di Sergio Brenna – Francesco Pallante ne Il Manifesto del 6.9.18 osserva giustamente come il rango costituzionale della tutela del diritto alla casa anche per coloro che non ne hanno i mezzi economici sia conculcato da normative di rango legislativo in campo di ordine pubblico e che “lo Stato ha abdicato, eccome, al dovere di garantire a tutti i cittadini il fondamentale diritto sociale all’abitazione. Le risorse impiegate in materia, pari dal 26% degli investimenti pubblici totali negli anni Cinquanta, sono crollate a meno dell’1% negli anni Duemila, per scendere ulteriormente ad appena lo 0,09% delle spese per il welfare (contro l’1,19% del Regno Unito, il 2,05% della Germania e il 2,62% della Francia).”
Con ciò, tuttavia, si viola anche un’altra disposizione normativa legislativa: il disposto dell’art.3 della L. 167/62 (rinnovato dalla 865/71) sui piani di edilizia economico popolare, tutt’ora vigente e che recita: “L’estensione delle zone da includere nei piani è determinata in relazione alle esigenze dell’edilizia economica e popolare per un decennio e non può essere inferiore al 40 per cento e superiore al 70 per cento del fabbisogno complessivo di edilizia abitativa nel periodo considerato.”
Ebbene, soprattutto nei nuovi strumenti di “urbanistica contrattata” (PII, PRU, Accordi di programma, ecc.) introdotti dalla legislazione nazionale a partire dagli anni ’90 in deroga alla pianificazione generale dei Piani Regolatori, ma anche nei piani generali cosiddetti “di nuova generazione”, per lo più originati da discutibili “invenzioni” urbanistiche di legislazione regionale – Lombardia e Toscana da tempo e di recente Emilia Romagna, ma che per imitazione sono una tendenza “nuovista” potenzialmente dilagante in modo disorganico ovunque – il rispetto di questa disposizione viene regolarmente ignorato e la quota di edilizia economico popolare è per lo più nulla (si vedano a Milano i PII Citylife sull’ex Fiera e Porta Nuova sull’ex Centro Direzionale). In ciò il mancato rispetto di quella norma è ulteriormente facilitato dalla altrettanto apparente “modernità” della norma urbanistica specificamente introdotta in quei piani di cosiddetta “indifferenza funzionale”. Gli attuatori dei piani urbanistici sono, cioè, liberi di modificare in fase realizzativa le previsioni edificatorie quantitativamente fissate (spesso in modo incongruamente “contrattato”) adattandole via via a destinazione residenziale o terziario-commerciale a seconda delle mutevoli opportunità di mercato, nella presunzione (tutta da dimostrare) che ciò non incida sulle esigenze di dotazioni di spazi e servizi pubblici, mentre lo è sicuramente sul piano della fruibilità sociale e per l’edilizia residenziale popolare, anche su quello economico.
Dopo gli anni dei provvedimenti deregolativi sparsi “a tradimento” nelle più svariate circostanze (varie successive leggi finanziarie, sino all’assurdo della 179/92 che – “al fine di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale” – istituiva le deroghe di PII e quant’altro in un provvedimento di rifinanziamento dell’edilizia popolare!) e dopo l’interrottosi (per termine legislatura) “idillio” del 2005 tra gli allora deputati milanesi Maurizio Lupi (FI, poi PdL ora Noi con l’Italia, ma sempre nel centro-destra) e Pierluigi Mantini (allora Margherita, poi PD, poi Unione di Centro e oggi all’ANAC) per istituzionalizzare in legge la concezione “contrattualistica” dei principi urbanistici, occorre oggi rimettere in campo una visione complessiva di sinistra del controllo pubblico nell’uso di città e territorio, che ne consenta un identico diritto all’utilizzo civile e sociale, sia che se ne abbiano i mezzi economici per pagarselo o meno.