“Si narra che sulle sponde del lago Svetlojar, perso nelle foreste della regione di Niznij Novgorod, a nord del Volga, si trovasse la favolosa città di Kitez. Quando i tartari arrivarono per conquistarla attraverso un sentiero segreto rivelato da un traditore, la città si inabissò nel lago e scomparve lentamente di fronte agli occhi stupefatti degli invasori. L’ultima cosa che brillò sull’acqua prima di affondare insieme a tutto il resto fu la cupola dorata della chiesa. Per dieci giorni e dieci notti i tartari cercarono di ritrovarla, ma invano.
Si narra anche che Kitez viva ancora, sott’acqua, segreta, con tutti i suoi abitanti. E può capitare ai viandanti fortunati, dicono le cronache tarde degli scismatici, di intravederne i contorni bianchi e oro sotto la superficie del lago, e di udire il suono sordo delle sue campane”.
Si può riscoprire Kitez? Si può riscoprire la vita di un padre, tutta dentro una città ormai sommersa dal tempo, che si è ignorata quando egli era ancora in vita?
Marta Baroni, nata nel 1987, oggi traduttrice e curatrice di libri e a sua volta autrice di libri “per bambini” ha debuttato nella letteratura “dei grandi” con questo La città sommersa uscito nel 2020 e meritatamente finalista dello Strega e vincitore del Vittorini. E la Kitez, tratta dalle città invisibili di Calvino, che inserisce ad un certo punto del suo libro, è una chiave di lettura.
Forse tra i libri più belli che ho letto su un’epoca, quella degli anni dei conflitti italiani, che Marta Barone ricerca e, letteralmente, rivive ricercando e rivivendo suo padre, Leonardo Barone, medico e proletario, militante di Servire il popolo, processato e poi assolto per accuse di partecipazione (come medico) a Prima Linea.
Al centro c’è Torino, la città dove Barone arriva per fare il “funzionario” di Servire il popolo, nel modo in cui era previsto dal partito, spogliandosi di tutto e vivendo da proletario.
Ma l’incipit è Milano, laddove Marta si trova sola e straniata, per la prima volta consapevole della morte e del senso che essa dà alla ricerca della vita, del sentire del corpo. Che è anche la ricerca del senso della letteratura che vorrebbe fosse, come un tempo, una esperienza collettiva e vitale, e che non lo è più.
Anche per questo si rivolge a ciò che della vita del padre non sa, e cioè quasi tutto. Una ricerca di un maschile mai dimentica del lato femminile della sua storia di donna nata da una madre cui manca un pezzo di testa per un incidente che ha cambiato il corso degli eventi. Una madre brevemente moglie di un padre di cui si ignora il passato e che rapidamente passerà oltre, fino a svanire nella morte.
Molte donne la aiutano nella ricerca di una vita, di una storia. C’è un vuoto nel presente forse anche perché quella storia è dissolta. Il personale e il politico si intrecciano nel libro non come nei matrimoni rossi cui Servire il popolo spingeva chi militava per “curare ogni pessimismo e ogni malinconia” grazie al partito che si occupa di ogni parte della tua vita. No, Marta è guidata verso quella vita e quella storia da un amore rispettoso e intenso, dal voler e saper farsi attraversare da ciò che essendo le ha dato la vita. Non disprezzare le nostre storie, le dice un vecchio miliante di Servire il popolo. E lei quelle vite le cerca. E lo fa cercando la sua. Sentire per vivere. Sentire Monte Sant’Angelo, in Puglia, dove L.B. (così chiama suo padre) è nato. Roma, dove arriva e vive i fatti di Valle Giulia (troverà anche un frammento di immagine che le fa dire che allora è vero che è esistito) mentre studia brillantemente da medico e si consacra a Servire il popolo. Torino, dove lo manda il partito, non fa il medico ma vive da proletario, e vive ciò che vive la città. La Fabbrica. Le condizioni estreme dei migranti dal Sud che vi lavorano. I primi scioperi, poi sempre più grandi. Le lotte per la casa, drammatiche, come alle Cotte. i primi segni del riflusso e della controffensiva, durissima. La fine di Servire il popolo, con anche un drammatico, violentissimo, fatto “privato” a via Artisti. L’autonomia operaia come terra di mezzo. Bologna, il ’77 e la “lotta contro la repressione”. Le bombe e le uccisioni faaciste. Il terrorismo che fa la sua apparizione. A Torino si passa per l’atto terribile dell’Angelo Azzurro dove cercando di vendicare Walter Rossi finisce a fuoco un proletario. Dallo sconvolgimento che ne segue le strade tra riflusso e militarizzazione, in particolare in Prima Linea, si divaricano ancor più. Marta Barone scoprirà un’altra parte di suo padre divenuto psicologo che cura tra gli altri anche alcuni reduci di un disumano manicomio per bambini il cui gestore medico era stato “gambizzato”. Il farsi psicologo è l’alternativa che L.B.si era dato. Prima però con via Fani era arrivata l’escalation che spiazza tutti. C’è chi “insegue” e chi viene spazzato via dalla repressione sui cosiddetti “fiancheggiatori”. L.B. è arrestato tra questi. Accuse generiche di violenza e proposta di confino. Scagionato ha però perso il posto in ospedale e va in fabbrica. I bivii si fanno sempre più stretti e drammatici. Marta lo scopre. A Torino i fatti terribili, le spirali tragicamente violente si moltiplicano. Prima Linea ne è tra i protagonisti. L.B. viene accusato di farne parte e di aver curato un suo capo. Sparisce nelle carceri di sicurezza. Il processo lo scagiona. Ma prima del processo L.B. viene rilasciato e finisce nel tritacarne che è cominciato sul “pentitismo”. Con morti ammazzati per aver parlato e “confessioni interessate”, come quella che l’ha coinvolto. Quando esce si “sparla” anche di lui. La terra gli brucia intorno. Per lui è veramente troppo. Lascia tutto il suo vecchio mondo. Lei, Marta, va oltre le carte e decide di chiedere direttamente anche ai sopravvissuti di Prima Linea. Vuole guardare in faccia la verità. Che è la stessa del processo. C’è ancora il tempo di un rincorrersi tra i primi licenziamenti alla Fabbrica, una terribile gambizzazione alla scuola dirigenti e i licenziamenti stavolta di massa. E un ripartire per il terremoto dell’Irpinia. Ma L.B va altrove, fino a far nascere lei e poi ancora cercare altro, fino ad incontrare la malattia e la morte.
Marta Barone ricerca tutto questo nelle pagine dei giornali e nelle immagini dei cinegiornali con un lavoro lungo e intenso di scavo. Parla con chi ha conosciuto le varie vite di suo padre. Ricerca nella propria memoria. Di lui trova un solo scritto politico, non firmato ma certamente suo, di quando dopo la fine di Servire il popolo e delle sue granitiche certezze ricerca un nuovo rapporto tra testa e corpo. E trova gli atti del processo che lo accusa di aver curato feriti per Prima Linea. Non sfugge a niente e a nessuno per rivivere suo padre. Non è epoca da FB e telefonini. La ricerca è faticosa. Soprattutto, per Marta Barone è cercare di sentire quello che suo padre, quell’epoca, hanno sentito. Anche perché sotto quella città sommersa ce n’è un’altra, la sua, quella della sua vita, il mistero che suo padre le ha lasciato.
Per questo il libro è bello e sente come forse neanche chi ha vissuto è riuscito a raccontare. Sente vivendo l’oggi, facendo letteratura.