di Cosimo Fiori –
La classica categoria della profezia che si auto-avvera viene d’aiuto anche per spiegare le vicende immediatamente successive alla scelta del governo di aumentare il deficit di previsione. Da mesi la grande stampa va ripetendo che l’Italia e il suo governo sono un pericolo; che tale pericolo avrebbe causato la fuga dei capitali e l’aumento dello spread; poi il Governo annuncia la sua decisione, e lo spread in effetti riprende a salire. Gli operatori di mercato fanno quello che si aspettano che facciano tutti gli altri, cercando di prevenirli: l’aspettativa era questa, era già annunciato.
In molti aspettavano il governo italiano al varco, e ora si vedrà se il governo è all’altezza della situazione che ha contribuito a creare. Di certo tutti i suoi nemici sguaineranno le spade già affilate da tempo, sia sul fronte interno sia su quello estero, dove al presunto scontro tra liberal-europeisti e nazionalisti-sovranisti si mescola quello tra gli interessi dei vari Stati europei, sotto l’occhio vigile dei grandi capitali. Sia come sia – tenuto conto, comunque, della marginalità effettiva dell’Italia in questa fase – ci si può innanzitutto chiedere che posizione si debba prendere di fronte alla politica economica annunciata dal governo, senza cadere negli opposti “codismi”: evitando, cioè, di fare i camerieri del partito filo-governativo o di quello filo-spread (su cui Brancaccio: http://brancaccio.blogautore.espresso.repubblica.it/2018/09/27/contro-le-sinistre-codiste/).
L’esercizio è utile e, a giudizio di chi scrive, ne viene fuori che l’opposizione tra queste due fazioni, che attualmente polarizza il campo di battaglia politico, è in realtà falsa e illusoria, con buona pace dei vari Cacciari che chiamano alla grande “crociata contro il fascismo” dietro le insegne di Macron. Per quanto attiene al tema in questione, la domanda non dovrebbe essere deficit più/deficit meno, ma al limite deficit quale? Tra la politica economica del Pd e quella dell’attuale schieramento governativo c’è una continuità notevole. Non solo nella retorica (noi vogliamo crescere ma l’Europa ce lo impedisce), non solo nella battaglia contro le restrizioni di bilancio e a favore del rialzo del deficit (in astratto condivisibile), ma anche nella logica di fondo che governa le scelte. A un primo sguardo e per sommi capi, vi è una lotta di principio tra coloro che ritengono che si debba 1) tagliare il debito e che 2) come conseguenza ne verrà la crescita (ortodossia ordoliberale), e coloro che ritengono esattamente il contrario (keynesismo e affini): 1) prima si impiegano risorse, cioè si alza il deficit e 2) come conseguenza della crescita generata, il debito calerà. Quasi tutte le forze politiche italiane (tranne le quinte colonne di Bruxelles, +Europa) appartengono oggi, come retorica, al secondo partito. Quanto alla pratica, a parte il fatto che le forze poi conglomerate nel Pd sono state da un paio di decenni le più grandi assertrici dei dogmi ordoliberali (dalle privatizzazioni in poi), va detto che nell’ultima legislatura il Pd ha ottenuto, probabilmente come aiutino “anti-populismo”, di spendere di più. Il governo attuale vuole spendere di più. Ma come? Ecco la continuità logica.
Politica fiscale e trasferimenti. Renzi fece il bonus fiscale degli “80 euro” (in sostanza un taglio all’Irpef per redditi medi), e poi ancora i “500 euro” per la cultura. Il Governo attuale vorrebbe nel medio periodo tagliare le aliquote Irpef (prevalentemente per i redditi alti) e fare il reddito di cittadinanza – invero dimidiato, ché i soldi non ci sono. Reddito che, per inciso, nella sua purezza teorica, è una palese violazione dell’art. 4 della Costituzione, in base al quale l’idea che si abbia diritto al mantenimento per il semplice fatto che si esiste è un’aberrazione: il rapporto di cittadinanza è caratterizzato da un diritto-dovere al lavoro dal lato del cittadino, e di conseguenza da un tendenziale impegno, non rispettato, della Repubblica alla piena occupazione. Ma insomma, la continuità logica sta in ciò, che è giusto fare deficit per stornare risorse dal bilancio pubblico e metterle direttamente in tasca alle persone, nella convinzione che tale allocazione sia più efficiente e produttiva di qualsiasi spesa pubblica (un conto è erogare un servizio pubblico, un altro è mettere in mano al privato i soldi per pagarsi lo stesso servizio). Posso spendere 100 euro per ristrutturare le scuole; per assumere medici; per manutenere i ponti; per aprire centri di ricerca. Oppure posso semplicemente girare i 100 euro ai privati (scelti in varie guise: redditi medi, redditi alti, redditi inesistenti, diciottenni…) o addirittura non riscuoterli (taglio fiscale), nella convinzione che 100 euro in mano a un privato generano, alla fine, un effetto complessivo migliore dei 100 euro spesi direttamente dallo Stato per una a caso delle finalità anzidette. Va da sé che il privato può non spenderli tutti (a differenza dello Stato), la banca presso cui sono allocati può non prestarli tutti o investirli all’estero, e anche la spesa del privato si dirigerà almeno in parte verso beni voluttuari d’importazione: se con gli 80 euro si compra lo smartphone a rate, a beneficio di una società con sede in Irlanda, che beneficio ne trae il sistema economico italiano? Senza parlare della differenza di moltiplicatore tra un investimento pubblico e la spesa al dettaglio. Questo tipo di politica economica è, da un lato, chiaramente elettorale (quanto a Renzi, del tutto inutilmente); dall’altro, però, rispecchia una convinzione diffusa, e cioè che l’unica politica economica possibile è mettere i soldi nelle mani dei privati (nessuna pianificazione pubblica, nessuna politica industriale, stagnazione degli investimenti, etc.). L’argomento per cui sarebbe sì bello investire soldi pubblici in grandi priorità, ma i soldi non ci sono, non coglie nel segno: fatta x la spesa, si può sempre scegliere dove allocarla. E, per parafrasare Gaetano Mosca, è verosimile che una minoranza di capitali organizzati sia più efficace di tante banconote sparse qui e là.
Altra linea di evidente continuità logica è quella sulle politiche del lavoro. Il governo Renzi fece il “Jobs act” (locuzione orgogliosamente anglica, nel cui uso ricadono anche gli attuali “sovranisti” quando parlano di “flat tax” etc.: sovranismo sì, ma sempre un po’ eterodiretto). Il “Jobs act” rendeva di fatto puramente nominalistica la differenza tra contratti di lavoro subordinato a tempo determinato e indeterminato (“tutele crescenti”), condendolo con ulteriori elargizioni ai privati: sgravi contributivi alle imprese. Il governo attuale, col decreto “Dignità”, restringe, in modo del tutto aggirabile, le regole sui contratti a termine (senza toccare, ad esempio, le finte partite Iva). Entrambe queste misure, per quanto in teoria agli antipodi, agiscono sul medesimo piano, per la verità in ulteriore continuità con l’idea ultraventennale che la flessibilità è necessaria per far crescere il lavoro. La logica è la seguente: le imprese non assumono perché ci sono troppi vincoli, dobbiamo toglierli – Treu, Biagi, “Jobs act”… – anche per competere sui mercati internazionali (e cioè fare concorrenza sui bassi costi, e non sull’alta tecnologia); ma così è troppo, dobbiamo reintrodurne qualcuno (“Dignità”). Cioè: la domanda di lavoro da parte delle imprese dipende dai costi (perché i “vincoli” sono nient’altro che costi, per l’impresa), e non dalle aspettative di mercato. Va da sé che se il costo del lavoro fosse inesistente o quasi (schiavitù), l’impresa non assumerebbe comunque nessuno, se immaginasse quale unico risultato di un aumento della produzione i magazzini pieni di merce invenduta. Anche qui ci sono due linee contrapposte: la domanda di lavoro dipende dal mercato del lavoro o dal mercato dei beni e servizi? L’agire, in un senso o nell’altro, solo sulle regole del mercato del lavoro vuol dire inserirsi nella prima corrente. Tornare, pur blandamente, a inasprire le regole senza che si modifichino le aspettative impone alle imprese molte vie di fuga: finte partite Iva, lavoro nero, nessuna assunzione. In un periodo di scarsa domanda interna e bassi investimenti, senza un prevedibile flusso di investimenti pubblici, a trainare la domanda resta solo il mercato estero (finché dura, dati i venti di protezionismo): come è possibile che aumenti l’occupazione stabile? Due parole andrebbero infine spese anche sul fronte condoni fiscali: tra “rottamazioni” e “pace fiscale” è difficile non vedere una qualche continuità.
Il saldo legame ideologico tra i due fronti – (ordo)liberalismo-europeismo e sovranismo-populismo-fascismo – viene da lontano, e affonda le sue radici nella guerra allo Stato sociale e interventista, nel quale si erano incorporati tutti gli avanzamenti politici ottenuti delle forze operaie e popolari nel dopoguerra. Il primo fronte è l’autore del riuscito attacco, il secondo ne raccoglie le vittime civili e le consola proponendo di concludere l’opera del primo. Cionondimeno, è reale la paura dell’esistenza che spinge vaste masse verso il secondo polo. Ed è allora incommentabile, degna del più sciocco Pangloss, la scelta del Pd di manifestare “per l’Italia che non ha paura”.
Che dire, dunque, del deficit? Il tentativo potrebbe essere quello di spostare la questione dal quanto deficit al quale deficit. Ma vi sono enormi problemi politici: la parola d’ordine potrebbe anche essere corretta, ma è efficace in questo momento, in cui il campo di lotta è già ampiamente, per quanto illusoriamente, polarizzato? Chi è che potrebbe porre con qualche forza tale parola d’ordine, chi siamo noi? Comunque la si ponga, tutto conduce a ritenere che la linea politica della fase attuale debba essere quella del “né… né…”, che solitamente è difficile nella teoria e scivolosa nella pratica. La manovra del governo non è “la manovra del popolo” di cui gioire sui balconi, tutt’altro; ma molte delle critiche a essa rivolte sono esse stesse sbagliate. Su questa come su altre questioni (a partire da quelle puntuali per giungere a quelle capitali, come l’Europa, il “sovranismo” e una certa, talora pelosa “pregiudiziale antifascista”) è necessario provare a costruire una visione autonoma, che sconti le difficoltà del “né né” qui ed ora, ma con l’occhio volto al futuro. Non bisogna accodarsi ai contendenti in lotta adesso, perché potrebbero perdere entrambi.