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In un mondo in fiamme Biden fatica a scacciare i sogni imperiali di Trump

di Alessandro
Scassellati

Dopo l’operazione Diluvio Al-Aqsa del 7 ottobre e il conseguente assalto a Gaza, l’amministrazione Biden ha compiuto quello che viene eufemisticamente descritto come un “atto di bilanciamento”. Da un lato ha elogiato la punizione collettiva dei palestinesi; dall’altro ha messo in guardia Israele da eventuali eccessi. Il suo sostegno ai bombardamenti aerei e ai raid mirati è stato finora fermo, ma ha posto “domande difficili” sull’invasione di terra iniziata all’inizio della scorsa settimana: esiste un obiettivo militare realizzabile? Una tabella di marcia per liberare gli ostaggi? Un modo per evitare un governo israeliano insostenibile se Hamas venisse estirpato? Washington sta esercitando pressioni sugli israeliani su tali questioni, avendo dato allo stesso tempo il via libera al massacro in corso. La risposta di Biden alla crisi è stata guidata da una confluenza di fattori, tra cui il desiderio di scavalcare i repubblicani e l’istinto reattivo di “stare con Israele”. Tuttavia può anche essere collocato nel contesto della visione più ampia per il Medio Oriente dell’amministrazione statunitense, che si è cristallizzata sotto Trump ed è stata consolidata da Biden. Dall’Afghanistan e dall’Ucraina al Medio Oriente, in una profonda confusione sugli esiti degli scenari futuri dei dopoguerra, il presidente degli Stati Uniti deve affrontare le conseguenze delle scelte di politica estera del suo predecessore in larga parte condivise dalla sua amministrazione. Tra l’altro, la feroce e sanguinosa azione militare israeliana a Gaza sta consentendo a Cina e Russia di sfruttare un’ondata di simpatia globale per i palestinesi e di posizionarsi come paladini dei valori umanitari e della pace.

Faranno il deserto e lo chiameranno pace. Il silenzio del ‘mondo civile’
è molto più assordante delle esplosioni che ricoprono la città
come un sudario di terrore e morte.
Restiamo umani.

Vittorio Arrigoni, Gaza 27 dicembre 2008

In meno di tre anni come presidente degli Stati Uniti, Joe Biden ha affrontato più della normale dose di crisi internazionali. Il ritiro americano dall’Afghanistan gli è esploso tra le mani come una bomba a grappolo. Poi è arrivata l’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia, la più grande guerra europea dal 1945. Ora, all’improvviso, il Medio Oriente è in fiamme, dimostrando che l’“architettura di sicurezza” costruita da Trump e Biden insieme a Netanyahu, è fortemente vulnerabile ed instabile: l’azione del 7 ottobre ha dimostrato che è possibile colpire Israele e ha mandato in frantumi la definizione (sionista) che Israele dà di sé stesso come santuario post-Olocausto che garantisce protezione al popolo ebraico all’interno e all’esterno dei suoi confini.

A seguito dell’evidente disastro della politica americana, Biden è dovuto passare dal caloroso abbraccio con Benjamin Netanyahu all’aeroporto di Tel Aviv del 18 ottobre1, offrendo un incondizionato sostegno militare e politico alla guerra di Israele contro i palestinesi nella Striscia di Gaza (con il tentativo di disumanizzare i palestinesi e di giustificare la violenza genocida2 in corso contro di loro attuata con i bombardamenti a tappeto) a posizioni più equilibrate, nel tentativo di mettere in atto una mediazione (utilizzando Qatar ed Egitto), “moderare” il “diritto alla vendetta” israeliana (anche esortando pubblicamente il governo israeliano a non ripetere gli errori che gli americani fecero dopo gli attentati dell’11/09 e che portarono alle “guerre infinite” in Afghanistan, IRAQ, Siria e altrove – vedi qui), far arrivare cibo, acqua, elettricità, carburante e farmaci, trovare una soluzione al problema degli oltre 200 ostaggi, ottenere una tregua umanitaria (ma non un cessate il fuoco) e capire come porre termine al conflitto e quale possa essere la soluzione politica a Gaza. Nel frattempo, dopo circa un mese, sono state uccise oltre 10mila persone (la metà minori e un terzo donne, per cui viene uccisa/o un/a bambina/o ogni 10 minuti) e oltre un terzo degli edifici sono stati distrutti o gravemente danneggiati a Gaza, un piccolo territorio sotto assedio dal 20073, una prigione a cielo aperto su cui Israele esercita un controllo aereo, terrestre, marittimo; controlla la fornitura di acqua, energia, cibo, medicine. L’amministrazione Biden comincia ad essere particolarmente preoccupata per la diffusione di una narrazione secondo cui Biden sostiene tutte le azioni militari israeliane e che le armi fornite dagli Stati Uniti sono usate per uccidere civili palestinesi, la maggioranza dei quali donne e bambini4.

Quella di Biden potrebbe essere solo sfortuna. Oppure potrebbe essere che Biden, che sostiene che gli Stati Uniti sono l’indispensabile “faro del mondo” che “tiene insieme il mondo” con la sua leadership, le sue alleanze e i suoi valori, e si vanta della propria esperienza in politica estera, non sia così bravo a governare il mondo come pensa. Solo il 29 settembre, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan aveva dichiarato pubblicamente e anche scritto per l’edizione cartacea della rivista Foreign Affairs che “la regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto lo sia stata negli ultimi due decenni“, un giudizio che poi ha dovuto radicalmente modificare nell’edizione online dell’articolo pubblicata dopo il 7 ottobre5.

C’è anche un’altra spiegazione che fa riferimento alle scelte fatte da Donald Trump nei suoi quattro anni di presidenza. Se la presidenza di Biden deve affrontare una crisi dopo l’altra è anche a causa dell’eredità tossica del “genio molto stabile” che lo ha preceduto e del quale ha adottato molte delle stesse coordinate generali. È grazie a Trump se nonostante negli ultimi decenni le successive amministrazioni americane hanno costantemente dichiarato che il loro Paese “sta lasciando il Medio Oriente” con tutte le sue crisi croniche e riemergenti, per concentrarsi sull’Asia orientale per contrastare la Cina (vedi qui, qui, qui), gli Stati Uniti sono ormai quasi completamente consumati dalle guerre in Medio Oriente.

L’amministrazione Obama aveva cercato di districarsi parzialmente dalla regione, consapevole del caos provocato dopo gli attacchi del 11/09 dai tentativi di cambio di regime nel corso di due decenni di guerre imperiali che hanno devastato il Medio Oriente (provocando la distruzione di innumerevoli comunità, centinaia di migliaia di morti e feriti e lo sfollamento di milioni di persone) e desiderosa di completare il “perno verso l’Asia” avviato all’inizio degli anni 2010. Il suo obiettivo era stabilire un modello di governance regionale che sostituisse l’intervento diretto con la supervisione a distanza, ma dalla fine del 2010, a due anni dall’avvio della crisi dell’economia globale e a poco più di un anno dal discorso fatto da Obama ai giovani dell’Università del Cairo (4 giugno 2009), in Nord Africa e Medio Oriente sono scoppiate diverse proteste, agitazioni e rivolte popolari – le cosiddette Primavere Arabe. Obama intendeva riparare le relazioni con “i musulmani nel mondo” e avviare “un nuovo corso” dopo i difficili anni di Bush Jr, basato sul rispetto, la tolleranza e la pace israelo-palestinese. Il suo discorso conteneva anche un appello a valori universali comuni (“tra i valori dell’Islam e quelli della democrazia americana c’è una certa sovrapposizione”), per cui i governi devono “mantenere il [loro] potere attraverso il consenso, non la coercizione“, e un’apertura di credito verso la Fratellanza Musulmana (la corrente dell’Islam politico “dal basso” duramente repressa durante la Guerra Fredda). Obama ha invitato i governi del Medio Oriente a compiere progressi in termini di democrazia, libertà religiosa, uguaglianza di genere e “sviluppo economico e opportunità“.

Oggi sappiamo come è andata a finire: si è aperto un percorso che ha avuto esiti disastrosi. Che ha letteralmente fatto saltare i regimi politici basati sui “patti autoritari” in Tunisia, Siria, Egitto, Libia e Yemen con cambi di regime e guerre civili (trasformatesi presto in proxy wars) i cui drammatici effetti si trascinano nel presente. Anche se gran parte dei paesi sono stati “stabilizzati” attraverso l’epurazione dal potere degli affiliati alla Fratellanza Musulmana (Hamas, nella Striscia di Gaza, è uno dei pochi partiti rimasti al potere) e la ricostituzione di regimi autoritari appoggiati sul piano politico e finanziario da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e i loro alleati6.

Con l’IRAN sciita l’amministrazione Obama aveva concluso l’accordo Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) del 2015 (mai ratificato dal Congresso) che si prefiggeva di contenere l’attività nucleare persiana. Come contropartita l’IRAN otteneva l’annullamento del regime sanzionatorio statunitense, europeo e del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ponendo fine ad un decennio di embargo. Un accordo multilaterale (firmato oltre che da USA e IRAN, anche da Russia, Cina, Germania, Regno Unito e Francia) che era stato uno dei grandi successi internazionali dell’amministrazione Obama (insieme al ristabilimento delle relazioni diplomatiche con Cuba) e della sua politica del “leading from behind”. Il presidente Hassan Rouhani e i moderati avevano concluso l’accordo nucleare perché interessati al dialogo con l’Occidente e il resto del mondo e, soprattutto, agli investimenti produttivi e tecnologie delle grandi imprese dei Paesi europei – Francia, Germania e Italia -, ma anche di Corea del Sud e Cina, necessari per far ripartire l’economia e l’occupazione, in modo da contenere il crescente disagio sociale di ampi settori della popolazione reso evidente da manifestazioni di protesta contro l’austerità, il carovita, il taglio dei sussidi, la corruzione, l’inflazione (al 40%) e la disoccupazione giovanile (al 30%) in un Paese con un’età media di 29 anni e dove il 42% ha meno di 25 anni7.

L’amministrazione Trump ha almeno in parte mantenuto gli obiettivi di quella precedente sostenendo però che per contemplare una reale riduzione della presenza statunitense nella regione mediorientale prima fosse necessario addivenire ad un accordo sulla sicurezza che rafforzasse i regimi amici (Israele, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti) e limitasse l’influenza di quelli antagonisti (IRAN). Un disegno che rispondeva alle esigenze di riorientare la politica statunitense come grande potenza: allontanarsi dal Medio Oriente per focalizzare l’attenzione sulla Cina.

Gli Accordi di Abramo del 2020 hanno portato avanti questo programma. Il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti hanno accettato di normalizzare le relazioni con Israele e si sono uniti a un più ampio “asse reazionario” che comprende il Regno Saudita, l’autocrazia egiziana e la Giordania8. Trump ha ampliato le vendite di armi a questi Stati e ha coltivato i collegamenti tra loro – militari, commerciali, diplomatici – con l’obiettivo di creare una falange affidabile di alleati che si sarebbe inclinata verso gli Stati Uniti nella Nuova Guerra Fredda con la Cina, fungendo allo stesso tempo da baluardo contro l’IRAN. L’amministrazione Trump era convinta che l’accordo sul nucleare di Obama non fosse riuscito a impedire alla Repubblica islamica (considerata alla stregua di uno “stato canaglia”, insieme a Corea del Nord e Venezuela), di esercitare la propria influenza. Pertanto, ritirò gli Stati Uniti dal JCPOA nel 2018, nella convinzione che solo una “massima pressione” avrebbe potuto farlo, attraverso l’imposizione di nuove sanzioni primarie e secondarie.

È all’interno di questo disegno geostrategico che nel 2020, con al suo fianco il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Trump ha svelato il suo “accordo definitivo” per la pace in Israele-Palestina alla Casa Bianca. Il suo piano (messo a punto dal genero di Trump, Jared Kushner) era un regalo ai nazionalisti ebrei di destra (che nel luglio 2018 hanno trasformato “Israele [nel]la patria nazionale del popolo ebraico”, in cui il diritto all’autodeterminazione è limitato agli ebrei, e l’arabico è stato declassato da lingua ufficiale a lingua con “statuto speciale9), offrendo a Israele il pieno controllo su Gerusalemme e su gran parte della Cisgiordania e della Valle del Giordano (oggi la Cisgiordania è occupata da circa 670mila coloni israeliani, inclusi 220mila coloni a Gerusalemme Est, legalmente parte della Cisgiordania), mandando in frantumi le speranze di uno Stato palestinese vitale. Apparentemente, il piano di 181 pagine offriva la via verso uno Stato palestinese (soggetto comunque a severe restrizioni), ma riconosceva gli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania10. Era un piano totalmente sbilanciato in favore di Israele che ha escluso e umiliato l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di Abu Mazen (ormai ridotta in uno stato comatoso e priva di consenso tra i palestinesi), convinto molti che il dialogo pacifico fosse inutile e ha così conferito potere ad Hamas, ossia ad un’organizzazione dichiaratamente jihadista sunnita che vuole la distruzione dello Stato d’Israele (ad Hamas è stato consentito di diventare il principale collettore di grandi risorse finanziarie provenienti dal Qatar e dalle fondazioni di beneficenza islamica presenti in tutti i paesi musulmani, utilizzate sia per attività di assistenza sociale sia per comprare armi). D’altra parte, dopo il fallimento degli Accordi di Oslo (1993) e l’assassinio di Rabin (1995), l’estremismo fondamentalista politico-religioso ha prevalso da entrambe le parti.

Netanyahu aveva da tempo consigliato a Trump che i palestinesi potevano essere tranquillamente ignorati, che la normalizzazione con gli Stati arabi era una scommessa migliore e più redditizia e che l’IRAN era la minaccia più grande. Riusciva a malapena a contenere la sua gioia: “Sei stato il più grande amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca“, ha detto a Trump, il quale aveva anche fatto spostare la sede dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

Le conseguenze catastrofiche delle pericolose fantasie di Trump sono ormai evidenti a tutti, ma è Biden, con le sue prospettive di rielezione a rischio, a ricevere critiche da destra e da sinistra, a provocare manifestazioni di protesta alle quali partecipano anche arabi/musulmani-americani e migliaia di persone appartenenti alle comunità ebraiche statunitensi che si stanno spaccando al loro interno, riflettendo divisioni più ampie nell’opinione pubblica sulla guerra che riportano all’ordine del giorno anche l’antisemitismo (soprattutto in Europa). Dopo aver bloccato diversi tentativi di far passare delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per il cessate il fuoco immediato, il 27 ottobre ha dovuto incassare una risoluzione dell’Assemblea Generale (che non ha però alcuna efficacia esecutiva) presentata da quasi 50 Paesi, tra cui Turchia, Palestina, Egitto, Giordania, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti che è stata approvata con 120 voti favorevoli (soprattutto dei Paesi del Sud Globale), 14 contrari (USA e Israele in primis) e con 45 paesi (soprattutto europei, ma anche Australia, Canada e India11) che hanno scelto di astenersi. Il testo della risoluzione condanna “tutti gli atti di violenza contro i civili palestinesi e israeliani, compresi tutti gli atti di terrore e gli attacchi indiscriminati, nonché tutti gli atti di provocazione, incitamento e distruzione”. Chiede inoltre che “tutte le parti rispettino immediatamente e pienamente i loro obblighi di diritto internazionale”. Diversi paesi hanno richiamato i diplomatici da Israele (Turchia, Sud Africa, Giordania, Bahrain, Bolivia e altri paesi sudamericani) mentre crescono le critiche globali nei confronti dei suoi continui bombardamenti su Gaza.

Avendo basato la strategia imperiale della sua amministrazione sul processo di normalizzazione israeliano, gli Stati Uniti sono diventati dipendenti dal progetto di colonizzazione dei territori palestinesi promosso dagli elementi politici israeliani più estremi (gli alleati suprematisti bianchi ebrei sionisti di Netanyahu: Smotrich, Ben-Gvir, Gallant) entrati nel governo israeliano salito al potere nel 2022. Nel frattempo, Trump, che spera di diventare di nuovo presidente nel 2024, si è rivoltato contro Netanyahu elogiando lo stretto alleato di Hamas, Hezbollah sostenuto dall’IRAN, definendolo “molto intelligente.

In buona parte la colpa è dell’amministrazione Biden che pensava che la questione palestinese potesse essere congelata, sia attraverso il mantenimento di un “equilibrio violento” con un’occupazione indefinita da parte israeliana (grazie alle autorità collaborazioniste in Cisgiordania e alla stretta militare su Gaza) dei territori occupati durante la guerra dei Sei Giorni nel 1967, punteggiata da periodici scontri con Hamas sufficientemente piccoli da essere ignorati dalla popolazione israeliana, sia utilizzando il vertice/Forum del Negev12 per consolidare i legami tra i paesi degli accordi di Abramo (che includono anche Marocco e Sudan13) e spingere per arrivare all’istituzione di relazioni formali tra sauditi e israeliani. Sforzi tesi a porre Israele, il vero alleato degli USA (un alleato “democratico14 e schierato con l’asse occidentale in una regione politicamente ostile all’Occidente), al centro di un quadro di sicurezza stabile in Medio Oriente. Come ha affermato Brett McGurk, coordinatore della Casa Bianca per il Medio Oriente, in un discorso al Consiglio Atlantico sulla “dottrina Biden” il 13 febbraio 2023, le premesse di questa politica sono “integrazione” e “deterrenza”: costruire “connessioni politiche, economiche e di sicurezza tra i partner statunitensi” per respingere “le minacce provenienti dall’IRAN e dai suoi delegati“. Dopo aver sviluppato questo programma e presieduto al boom commerciale tra Israele e i suoi partner arabi, Biden aveva iniziato a mantenere il “ritiro” promesso dal suo predecessore, ritirandosi dall’Afghanistan e riducendo truppe e mezzi militari in Iraq, Kuwait, Giordania e Arabia Saudita15

Ora, dopo il 7 ottobre, questo equilibrio è stato infranto, facendo piazza pulita delle fantasie israelo-americane. L’attacco di Hamas ha avuto l’obiettivo di svelare una congiuntura politica in cui il regime israeliano della violenta apartheid, occupazione delle terre e pulizia etnica della popolazione palestinese dalla Palestina storica, si era convinto di poter reprimere qualsiasi seria resistenza al suo dominio (cancellando la soluzione “due popoli, due Stati”), e in cui la Palestina stava rapidamente diventando un non-problema in Israele e nella politica internazionale. Quella situazione intollerabile era il suo obiettivo primario. La leadership di Hamas prevedeva una risposta feroce da parte del governo israeliano, inclusa un’incursione di terra. Prevedeva inoltre che ciò avrebbe causato problemi alla strategia di normalizzazione delle relazioni tra paesi arabi e israeliani basata sugli accordi di Abramo, innescando l’opposizione regionale, a livello popolare e di élite, alle atrocità israeliane. Tutto ciò è stato finora confermato: l’accordo tra Arabia Saudita e Israele è congelato16, il prossimo vertice del Negev rimane in sospeso, i paesi musulmani (ad eccezione dell’Arabia Saudita e delle altre monarchie del Golfo) sono sconvolti dalle proteste popolari nelle piazze e i loro governanti sono stati costretti a denunciare Netanyahu. Le ambizioni politiche generali di Washington ora dipendono dalla traiettoria che seguirà il conflitto.

Come molti osservatori hanno notato, l’obiettivo dichiarato di Israele di “distruggere Hamas” comporta il rischio di un’escalation continua e prolungata. Nel pianificare una guerra urbana contro un esercito guerrigliero inserito in un’area densamente popolata (i 2,2 milioni di residenti di Gaza), il governo israeliano di unità nazionale ha contemplato diversi scenari finali, tra cui lo spopolamento della Striscia settentrionale e le espulsioni di massa nella penisola del Sinai (una soluzione caldeggiata anche da Blinken, prevedendo per l’Egitto aiuti economici e una cancellazione di parte del debito estero). L’Egitto è contrario. Il presidente al-Sisi ha dichiarato che gli egiziani non accetteranno rifugiati palestinesi nel Sinai (dove il governo egiziano ha combattuto le cellule jihadiste) perché è parte del territorio sovrano nazionale egiziano e perché non si può ripetere la catastrofe (Nakba) del 1948 di trasferire la popolazione palestinese da una parte all’altra senza alcuna garanzia di poter ritornare alle loro case una volta finita la guerra. Ma ha anche aggiunto che se i palestinesi si stabiliscono nel Sinai, continueranno la loro lotta contro Israele e questo finirà con il mettere in discussione la stessa pace fra Egitto e Israele firmata nel 1979.

In ogni caso, qualsiasi strategia di questo tipo è suscettibile di oltrepassare le soglie ambigue che potrebbero innescare gravi ritorsioni da parte di Hezbollah e – potenzialmente – del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche (anche se sia Hezbollah sia l’IRAN appaiono finora ansiosi di evitare i pericoli di un coinvolgimento diretto). Gli Houthi dello Yemen hanno già lanciato missili e droni contro Israele, e sono pronti a inviarne altri nelle prossime settimane. Il dispiegamento di portaerei, navi e sommergibili da guerra da parte di Biden nel Mediterraneo e nel Mar Rosso, oltre alla diplomazia di Blinken (inviato per tre volte nella regione), hanno lo scopo di scongiurare questo risultato. È troppo presto per valutare l’impatto dei loro sforzi, ma il fallimento vedrebbe l’egemone statunitense trascinato sempre più in un sanguinoso pantano. L’effetto sarebbe quello di ampliare le spaccature nell’asse arabo-israeliano e distrarre l’America dalle sue priorità in Estremo Oriente.

Nel caso in cui l’esercito israeliano riuscisse a demolire Hamas politicamente e militarmente, gli Stati Uniti dovrebbero anche affrontare il problema del successore. La maggioranza della società israeliana non vuole l’occupazione militare della Striscia che richiederebbe un gran numero di riservisti (solo i nazionalisti dell’estrema destra israeliana continuano a proporre un’annessione perché fa parte dell’Israele biblico). Al momento gli USA non riescono a convincere l’ANP a fare da “frontman” e gli Stati arabi (la Lega Araba) a fornire una forza militare e risorse economiche per governare Gaza dopo la rimozione di Hamas da parte di Israele in modo da sollevare quest’ultimo dal problema. Abu Mazen ha detto a Blinken che l’ANP è disposta a rientrare a Gaza solo all’interno di una cornice politica duratura, che comprenda lo status di tutti i Territori occupati, Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est. Un’ipotesi del tutto irrealizzabile. Funzionari statunitensi riferiscono che soldati americani, francesi, britannici e tedeschi potrebbero essere inviati per difendere una ipotetica dittatura. Ma se le potenze regionali rifiutassero di cooperare, come sembra probabile, le proposte alternative includono una coalizione di “mantenimento della pace” sul modello della Forza multinazionale e degli osservatori del Sinai – alla quale il Pentagono attualmente contribuisce con quasi 500 soldati – o un’amministrazione sotto gli auspici delle Nazioni Unite. Tali schemi riporterebbero di fatto gli Stati Uniti allo status di autorità neocoloniale in Medio Oriente, nonostante i loro anni di tentativi di ricoprire il ruolo con subordinati locali. Trasformerebbero le forze americane in un bersaglio visibile per la rabbia e il risentimento creati dalla guerra sionista – un’eredità poco invidiabile che Biden si lascerebbe alle spalle.

Segnalando la loro diminuita propensione all’ingerenza nella regione, gli Stati Uniti hanno comunicato ai loro alleati che non avrebbero dovuto fare una scelta a somma zero tra la partnership americana e quella cinese. Da qui l’accoglienza sempre più calorosa della Repubblica Popolare Cinese nel mondo arabo: la crescita degli scambi commerciali (prodotti industriali in cambio di petrolio e gas naturale), la costruzione di una base militare negli Emirati Arabi Uniti, la mediazione nel riavvicinamento IRAN-Arabia Saudita e la rete di investimenti tecnologici e infrastrutturali. Dal punto di vista economico, la Cina ha bisogno di un Medio Oriente stabile, in quanto zona cruciale della Belt and Road Initiative (BRI) ed essendo ormai Pechino il maggior partner commerciale di molti Paesi mediorientali (è anche il maggior acquirente singolo di petrolio iraniano e saudita).

La posizione di Pechino su ciò che sta avvenendo a Gaza è ambigua, non troppo dissimile all’approccio cinese nei confronti della questione ucraina. Si tratta di un tentativo di bilanciamento tra i tanti interessi in gioco, primi fra tutti quelli cinesi. L’obiettivo ultimo è un posizionamento da grande potenza “neutrale”, sostenitrice della pace e pronta a offrire un’alternativa alle più radicali posizioni statunitensi pro-Israele, che agli occhi della Cina non fanno altro che alimentare l’instabilità della regione. Per questo alcuni osservatori la definiscono come una “neutralità anti-occidentale”, perché seppure alla ricerca di un ruolo da mediatore, la sua posizione pende verso il lato palestinese.

Rispetto all’obiettivo statunitense di ridurre il proprio coinvolgimento diretto nella regione, la decisione del 2018 di Trump, istigato da Israele, di rinnegare unilateralmente l’accordo per il controllo della proliferazione nucleare dell’Occidente con l’IRAN, sostenuto dalle Nazioni Unite, è stato probabilmente il più grande errore di politica estera americana dall’invasione dell’IRAQ. Le ulteriori sanzioni economiche statunitensi hanno indebolito fatalmente la presidenza moderatamente riformista e pragmatista di Hassan Rouhani. L’IRAN ha colto lo spunto conflittuale di Trump e si è spostato bruscamente verso la destra antioccidentale e negazionista (vedi qui). Un noto intransigente, Ebrahim Raisi, appartenente alla fazione dei religiosi più conservatori e allievo della Guida Suprema Khamenei, presidente dal 2021, ha perseguito strette alleanze con Russia e Cina (l’IRAN è entrato nella Shanghai Cooperation Organization e da gennaio 2024 farà parte dei BRICS). In patria, un’oligarchia clericale corrotta e antidemocratica, guidata dall’ayatollah Ali Khamenei, reprime brutalmente il dissenso, in particolare quello dei difensori dei diritti delle donne. Mahsa Yazdani è l’ultima vittima dei mullah. Il suo “crimine”, per il quale è stata incarcerata per 13 anni, è stato quello di denunciare l’uccisione di suo figlio, Mohammad Javad Zahedi, da parte delle forze di sicurezza. Tale persecuzione è all’ordine del giorno. Tuttavia, se la politica di impegno dell’amministrazione Barack Obama-Biden, sostenuta dal Regno Unito e dall’UE, fosse stata mantenuta da Trump, le cose potrebbero essere molto diverse oggi, dentro e fuori l’IRAN.

Con Biden il JCPOA è rimasto lettera morta (nonostante lunghe e laboriose trattative condotte per anni a Vienna) e i tentativi di contenere Teheran sono continuati, attraverso una combinazione di sanzioni, diplomazia ed esercitazioni militari. E ora deve affrontare un nemico arrabbiato che minaccia quotidianamente di intensificare la guerra tra Israele e Hamas. L’IRAN e le milizie che sostiene sono la ragione per cui Biden sta dispiegando un’enorme forza militare nella regione. L’IRAN è il motivo per cui le basi americane nel Golfo, in Siria e in IRAQ sono sotto tiro. E grazie a Trump (e Netanyahu), l’IRAN potrebbe essere più vicino che mai all’acquisizione della capacità di produrre armi nucleari, un’eventualità considerata da Israele come una minaccia esistenziale.

L’IRAN ha cercato di prendere le distanze dalle accuse di aver avuto un ruolo diretto negli attacchi di Hamas del 7 ottobre, nonostante il suo sostegno di lunga data al gruppo e le sue lodi per l’operazione dopo che ha avuto luogo. Da allora, ha messo in guardia a gran voce sulle ramificazioni regionali di un’espansione della campagna israeliana a Gaza. “L’intero mondo islamico è obbligato a sostenere i palestinesi e, se Dio vuole, li sosterrà”, ha dichiarato il 10 ottobre la Guida suprema Ali Khamenei. “Ma questa azione è stata compiuta dagli stessi palestinesi”. Per Teheran la crisi offre opportunità. È indubbiamente lieta che alcuni dei paesi arabi (come l’Arabia Saudita) che hanno valutato la necessità di normalizzare le relazioni con Israele, il suo principale avversario in Medio Oriente, stiano ora lanciando forti critiche alle azioni israeliane. Ha enfatizzato l’idea che l’attacco di Hamas del 7 ottobre abbia messo in luce la vulnerabilità di Israele, e ha approfittato di ogni occasione per condannare ciò che sostiene sia la complicità degli Stati Uniti nell’alimentare il conflitto israelo-palestinese, cercando di amplificare il danno alla reputazione che Washington sta già subendo nella regione.

L’atteggiamento acritico, sottomesso e spesso sospettosamente furtivo di Trump nei confronti di Vladimir Putin ha anche minato la politica degli Stati Uniti nei confronti della Russia, provocando danni duraturi. Non sappiamo perché i democratici hanno rinunciato a cercare di far luce su almeno una dozzina di chiamate e incontri tra Trump e Putin non registrati pubblicamente nel corso di quattro anni alla Casa Bianca. Non è necessario credere che le spie di Mosca possiedano video porno imbarazzanti, o che Trump abbia sollecitato l’ingerenza russa nelle elezioni americane, per chiedersi se abbia concluso accordi privati con Putin. Ha forse suggerito, ad esempio, che gli Stati Uniti si sarebbero fatti da parte se la Russia avesse invaso l’Ucraina, dove dal 2014 si combatteva per il Donbass e la Crimea? Trump ha un problema personale con il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskiy. Questo da solo è sufficiente per modellare la sua politica.

Putin ha condannato l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ma ha anche messo in guardia Israele dal bloccare la Striscia di Gaza, paragonando tale atto all’assedio di Leningrado da parte della Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale. Inoltre, Mosca ha definito il conflitto come il risultato del fallimento della diplomazia statunitense, accusando Washington di aver abbandonato gli sforzi per contribuire alla creazione di uno Stato palestinese17. Hamas ha dichiarato di apprezzare l’appello russo per un cessate il fuoco e le dichiarazioni della Russia hanno attratto forte consenso in tutto il mondo arabo. La volontà russa di dialogare con Hamas si è fatta poi sempre più esplicita: prima ospitando una delegazione del movimento palestinese al Cremlino e poi dichiarando, tramite l’ambasciatore russo presso l’ONU, che Israele non avrebbe il diritto all’autodifesa nella sua lotta contro Hamas in quanto “Stato occupante”. La presa di posizione sempre più radicale della Russia minaccia, però, i rapporti amichevoli con Israele, che finora non ha aderito alle sanzioni occidentali contro Mosca né fornito armi all’Ucraina.

Le critiche di Trump agli alleati europei e le minacce di lasciare la NATO hanno causato una dannosa perdita di fiducia reciproca a cui Biden fatica ancora a rimediare. Da parte sua, Putin difende l’ex presidente. Recentemente ha dichiarato che le azioni legali federali contro Trump equivalgono alla “persecuzione di un rivale politico per ragioni politiche”. Evidentemente gli piacerebbe vedere il suo amico tornare al potere.

Il comportamento di Trump in carica, i suoi due impeachment e il fallito colpo di Stato del 6 gennaio 2021, hanno probabilmente incoraggiato Putin (e il cinese Xi Jinping) a considerare la democrazia americana malata, fallimentare e demoralizzata. L’“accordo di pace” di Trump in Afghanistan del 2020 – in verità, una capitolazione ai talebani – ha confermato la loro bassa opinione. Ciò ha portato direttamente al caotico ritiro del 2021 e alla distruzione della credibilità globale degli Stati Uniti che è stata in gran parte attribuita a Biden.

Non c’è da stupirsi che Putin calcoli che la capacità di resistenza americana svanirà nuovamente mentre Trump, facendo campagna elettorale quando non è in tribunale, distrugge la politica ucraina di Biden e i suoi fedeli seguaci repubblicani della Camera bloccano gli aiuti militari a Kiev. Imperturbabile di fronte al suo fiasco in Medio Oriente, Trump si vanta invano che potrebbe evocare un accordo di pace con l’Ucraina da un giorno all’altro – se rieletto (e non in prigione). L’amministrazione Biden, che ha fatto affidamento sul conflitto in Ucraina per infliggere una sconfitta strategica alla Russia e riaffermare la sua leadership unilaterale nel sistema internazionale, si trova ora di fronte a una domanda difficile: cosa è più importante per gli interessi americani – la “vittoria” nel conflitto in Ucraina (comunque assai improbabile, perché ormai la controffensiva ucraina è in stallo alla vigilia del secondo inverno di guerra) o la salvezza di Israele?

C’è quasi un consenso tra i partiti Democratico e Repubblicano nella Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti per sostenere Tel Aviv con $ 14 miliardi di aiuti militari, oltre ai $ 3,8 miliardi già erogati annualmente (16% del bilancio delle forze armate di Tel Aviv)18. Allo stesso tempo, il nuovo presidente della Camera dei Rappresentanti, il trumpista Mike Johnson, sta cercando di tagliare gli aiuti a Kiev, in un momento in cui la controffensiva ucraina è fallita, mentre ne è stata avviata una russa, e le notizie sul conflitto ucraino sono quasi scomparse dagli schermi televisivi e dalle prime pagine dei giornali.

È un momento insolitamente difficile per gli affari mondiali. E Biden è stato sfortunato anche a livello nazionale, data la crisi del costo della vita post-pandemia, il controllo della Camera dei Rappresentanti da parte dei repubblicani trumpisti e una Corte Suprema spostata completamente a destra. Eppure la sua più grande sfortuna politica rimane la nociva eredità globale e la presenza continua e unicamente distruttiva di Trump. È più di un semplice rivale in attesa che un presidente ottantenne scivoli e faccia una caduta. Simbolicamente, Trump è la nemesi di Biden e fra un anno sarà il suo più probabile avversario alle elezioni presidenziali.

Alessandro Scassellati

 

  1. In passato, Biden aveva più volte criticato il governo di estrema destra guidato da Netanyahu, ma dopo l’attacco del 7 ottobre tutti gli attriti sono stati sostanzialmente messi da parte. Le parole del segretario di Stato americano Antony Blinken (di religione ebraica) sono state un chiaro ritratto della posizione statunitense: “Potreste essere abbastanza forti da soli per difendervi, ma finché esisterà l’America, non dovrete mai farlo. Noi saremo sempre al vostro fianco”. Si stima che dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi (1948-2023), Israele abbia ricevuto dagli USA circa 158 miliardi di dollari (non aggiustati per l’inflazione), più di quanto gli Stati Uniti abbiano dato a qualsiasi altra nazione.[]
  2. La Corte Penale Internazionale definisce il crimine di genocidio come l’intento specifico di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso uccidendone i membri o con altri mezzi, compresa l’imposizione di misure volte a impedire le nascite o il trasferimento forzato dei bambini da un gruppo all’altro.[]
  3. Gaza è sostanzialmente sotto assedio dal 2005. Dal cosiddetto “disengagement” di Ariel Sharon, il ritiro di Israele – e dei suoi 8mila coloni, sparsi in 21 insediamenti. Erano gli anni in cui l’esercito israeliano calcolava le calorie minime medie indispensabili alla sopravvivenza, 2.279 pro capite, e non faceva entrare nella Striscia null’altro in più. Secondo l’ONU, nel 2020 Gaza sarebbe diventata inadatta alla vita, e siamo nel 2023.[]
  4. I numeri di bambini e donne morti a Gaza, però non sembrano contare per il presidente degli Stati Uniti. Biden è un politico a cui piace costruire una auto narrativa su quanto sia una “brava” ed empatica persona, ma è uscito allo scoperto quando ha detto: “non crediamo ai palestinesi riguardo al bilancio delle vittime”. A meno che Biden non sia disposto a fare ciò che nessuna precedente amministrazione statunitense è stata disposta a fare – vale a dire, imporre severe restrizioni sugli aiuti economici e militari e sul sostegno politico degli Stati Uniti, subordinatamente al comportamento di Israele a Gaza – l’amministrazione ha pochissima influenza sul governo di Netanyahu. L’unico modo in cui Joe Biden può rompere il legame genocida con Netanyahu è fare una cosa coraggiosa, che è anche la cosa giusta: unirsi a coloro che chiedono un cessate il fuoco per salvare vite umane, comprese quelle degli ostaggi e della popolazione di Gaza; e sostenere un “Israele sicuro accanto a uno Stato palestinese sicuro” come essenziale per la sicurezza a lungo termine di entrambi. Un primo segnale è arrivato con la dichiarazione che la Casa Bianca si oppone alla rioccupazione di Gaza fatta dopo che Netanyahu aveva suggerito una “responsabilità indefinita in materia di sicurezza”.[]
  5. Sullivan aveva fatto un lungo elenco di sviluppi positivi in Medio Oriente, sviluppi che avevano consentito all’amministrazione Biden di concentrarsi su altre regioni e su altri problemi. Nello Yemen vigeva una tregua (seppure fragile) da oltre un anno. Gli attacchi iraniani contro le forze statunitensi erano cessati. La presenza americana in Iraq era “stabile”. Poi, negli ultimi due anni c’erano stati l’accordo sui confini marittimi (per i giacimenti di gas naturale) tra Israele e Libano, il riavvicinamento iniziale e poi il rafforzamento delle relazioni tra Turchia ed Emirati Arabi Uniti, Turchia e Israele, Arabia Saudita e Qatar, Qatar e Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Qatar, per cui le rivalità che hanno polarizzato la regione del Medio Oriente per tanti anni venivano ora colmate attraverso la diplomazia e la sovrapposizione di interessi.[]
  6. Ovunque, il fronte occidentale impegnato in prima linea nel conflitto militare contro la parte più radicalmente integralista e conservatrice del mondo musulmano (al-Qaida, ISIS, etc.), si è affrettato a sostenere (nuovi e vecchi) regimi autoritari e militari cosiddetti “moderati”, ritenuti elementi di stabilità per gli equilibri regionali e globali, tradendo e, quindi, abbandonando ad un destino di violenta repressione i movimenti popolari e le società civili delle Primavere Arabe che non avevano nulla a che vedere con il paradigma politico integralista, ma volevano “globalizzare” i diritti, non il jihad.[]
  7. Inoltre, la riammissione dell’Iran nel mercato finanziario internazionale, insieme con il controllo sulla “mezzaluna sciita” (comprendente IRAQ, Siria e Libano), avrebbe potuto consentire di realizzare infrastrutture (strade, ferrovie, etc.), ma anche un gasdotto per trasportare fino alle coste libanesi sul Mediterraneo e da qui in Europa il gas del più grande giacimento scoperto sino ad oggi, il North Dome/South Pars del Golfo Persico che gli iraniani hanno in condominio amichevole col Qatar.[]
  8. Nel 1994 è stato firmato l’accordo di pace israelo-giordano che ha riportato la Giordania nelle grazie di Washington dopo il suo sostegno a Saddam Hussein nella Guerra del Golfo del 1990-91.[]
  9. La legge è assai controversa in Israele ed è in contrasto con la Dichiarazione di indipendenza del ’48 che prescrive “completa eguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso”. Il 21% degli israeliani sono arabi palestinesi, a cui si aggiungono i beduini (3%), i drusi (2%), i cristiani (2%). Tutti israeliani, ma non ebrei. Alcune personalità ebraiche israeliane sono giunte fino a ripudiare dimostrativamente l’ebraismo, per protesta contro la legge.[]
  10. Il 23 settembre 2023, 14 giorni prima dell’attacco di Hamas, Netanyahu aveva mostrato la mappa del futuro “Nuovo Medio Oriente” che sarebbe nato dagli accordi di Abramo e con l’Arabia Saudita. Una mappa in cui c’era solo lo Stato di Israele (il “Grande Israele” dal Giordano al Mediterraneo, cancellando qualsiasi riferimento al popolo palestinese e ai suoi territori.[]
  11. Negli ultimi anni, Modi ha costruito con Israele solidi legami economici e politici. Secondo i dati forniti da SIPRI, Tel Aviv è nella top 4 dei paesi che negli ultimi 10 anni (2012-2022) hanno venduto più armi a New Delhi. I rapporti vanno oltre la compravendita di armi, dal 2017 tra i due paesi si parla di partnership strategica e sono state condotte esercitazioni militari congiunte e firmati accordi di cooperazione in diversi ambiti, come la cyber security. Inoltre, i due rispettivi primi ministri hanno ottimi rapporti e, secondo Azad Essa, autore de “Patrie ostili: La nuova alleanza tra India e Israele”, la vicinanza tra i due può essere imputata alla comune ideologia etno-nazionalista e anti-musulmana portata avanti sia dal BJP di Modi che dalla coalizione tra Likud ed estrema destra guidata da Netanyahu.[]
  12. Il Forum Negev mette insieme israeliani e arabi per discutere la cooperazione in settori che vanno dalla sicurezza al clima, al commercio, al turismo, alla promozione della tolleranza e all’istruzione.[]
  13. Entrambi i paesi hanno ottenuto qualcosa in cambio dagli Stati Uniti: il riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell’annessione del Sahara occidentale da parte del Marocco, la revoca della designazione statunitense del Sudan come stato sostenitore del terrorismo.[]
  14. Israele è sicuramente un paese democratico se si considerano la libertà di stampa, di dimostrazione, di voto. Ma la democrazia non è certo compatibile con l’occupazione illegale di territori, l’aumento delle colonie e i diritti negati o declassati dei palestinesi di Cisgiordania e Gaza. Dal 7 ottobre oltre 150 palestinesi (un terzo minori) sono stati uccisi dalle forze di occupazione e dalle milizie dei coloni israeliani in Cisgiordania, mentre 2.100 sono stati feriti e numerosi attivisti sono stati arrestati. La costruzione degli insediamenti dei coloni ha sfruttato quella che era intesa come una soluzione amministrativa temporanea negli Accordi di Oslo, che hanno suddiviso la Cisgiordania in aree di controllo fino al raggiungimento di un accordo di pace finale. Israele ha sfruttato la sua zona – circa il 60% della Cisgiordania conosciuta come Area C – per espandere gli insediamenti, costruire basi militari e strade che circondano le aree sotto l’amministrazione palestinese. Il risultato è un mosaico di cantoni che ricordano il sistema dei bantustan delle homeland nere del Sudafrica dell’apartheid. La presa del potere si è intensificata di recente con i coloni israeliani che hanno costretto i palestinesi a lasciare la terra nell’Area C, con l’aiuto dei militari e l’incoraggiamento dei membri di estrema destra del governo di Netanyahu.[]
  15. È importante ricordare che come candidato presidenziale nel 2020, Joe Biden aveva promesso di fare di Riyadh un “paria” internazionale dopo che la CIA aveva fatto sapere di ritenere il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman responsabile dell’omicidio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi il 2 ottobre 2018.[]
  16. C’erano ostacoli significativi sulla via di un accordo. I sauditi chiedevano misure tangibili da parte di Israele per migliorare le prospettive politiche dell’Autorità Palestinese, aprendo almeno la possibilità di negoziati verso una soluzione dei due Stati. Data la composizione di estrema destra del governo israeliano, tali iniziative erano improbabili. Anche le richieste di Riyadh agli Stati Uniti erano problematiche, soprattutto quella relativa ad una garanzia formale di sicurezza e assistenza nella costruzione di un’infrastruttura nucleare civile saudita senza i vincoli che Washington ha imposto ad altri paesi. Tuttavia, c’era un senso di progresso. Meno di tre settimane prima dell’attacco di Hamas, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman aveva dichiarato a Fox News che “ogni giorno ci avviciniamo” nei negoziati.[]
  17. Inviati diplomatici cinesi e russi per il Medio Oriente si sono poi incontrati per discutere di una collaborazione finalizzata a calmare la situazione, sottolineando il loro impegno verso la soluzione dei due Stati.[]
  18. Martedì la Camera dei Rappresentanti controllata dai repubblicani ha votato per censurare la rappresentante della sinistra democratica Rashida Tlaib del Michigan (uno Stato pendolo dove gli arabo-americani avevano votato in massa per Biden nel 2020) – l’unica palestinese americana al Congresso e un membro di spicco della “Squadra” di donne parlamentari progressiste – per la sua retorica sulla guerra Israele-Hamas. Il risultato di 234-188 è arrivato dopo che un numero sufficiente di democratici si è unito ai repubblicani per censurare Tlaib, una punizione un gradino sotto l’espulsione dalla Camera. La deputata al terzo mandato è stata a lungo oggetto di critiche per le sue opinioni sul conflitto in Medio Oriente. Tlaib ha provocato critiche la scorsa settimana difendendo il controverso slogandal fiume al mare”, che secondo alcuni auspica la cancellazione di Israele. Nei commenti alla Camera, Tlaib ha difeso le sue critiche al paese e ha esortato i legislatori a unirsi nella richiesta di un cessate il fuoco a Gaza. “Non sarò messa a tacere e non vi permetterò di distorcere le mie parole”, ha detto Tlaib. “Nessun governo è al di là delle critiche. L’idea che criticare il governo di Israele sia antisemita costituisce un precedente molto pericoloso ed è stata utilizzata per mettere a tacere diverse voci che parlano a favore dei diritti umani in tutta la nostra nazione”.[]
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