i giovani che i giovani stessi. I giovani hanno desideri tutto sommato semplici, non enormi ambizioni: cose molto legate alla quotidianità; gli anziani pensavano più in grande e pensano più in grande per i loro figli.
La “felicità” resta un valore importante per i giovani (e si tratta di una felicità delle cose semplici); al contrario per i più adulti il tema della felicità è stato completamente accantonato, messo da parte di fronte alle difficoltà materiali della quotidianità.
Secondo blocco: politica, partiti, destra e sinistra, sindacati e imprenditori
Molto forte la richiesta di Stato. Si lamenta l’assenza o la responsabilità dello stato per tutte le situazioni problematiche e si vuole più Stato: più servizi, più efficienza istituzionale, più rispetto dei rispettivi diritti e doveri nel rapporto tra cittadini e istituzioni, redistribuzione della ricchezza, politiche pubbliche su lavoro, sanità, istruzione, sicurezza.
Non c’è una generica anti-politica. Rispetto a qualche anno fa, c’è un senso comune molto meno antipolitico: nel senso che c’è disprezzo e disgusto per i politici esistenti, un tasso nullo di identificazione con i partiti esistenti, la vicinanza allo zero assoluto come senso di appartenenza a forze politiche o anche solo come convinzione nelle scelte di voto. Da questo punto di vista, il rifiuto della politica esistente è fortissimo, quasi senza margini. Il termine ‘privilegiati’ è riferito quasi sempre ai politici, e i loro privilegi sono considerati universalmente inaccettabili, così come l’atteggiamento di chi fa scelte politiche solo o prevalentemente in funzione della conquista o del mantenimento del proprio status o del benessere economico.
Però, c’è anche un moto quasi opposto: una specie di invocazione per il ritorno della politica forte (anche in senso autoritativo, una voglia di autorità e di ‘ordine’). Nessuno dice che bisogna abolire i partiti o le istituzioni rappresentative, mentre in ricerche come questa, qualche anno fa, succedeva. C’è una specie di voglia di partito, anche di partiti forti, ma che devono essere, nelle parole degli intervistati: fedeli a quello che dicono, competenti, fatti da persone disinteressate, eticamente inappuntabili, seri, coerenti, con una visione complessiva e di lungo periodo, concreti e pragmatici nei programmi, fisicamente visibili e presenti nella vita quotidiana dei cittadini, che non ingannino gli elettori trattandoli come ‘consumatori’ a cui vendere promesse poi non realizzate.
C’è un senso comune, rispetto alla politica, anche molto delegante: c’è poco l’idea di una voglia diretta di attivarsi, e quasi nessuno fa la richiesta che i partiti siano democratici al proprio interno. C’è piuttosto la voglia di avere qualcuno in cui riconoscersi, a cui affidarsi, che sembri in grado di offrire soluzioni.
Non c’è, quindi, nemmeno tra chi partecipa più attivamente alle associazioni a cui ci siamo appoggiati, un ‘senso comune movimentista’, che era molto più diffuso qualche anno fa, né particolare attenzione al tema della partecipazione attiva. Dei partiti, per esempio, non interessa come sono organizzati internamente, se siano democratici e aperti o meno: interessa che siano ‘giusti ed efficaci’, soprattutto efficaci.
C’è comunque una certa fiducia nella democrazia rappresentativa. Magari si dice “questi politici fanno schifo”, però è spesso ribadita l’importanza di votare e la necessità di essere rappresentati.
I potenti, quelli che comandano, sono descritti come un’elite unificata: banche, multinazionali, industriali, super-ricchi, i politici, la Mafia, a volte l’Europa e la Chiesa. I politici e la politica sono considerati il vertice di questa catena solo da pochi intervistati. Molti li considerano marionette gestite dai potenti economici. La politica è vista più come debole che come forte. I politici, sono descritti come pagati, gestiti, controllati da chi ha i soldi.
In generale, rispetto alla propria situazione lavorativa o alla situazione del lavoro in generale, si usano termini e modalità descrittive dei rapporti di lavoro riconducibili al tema dello sfruttamento. Forse invece è eccessivo di parlare di “coscienza di classe”: ci si ritiene sfruttati e, a volte, schiacciati nella condizione e nei rapporti di lavoro, ma difficilmente questa descrizione viene riferita a un “Noi” o ricondotta alla necessità di intraprendere azioni collettive (succede, in alcune interviste, ma poco).
Tuttavia, questa parte delle interviste richiama una necessità nuova di dotarsi di un linguaggio che sappia parlare non solo a chi il problema del lavoro lo vive da disoccupato, ma anche a tutti i problemi che si vivono sul posto del lavoro, dal salario, alle condizioni, ai rapporti con i superiori. Su questo c’è una grande frustrazione e rabbia silente: quello che succede dentroi posti di lavoro è uscito dal dibattito pubblico, ma è molto presente nella vita delle persone.
Torna quasi sempre la frase: comandano i soldi. Tutto è gestito dal principio economico. Ma questo non da quasi mai vita a un discorso che abbia elementi di anti-capitalismo. Spesso c’è un atteggiamento favorevole alla concorrenza economica (contro le cricche, i circuiti chiusi, i favoritismi, le raccomandazioni, i monopoli, le posizioni di privilegio acquisito, ecc.), al mercato, alla possibilità di scelta del consumatore, al fare impresa, se gli imprenditori sono corretti verso il lavoro, la società e l’ambiente, e alla ‘meritocrazia’.
Nello stesso tempo, c’è una voglia sotterranea di liberarsi da questo dominio del denaro e dalla vita a cui costringe: stressante, che non lascia tempo nemmeno per gli affetti, interamente dominata dall’interesse egoistico che inquina e rompe le relazioni.
Questo non diventa mai una critica o un atteggiamento di diffidenza per il mercato in quanto tale né per gli imprenditori in quanto tali, ma prevalentemente per i loro aspetti più palesemente negativi nella vita quotidiana e nel lavoro.
La frase su cui abbiamo chiesto di esprimersi (“se uno è ricco, vuol dire che ha lavorato e se lo è meritato”), è considerata vera da una minoranza degli intervistati. Molti fanno obiezioni sulla disparità di opportunità e sul fatto che chi è ricco spesso è nato ricco.
Dall’altro lato, sulla seconda frase su cui abbiamo chiesto di esprimersi (“se uno nella vita si impegna, ce la fa), c’è un certo accordo di fondo, soprattutto nelle fasce di età superiori, nella convinzione (o speranza) che l’impegno paghi: ha fatto cioè abbastanza breccia la retorica che uno sia artefice del proprio destino personale.
C’è un atteggiamento contraddittorio rispetto all’ideologia. Da una parte, emerge un post-ideologismo fortissimo: anche chi si dichiara comunista o crede nel conflitto capitale/lavoro, tende a dire che non bisogna usare vecchi stilemi, linguaggi, categorie, ma che bisogna rinnovare il linguaggio e le forme espressive. Appena una cosa sembra ‘vecchia’ suscita diffidenza o lontananza.
Le interviste sembrano spesso un manifesto del post-moderno: è una babele di riferimenti, discorsi, valori, principi, spesso contraddittori anche nello stesso individuo. Nello stesso tempo, c’è una richiesta forte di strumenti, categorie e concetti per capire la realtà. Alcuni chiedono esplicitamente una nuova ideologia.
Ma il bisogno è soprattutto di senso, di significato, di comprensione, di mappe per orientarsi. Perché l’incomprensione della realtà mette ansia tanto quanto l’incertezza materiale. Le persone si sentono perse nel caos dell’assenza di riferimenti: nell’anomia, usando una classica espressione sociologica.
In questo senso, spesso la differenza sinistra/destra è considerata ormai inattuale, e se non la si considera tale teoricamente, astrattamente, la si percepisce così nella concreta situazione italiana. La sinistra è considerata, in Italia, da tutti inesistente. Per questa ragione la dicotomia destra/sinistra è vissuta come poco saliente: non si vede nessuno incarnare uno dei due poli.
Nonostante tutto questo, i principi dell’eguaglianza e della redistribuzione della ricchezza resistono, e sono presenti. Come se ‘la sinistra’ fosse presente in alcuni dei suoi contenuti tradizionali, ma non in quanto tale.
Tutta la sinistra è sostanzialmente assente dalla vita e dalla coscienza degli intervistati. Non c’è sul territorio e non c’è nella narrazione. I termini usati sono: scomparsa, sbiadita, introvabile, compromessa, subalterna. Impressiona la mancanza di distinzioni all’interno della sinistra. La sinistra è sostanzialmente accomunata tutta la PD ed è giudicata quindi come assente o corresponsabile.
C’è un grande senso di impotenza. In diversi pensano che i potenti siano troppo potenti e ci sia poco da fare, che la gente sia troppo menefreghista per organizzare risposte collettive, e che le persone siano state troppo raggirate (il ‘raggiro’ è molto presente, con atteggiamenti quasi-paranoici in cui tutto è deciso, predisposto dall’alto, per raggirare le persone), troppo manipolate, che i cittadini abbiano una volontà labile. Si aspetta che qualcuno/qualcosa intervenga per riaprire una possibilità di cambiamento, più che pensare che questo sia possibile grazie all’attivazione diretta.
Il sentimento secondo il quale io partecipo di una condizione comune a quella di altri e altre e quindi mettendoci insieme e lottando, questa condizione potrebbe essere cambiata sembra ormai assente. Non si individuano né le possibilità, né gli strumenti per farlo. È come se si fosse introiettata l’idea che la situazione non è modificabile, non è il frutto di scelte che potrebbero essere cambiate, ma costituisce una sorta di dato naturale, immodificabile. Gli unici strumenti a cui viene assegnata una certa efficacia potenziali sono il voto e una ipotetica azione sindacale forte e continua.
C’è anche effettivamente un riflusso nel privato, alcuni lo dicono chiaramente: sono impegnato a risolvere i problemi quotidiani e non ho tempo per seguire vicende politiche. Inoltre ci si attiva solo quando c’è una questione da cui si è coinvolti direttamente.
L’autoidentificazione (chi siamo noi?) è debole. Sembra determinante un autoriconoscimento in categorie universalistiche come quelle di ‘persone’, ‘esseri umani’, o cittadini, senza precise categorizzazione sociali, professionali o politiche. E, di conseguenza, lo stare insieme, lo stare bene tra persone, avere legami di fiducia e di affidamento reciproco, è considerato centrale.
Contraddittoriamente, si vuole allo stesso tempo che le forze politiche abbiano proposte forti e che le identifichino e le differenzino tra loro – c’è quindi un bisogno di polarizzazione, nettezza, bianco e nero, dicotomie chiare – e si chiede però, spesso, che si superino litigi e contrasti inutili tra i politici. Nel ‘basso’, si auspica l’unità di tutti: di tutti i cittadini, di tutto il popolo, di tutte le ‘persone’. È una sorta di ‘voglia di comunità’: la costruzione di una comunità nazionale, con istituzioni forti, pur in assenza di patriottismo e sentimento nazionale.
Non emergono sogni di trasformazione sociale, ma aspirazioni di ricostruzione di condizioni di vita normali, dignitose, e speranze per una vita individuale migliore e per una socialità più forte, densa, meno conflittuale.
Diffusa la richiesta di riduzione e semplificazione della politica istituzionale, del numero dei partiti e di politici professionisti, di riduzione quindi della spesa e della ‘complessità’ politica.
Alcuni auspicano l’eliminazione dei partiti piccoli e addirittura un’intervistata (Cosenza) preferirebbe avere un solo partito.
I sindacati vengono raccontati/descritti in modo piuttosto analogo ai partiti: sono importanti, potrebbero avere un ruolo fondamentale, ma quelli che ci sono hanno deluso, si sono allontanati dalle persone. Tuttavia, c’è una riserva di fiducia e speranza nei loro confronti nettamente superiore a quella riservata ai partiti esistenti. In molti esprimono il desiderio di avere al fianco, sul posto di lavoro e anche sulla scena nazionale, un sindacato combattivo, forte, capace di farsi rispettare dalle aziende e ottenere risultati concreti.
Terzo blocco: informazione
Rispecchia quello che emerge nella sfera valoriale e politica. Ci si informa in modo frammentario, attraverso una pluralità piuttosto sconnessa di mezzi, spesso in modo sporadico. Non ci sono quasi mai fonti informative di fiducia: non si hanno punti di riferimento in questo campo. TV e giornali sono considerati spesso poco affidabili. Più affidabile Internet.
Sotto i 30 anni, si dichiara di non accendere la televisione.
Tra i più giovani predominano Youtube, Whatsapp, Instagram, più di Facebook e, soprattutto, di Twitter, che non viene sostanzialmente mai citato. Alcuni sostengono non riuscire a ‘staccarsi’ da questi mezzi, anche quando se ne avrebbe voglia, di passarci molte ore, facendoli diventare di fatto sostitutivi di tutte le altre forme di informazione e intrattenimento: libri, giornali, cinema, ecc. Si prova quindi a fine giornata una sorta di sensazione di ‘svuotamento’ per il tempo passato davanti allo schermo, usato come forma di intrattenimento più che di informazione, provando quasi un senso di colpa per non aver fatto cose percepite come più costruttive.
Mancanza quasi totale di punti di riferimento autorevoli tra i personaggi pubblici. Pochissimi sono citati. Non ci sono figure di cui si segue il messaggio, almeno esplicitamente e consapevolmente.
Si può notare una sorta di “localismo” dei personaggi citati: Firenze: Benigni & co. Roma: Moretti, Germano, Costanzo, Dandini, Zoro. A Milano: personaggi Mediaset tra i meno giovani.
Ci sono riferimenti a un interesse per un’informazione che sappia apparire ‘tecnica e neutrale’: il Sole 24 Ore è in certi casi definito come giornale non solo autorevole ma “imparziale”, per esempio, ma anche Il Fatto quotidiano e Travaglio, per esempio, piacciono perché sembrano, stare, appunto, sui “fatti”, neutralmente, senza lenti ideologiche preconcette.
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