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Cercando di fuoriuscire dalla logica binaria

di Stefano
Galieni

“Gli apostoli di turno che apprezzano il martirio / Lo predicano spesso per novant’anni almeno / Morire per delle idee, sarà il caso di dirlo / È il loro scopo di vivere, non sanno farne a meno”, alcuni versi di una magnifica canzone di George Brassens che risale al 1972, tradotta e cantata due anni dopo da De André. Allora, l’idea di “martirio non era affatto considerata, dalle culture occidentali, come caratteristica di un islamismo barbaro e crudele, ma parte della Storia. Al punto che, ci si deve porre un primo interrogativo: ma non sarà che sarà che il fondamentalismo islamista, che comincia a prendere piede negli anni Ottanta, abbia mutuato anche dall’occidente tale pratica? Da circa 40 anni, il nostro impianto culturale coloniale, lega ogni fenomeno in cui si causano vittime, usando come arma il proprio stesso corpo, come legato al radicalismo islamista. Rappresentiamo poi nella vulgata e nel senso comune l’Islam intero come crudele e poco propenso a considerare il valore della vita, di più vite. Per una curiosa traslazione il dio vendicatore dell’antico testamento è sostituito da una percezione occidentale di Allah, quando nello stesso Corano si invita a rispettare sempre “la gente del libro”, (coloro che si riconoscono nelle altre religioni monoteiste), riservando l’odio agli atei e agli empi. Il termine martirio è comunque abusato. Erano martiri coloro che si lasciavano uccidere per le proprie convinzioni, senza voler danneggiare nessuno anzi fungendo da capro espiatorio, coloro che sono diventati santi o eroi della patria. Lo stesso termine è però utilizzato raccontando di coloro che hanno immolato la propria vita in azioni che hanno avuto lo scopo di poter causare il maggior numero di vittime nel campo ritenuto avverso. Lo sono stati i bombaroli dell’Ottocento quanto oggi i suprematisti bianchi che, con frequenza e sapendo che non li aspetta altra fine che la morte, si fanno mass murder e attaccano collettività specifiche per colore della pelle, fede politica, orientamento sessuale, religione professata. L’esempio dei kamikaze nipponici della Seconda guerra mondiale è quello che più si è imposto, tanto da aver fatto divenire il termine di uso comune e contemporaneo pur avendo agito durante un conflitto dichiarato, divenendo eroi per molti nostalgici.

La fase delle cosiddette guerre asimmetriche ha segnato un passaggio epocale e su questo si incentra un secondo quesito. Alla guerra tradizionale fra Stati nazione si è sostituita una condizione di totale assenza di equilibri che ha incrementato la distanza fra egemoni e subalterni. Su questa dinamica e a seconda del contesto in cui si vive, si costruisce il senso comune di quanto accade nella conflittualità. In pratica in base a dove sei e a quale ruolo occupi nella scala sociale, le azioni violente che avvengono sono definite: di guerra, di legittima difesa, di terrorismo. Il senso è insomma attribuito totalmente da chi in detto contesto ha ruolo di dominio? Ci sono infatti – frase ovvia – crimini “giustificabili” in quanto compiuti in nome dei valori del sedicente “mondo libero”, si pensi agli omicidi mirati, extragiudiziali, compiuti da agenti degli Usa, della Russia, delle altre potenze mondiali o regionali, in perfetta impunità, in quanto atti dovuti. Guai, nei media mainstream nostrani, ad utilizzare per simili azioni militari il termine “terrorismo”. Quanto compiuto da chi comanda e vince non è soggetto ad alcuna giurisdizione, legge morale, diritto internazionale, al punto che simili omicidi o persino stragi vengono definiti come “neutralizzazioni” del nemico.

Questi incipit, a tratti contorti, forse scontati, hanno lo scopo di introdurre un tema, ad avviso di chi scrive problematico. Se dagli anni Novanta, il tema delle guerre asimmetriche ha reso il “terrorismo internazionale” (quello interno è molto più complesso da analizzare), una chiave interpretativa mainstream, oggi è utile porsi una domanda più ampia, le cui risposte possibili offrono meno alibi. Il mondo unipolare dominato dagli Usa o, peggio ancora, quello fondato su una contrapposizione bipolare, non definisce più il presente. Esiste un multipolarismo che ancora non ha trovato un proprio equilibrio, esiste il dispiegarsi di una guerra mondiale frammentata, in angoli diversi del pianeta e con diverse caratteristiche, può essere utile trovare quegli elementi che accomunano i differenti punti di crisi, non con l’obiettivo di risolverli ma almeno di raggiungere, analizzandoli, maggiore consapevolezza.

Il conflitto arabo israeliano può essere visto come cartina di tornasole, ma va osservato rinunciando ad un approccio ancora profondamente coloniale. Da una parte c’è uno Stato che ancora non esiste, che non ha garantita continuità territoriale né una propria reale amministrazione, diviso fra la Striscia di Gaza, in un tempo non lontano considerata come lembo da lasciare a palestinesi da rendere esuli in Egitto e, dall’altra, un pulviscolo di cittadine della cosiddetta Cisgiordania, in cui dagli anni Ottanta ad oggi si sono sempre più insediati i coloni israeliani, spesso provenienti da paesi dell’Europa non sopravvissuta alla distruzione del blocco sovietico. Guardare l’involuzione della cartina della Cisgiordania in cui, non avendo mai attuato le risoluzioni ONU in materia, sono giunti circa 700 mila “nuovi israeliani”, in gran parte convinti di star contribuendo alla nascita della “Grande Israele” per cui ci si rifà, spesso impropriamente, a citazioni dell’Antico Testamento, rende chiaro il concetto. Gran parte di costoro sono riusciti, per parentela, ad essere definiti ebrei, altri ne dovrebbero giungere in fuga dal conflitto in Ucraina ed anche per costoro serviranno nuove terre e altre abitazioni. In tali due contesti, dove anche le ripartizioni delle risorse, specialmente quelle idriche, sono inique e dove scientemente non c’è stata volontà di imporre una proposta internazionale di trattativa, quanto sta accadendo, non solo dopo il 7 ottobre, era altamente prevedibile. A Gaza, ma anche in alcune città della Cisgiordania, il fallimento dell’Amministrazione Nazionale Palestinese, che faceva capo all’Olp, i tanti elementi della sua inadeguatezza: corruzione, leadership poco autorevole, repressione anche verso i propri concittadini, scarso peso internazionale, ruolo dominante mantenuto da Israele, hanno fatto sì che un partito come Hamas, sia riuscito a prendere il sopravvento. Si noti bene: a Gaza, dove il Movimento di resistenza islamica (questo è l’acronimo di Hamas) ha vinto nel 2006, poi non si è più votato, c’è una sospensione democratica di lunga data anche in Cisgiordania, il notabilato palestinese non viene sostituito da un gruppo dirigente nuovo e non sono mai cessati scontri, azioni repressive, condotte tanto da Israele quanto dalla stessa amministrazione palestinese. E anche su Hamas alcune cose vanno chiarite:

Intanto, nonostante l’impianto ideologico fondamentalista, solo la disinformazione e il superficialismo occidentale possono assimilarla all’Isis o ad Al Qaeda e bollarla come “organizzazione terrorista”. Hamas, come – in differenti condizioni è Hezbollah in Libano – è un partito, con funzionari, un proprio statuto, un programma politico ed elettorale, un’idea di governance del territorio da amministrare. Il suo riferimento ideologico è, dalla nascita e con le modifiche statutarie del 2017, quello dei Fratelli Musulmani in Egitto, in cui il principio è il nazionalismo in nome di un jihad che porti alla liberazione della Palestina. Di fatto quello che Hamas si propone in futuro è compatibile con l’amministrazione dei Territori Occupati di Cisgiordania, Gaza e di Gerusalemme Est. Il tutto considerando l’Anp e le componenti dell’antica Olp come organizzazioni sorelle insieme ad altre, non certo come nemiche.

Al Qaeda (traduzione La Base) è più una organizzazione che promuove attentati contro i “crociati”, l’Isis o Daesh che dir si voglia si considera un “califfato”, una forma statuale precisa ma temporanea, tanto è che assume nomi diversi nei territori in cui va prendendo il controllo del potere, dal Sahel ad alcune aree dell’Africa Sub Sahariana. Ma non è un partito, non si propone di realizzare semplicemente uno Stato, quanto di raggiungere la Umma, la comunità che comprenda tutti i musulmani in lotta totale contro i credenti nelle stesse “religioni del libro” che per il resto del mondo islamico vanno invece rispettati. Hamas compie azioni militari, in quanto tale è un “partito armato”, ma si pone da anni nell’ottica di prepararsi nel futuro a trattative e nel frattempo, grazie ai cospicui sostegni dei Paesi del Golfo e non solo, garantisce forme di welfare ai propri concittadini in nome di una solidarietà sociale che è alla base della propria esistenza e del consenso accumulato. Allah e patria sono i suoi elementi fondanti. Dall’altro lato gran parte di Israele, soprattutto negli ultimi decenni, grazie anche al sostegno militare e politico di cui gode, continua ad esistere nella paura, con l’idea che l’oppressione e financo la cacciata degli “arabi” possa essere l’unica soluzione. Da questo trae origine una mutazione profonda di nazione sempre più teocratica. Le riforme del 2018 con cui Israele veniva dichiarata “Stato nazione degli ebrei”, il colpevole sostegno Usa a cui hanno fatto seguito altri Stati UE, riconoscendone Gerusalemme come capitale, hanno accentuato e accelerato un percorso già in atto. Uno Stato che nasceva, dopo la Seconda guerra mondiale, persino con venature socialiste – si pensi al ruolo dei kibbutz – è divenuto epicentro del rapporto tra religione e politica. Le forze laiche sono via via scomparse dal parlamento, si pensi al declino totale del Labour un tempo nell’internazionale socialista, lasciando spazio all’affermazione di chi si considera interprete del dio vendicatore che salva il “popolo eletto”. Le dichiarazioni di alcuni ministri del governo in carica, Netanyahu compreso, rilasciate prima degli attacchi di Hamas, sfociavano sovente nel razzismo, nell’elogio dell’apartheid, nella distruzione di quei canoni che dovrebbero caratterizzare uno Stato democratico, come la separazione dei poteri, nell’odio espresso fino alla volontà di sterminio e di espansione, ai danni di chiunque si frapponga come ostacolo. Specularmente lo stesso binomio: dio e patria.

Il combinato disposto di nazionalismo religioso o, per essere più precisi, di un impianto ideologico che considera un tutt’uno la divinità a cui si affida il proprio destino, come singoli e come popolo e una traduzione etica della propria nazione, possono garantire il dominio tramite la guerra eterna. Tutto questo cancella o almeno silenzia altre e più profonde spinte centrifughe presenti nella società israeliana. Israele è attraversata da decenni da contraddizioni economiche e sociali risolte con la logica del nemico da combattere. La sua composizione sociale riflette differenze che stabiliscono gerarchie di classe e di sesso, perfino di “razza”, nel momento in cui si enfatizza anche il ruolo delle “antiche tribù di Israele. Tutti questi elementi destabilizzanti spariscono, di fronte al fatto che, come tante volte in passato, pervade l’idea che ad essere sotto attacco è l’intero “popolo ebraico” che non può non ergersi a blocco comune, contro il barbaro arabo. Sull’altro fronte, fallite come in gran parte del pianeta, le istanze capaci di coniugare forme di socialismo e di laicismo anticoloniale, con i movimenti di liberazione, il ricorrere all’islamismo come soluzione diviene inevitabile. E bisogna anche qui evitare forzature. L’islamismo di Gaza difficilmente potrà proporre modelli assolutizzanti, come quelli presenti nei Paesi del Golfo, in Afghanistan o nel mondo sciita iraniano, né tantomeno definire in porzioni di Stati africani, una legislazione rigidamente basata sulla sharia, come in parte abbiamo già accennato, ma – e già lo fanno – definiranno modelli di organizzazione sociale tradizionale, in armonia con il tradizionalismo, presenti in vari paesi nordafricani. A Gaza accade già da tempo senza che questo provochi, ahinoi, alcuna indignazione. Del resto i Paesi in cui questo è in vigore, o in cui poi si applicano le pene peggiori previste dalla sharia, ma con cui, da occidente, manteniamo rapporti economici, militari, politici e culturali stabili, sono definiti come parte del cd “islam moderato”. Ma, ci si permetta la reiterazione, l’elemento significativo è legato alla connessione sempre più stretta fra nazionalismo e unità nella fede, il tutto in maniera speculare rispetto a quanto avviene ormai in Israele. L’attacco è rivolto ai “musulmani” e questi hanno diritto a difendersi e ad attaccare con la stessa veemenza, il popolo nemico. L’ipotesi “due popoli due Stati” sarà – se mai potrà essere attuata – resa ancora più difficile da realizzare, a causa del fatto che, ognuno dei contendenti, non considera oggi possibile l’esistenza dell’altro, checché ne dica la propaganda da entrambe le parti. Lo dicono le piazze della diaspora anche qui in Europa, lo si conferma nelle dichiarazioni sconsiderate di chi parla in tutta tranquillità, da ben prima del 7 ottobre, di pulizia etnica, o di chi, fatti recenti, pur ricoprendo ruoli istituzionali, invoca l’uso dell’arma nucleare su Gaza. Non è solo propaganda per il proprio partitino razzista, è un’idea di futuro che potrebbe fare breccia in uno Stato, come quello israeliano che, fra bassa natalità e tensione interna, continua a garantirsi il consenso dei propri cittadini col terrore dell’invasore in agguato. In entrambe le ideologie contrapposte, fatta salva la predominante differenza fra occupante e occupato, quello che divarica, pare essere oggi l’ineluttabilità di uno scontro finale, magari prolungato, magari caratterizzato da maggiore o minore intensità bellica, ma in cui non è pensabile ad una convivenza. Le due teocrazie, forzando anche l’uso del termine, per quanto diverse fra loro, non sono compatibili in una ristretta e simbolicamente fondamentale area geografica.

Ma quanto accade non è un’eccezione: in molti paesi, soffocati da crisi irrisolvibili con le ricette neoliberiste, quello che si va affermando è un nazionalismo xenofobo, dai forti connotati religiosi, che si può alimentare unicamente con il conflitto perenne. Vale per la Tunisia, vero rompicapo per l’UE. Da una parte si realizzano accordi anti immigrati e si finanzia il regime di Saied e questo apre contraddizioni. Il presidente tunisino da mesi parla come il ministro Lollobrigida o come i peggiori razzisti del pianeta, del pericolo di “africanizzazione del paese” (cfr sostituzione etnica), quindi contribuisce al sostegno della “fortezza Europa. Contemporaneamente si erge a “nemico giurato” di Israele, preparando anche ad istituzionalizzare tale scontro e quindi riacquisendo prestigio nel mondo arabo. Simile discorso vale per la Turchia di Erdogan, che, pur rimanendo fondamentale per la NATO e potendo continuare a massacrare in piena impunità il popolo kurdo, le altre minoranze, gli oppositori politici, ha da tempo scelto l’impianto ideologico di un Islam nazionalista e si è immediatamente schierata al fianco di Hamas, senza porsi problemi, né venire per questo sanzionato.

I due esempi fatti potrebbero far pensare, erroneamente, che il binomio nazionalismo / religione, riguardi solo il mondo arabo musulmano. Ora, a parte l’assunto che per l’Islam, la separazione fra fede e politica ha connotati diversi e articolati nei singoli contesti, il tema non riguarda soltanto tale fede. Sono le destre europee che lo smentiscono. La cobelligeranza nel conflitto in Ucraina dell’UE e l’essersi schierati, di numerosi governi, totalmente al fianco di Israele avviene in un periodo in cui da ovest a est l’Europa si frammenta in nome del nazionalismo guerrafondaio. In alcuni Paesi come l’Italia e l’Ungheria le forze che sono espressione di tale nazionalismo, sono direttamente al governo, in altre come Germania, Francia, Spagna, Finlandia, ecc… giocano un ruolo determinante negli equilibri politici. Ogni Paese fa storia a sé e certamente comprende dinamiche interne articolate ma il punto di caduta, in termini identitari, accumula forze di destra apertamente xenofobe e con accenni di rigurgiti fascistoidi, che rimandano a codici facilmente decifrabili. No agli immigrati, soprattutto se musulmani, no ai diritti civili, in particolare delle donne e delle persone Lgbtqi+, esaltazione della patria e della tradizione, clericalismo spinto che rimanda all’antico “dio, patria e famiglia”. Un impianto necessario per giustificare le guerre, per appianare e far dimenticare ogni forma di conflitto sociale (le classi non esistono), per far venire meno la stessa funzione dello Stato a cui si sovrappone quella della “nazione”.

In una condizione di guerra permanente, questi elementi sono determinanti ed assumono dimensione globale. L’invasione Russa ha utilizzato e fa proprio il sogno di ritorno all’era zarista con tutto il suo contorno di richiamo alla tradizione, di xenofobia, di maschilismo e di ortodossia oscurantista, si pensi ai sermoni del patriarca Kirill. L’Ucraina, da prima dell’invasione, ha riproposto simili schemi di antimodernismo con il ruolo preponderante dell’idea di nazione, unito a quello etnico e religioso. L’intero Est Europa è attraversato da simili pulsioni, la destra greca, divisa in più fazioni, è entrata con tre formazioni in parlamento richiamandosi in un caso addirittura a Sparta. Nel continente africano, oltre che le organizzazioni jihadiste, si vanno imponendo le sette pentecostali contrarie il cui fondamentalismo prova ad essere la base per la perdita di spazi democratici, in America Latina se la sconfitta, di stretta misura di Bolsonaro, in Brasile, ha ridato ossigeno alle speranze progressiste e internazionaliste, nel resto del continente si registrano pericolose spinte reazionarie anche queste di stampo fortemente nazionalista e con forti legami con le chiese più retrograde. L’India se appare ad oggi più tollerante sul piano religioso, si lancia come potenza mondiale, in quanto guidata da uno dei leader più nazionalisti che il Paese abbia mai avuto, la Cina accentra i poteri, forse e per ora, con meno volontà belliciste ma con l’intenzione dichiarata di soppiantare ogni concorrente economico, il Sud Africa, fra mille contraddizioni non ancora risolte, si erge a muro ricco – anche se pieno di poveri – verso il resto del continente e, nel frattempo, rompe le relazioni con Israele. Negli USA, accanto alla salutare crescita di movimenti che hanno riportato sulla scena politica il conflitto di classe, le scelte guerrafondaie dell’amministrazione Biden rischiano di avere come contraccolpo il ritorno di un “trumpismo” che può rendere felici soltanto i rosso bruni, di cui sono intasate le piattaforme social. Attacco all’aborto, ai diritti delle donne, ritorno di una visione del mondo creazionista, non sono solo folklore capace di far ripetere le vicende dell’attacco del 6 gennaio 2021 al Campidoglio. Il suprematismo 2.0 riprende piede, è animato da antisemitismo ma sostiene Israele perché il “nemico arabo” è considerato soltanto peggiore, (pesa il ricordo dell’11 settembre), si oppone al controllo esercitato dalle forze federali, vagheggia di neo-comunitarismo, ma di fatto sogna di sostituirsi al “deep state”.

Il succo di queste semplificazioni, ognuna delle quali meriterebbe confutazioni e riflessioni, è però netto. Il fallimento delle prospettive socialdemocratiche e di regolazione del mercato in occidente, la crescita delle diseguaglianze, le condizioni di frammentazione, che si vivono ormai in ogni angolo del pianeta, stanno portando alla riproposizione di identità fondate sulla guerra permanente, sulla costruzione perenne del diverso da espellere e da perseguitare, del muro da alzare per ritornare ad un’inesistente identità originaria, sull’assenza di qualsiasi prospettiva di uscita collettiva dal disastro. Si è giunti al punto che oggi dichiarano di difendere e di sbandierare i “valori occidentali”, coloro che più indegnamente hanno contribuito a farli divenire privilegi per pochi.

La risposta politica da dare dovrebbe essere quella di una riappropriazione di senso e di significato a parole come: libertà, democrazia, società, solidarietà, benessere comune, riaprire la cassetta degli attrezzi e riprendere persino il desueto termine “lotta di classe”. Difficile farlo mentre piovono le bombe, difficile chiederlo a coloro la cui vita è perennemente appesa ad un filo. Ma noi che abbiamo ancora tempo da passare sulle nostre tastiere, aprendo file che ci permettono di interrogarci sui destini del pianeta, possiamo ancora permetterci il lusso, abbiamo il dovere, di rielaborare proposte, ben sapendo che il mondo odierno non è più quello che abbiamo creduto per secoli di poter dominare. Il pensiero della sinistra va, in tal senso, quanto rafforzato che decolonizzato, accettando il fatto di poter costituire uno e non il più importante, dei tasselli di un mosaico di proposte da costruire che, o riescono ad assumere dimensione globale e plurale o ci condannano alla sconfitta perenne. Viviamo nel mondo in cui si è passati dal “dio lo vuole” delle Crociate, in cui era l’occidente platealmente invasore, all’“ogni dio lo vuole”. Dal tempo in cui il nazionalismo si traduceva in conflitto ma solo in spazi ristretti del mondo, a un’epoca in cui anche tale concetto, declinato con le proprie articolazioni, non esula nessuna/o. Una ragione di più per pensare e costruire, avendo ben chiaro il senso dell’urgenza.

P.S. Questo testo che, come è facile comprendere, non pretende di assumere alcun valore minimamente scientifico, ha tra l’altro il demerito di costringere chi legge, a salti continui, nel tempo e nel tema trattato, cercando di definire stratificazioni che andrebbero elaborate certamente con maggior conoscenza. Il tentativo per cui è stato scritto è quello di provare a definire chiavi di lettura del presente diverse dalla logica binaria con cui sembra ormai inevitabile affacciarsi al mondo. La sua degna conclusione utopica, tornando all’origine, al conflitto arabo / israeliano, ad una ipotesi di futuro per genti martoriate, in una martoriata terra è presto detta. Se si volesse partire da qui, per fermare la guerra mondiale a pezzi, nella perfetta consapevolezza che esiste un occupante e un occupato in un contesto di terrore che ormai domina da generazioni, c’è un solo varco da provare a forzare. A sedersi di fronte ad un tavolo di trattative dovrebbero essere tutti i protagonisti, da Hamas, alle forze palestinesi più o meno laiche, a quanto resta della sinistra laica israeliana fino alle formazioni razziste di governo. È impossibile, ma è la sola strada.

Stefano Galieni

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1 Commento. Nuovo commento

  • Raul Mordenti
    08/11/2023 18:11

    Saggio importantissimo e utilissimo, da far leggere nelle scuole, (ma cominciamo almeno dai Circoli…)

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