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Caro Roberto

di Nichi
Vendola

Caro Nichi Vendola grazie della tua interlocuzione al mio articolo. il cognome non era di lontananza ma precisamente di riferimento ad una storia. Grazie veramente e cerchiamo ancora. Roberto Musacchio

Caro Roberto,

noi non ci siamo mai chiamati per cognome, fin da quando ti ho conosciuto in un ufficio a Botteghe Oscure, un numero impressionante di anni fa. E mi riesce difficile chiamare per cognome le persone a cui voglio bene.  E dunque dirò così: caro Roberto!

Io apprezzo molto il tuo bisogno di tornare a riflettere sui nodi assai intricati della nostra ciclopica sconfitta. E come te mi interrogo non solo sulla grande storia che ci ha travolti, sulla rivoluzione liberista che ha sfigurato la società e cooptato la sinistra governista nella sua affabulazione, sulla deriva mercatista, bellicista e securitaria che ha disidentificato la sinistra moderata ma anche, di rimbalzo, colpito al cuore la sinistra tout court.

Mi interrogo anche sui nostri e sui miei errori, sulla evidente sottovalutazione di un avversario ubiquo e quasi inafferrabile, sulla illusione di poter condizionare “da sinistra” un assetto socio-economico assoggettato a un vincolo esterno che era l’europeismo senza democrazia di Maastricht e l’atlantismo delle guerre umanitario-petrolifere. E nonostante fosse sproporzionata la nostra ambizione rispetto al contesto internazionale e ai rapporti di forza interni, nonostante la solare ingenuità della nostra sfida, nonostante la modestia del nostro insediamento elettorale, contro di noi si è scatenato l’inferno.  La nascita del governo Monti fu lo sbarramento, nazionale e sovranazionale, della possibilità di una uscita “a sinistra” dalla crisi di un intero ciclo economico e sociale.

Ma voglio interloquire con te sul punto credo cruciale della tua critica nei miei confronti, e cioè la mia frase congressuale: “a me interessa più la partita che il partito”: vale la pena specificare che io non ho mai pensato al partito come un reperto archeologico o come un impaccio a poter giocare la partita: al centro della mia polemica c’era il partito inteso come mistica di se stesso e come burocratica autoreferenzialità dell’apparato, cioè il partito come fine e non come mezzo, il partito declinato al maschile, il partito come superfetazione ideologica indifferente alla propria utilità sociale. Come sai non ho mai avuto il mito verginale della società civile.  Non ho mai inseguito le teorie speculari dell’autonomia del politico e dell’autonomia del sociale: anzi, le ho sempre considerate l’incubatore di molte sconfitte. Ma la crisi della forma-partito non l’ho inventata io, io l’ho solo nominata per spirito di verità.

Nella tua ricostruzione merita una qualche supplementare attenzione la genesi della rottura dentro Rifondazione, all’indomani del drammatico esito delle elezioni politiche del 2008, con una resa dei conti interna ai nostri gruppi dirigenti  che rimandava alla peggiore cultura stalinista. Quel passaggio, fatto di gesti e parole che laceravano irrimediabilmente una comunità umana e politica, spogliò di senso la parola “Rifondazione”. Tu forse ricordi che per quella parola, all’atto di nascita di quel nostro partito comunista, mi ero speso come nessun altro, con tutta la mia passione: affinché il nostro tentativo non fosse una “restaurazione” ideologica o la patetica riesumazione della salma del Pci. E oggi più che mai penso che il nostro compito sia rifondare innanzitutto un vocabolario e un immaginario della sinistra del futuro.

Poi, caro Roberto, c’è un buco di molti anni in cui non ci siamo più visti, se non a qualche funerale: e i funerali sono l’unico luogo in cui spesso viene misurata la originalità e persino la nobiltà della nostra storia. In questo buco temporale siamo forse passati a chiamarci col cognome. O a non chiamarci più.  In questo buco ci sono ferite e dolori che rendono fatali le separazioni e persino i risentimenti.

Ma forse meritiamo di essere più generosi con noi stessi e tra noi. Un abbraccio, Nichi (Vendola)

 

 

 

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4 Commenti. Nuovo commento

  • Daniela Rosati
    23/06/2021 18:37

    Proprio come dice Vendola, quel congresso del 2008 ha sancito una lacerazione irreversibile politica ed umana. Impossibile dimenticare quei compagni con i quali si erano condivisi anni di lotte, intonare Bandiera Rossa con disprezzo contro altri compagni.

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  • Luciano Zambelli
    25/06/2021 12:18

    Commento *
    Penso che, volendo, ciascuno possa senz’altro trovare le sue buone ragioni per giustificare le scelte fatte in passato e magari per rinfacciare ad altri di aver depotenziato l’opposizione o, al contrario, di non aver sostenuto tentativi di frenare o ritardare il progressivo smantellamento di diritti e garanzie. D’altra parte “come sarebbe andata se” non è così facile saperlo. Oggi, secondo me, chi vuole lavorare per costruire una valida sinistra che non c’è deve superare e mettere da parte ogni vecchia diatriba e puntare sulla ricerca dei mezzi e delle modalità oggi più opportune. Mi sembra che muoversi tenendo presente la prospettiva di una “rifondazione europea della sinistra” sia effettivamente il modo migliore, anche perchè ci consentirebbe di fare maggiormente tesoro di esperienze, spesso positive, fatte in altri Paesi.

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  • In quel congresso fu fatta una scelta politica,una parte inizio un viaggio politico portando quei compagni ad essere funzionali al disegno liberista. Furono presenti in parlamento con piena sodisfazione personale ma letali per la sinistra.

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  • Silvana Telaro
    26/06/2021 17:48

    Intonando Bandiera Rossa, sento dentro di me tutte quelle battaglie, tutte quelle sconfitte che hanno animato la nostra giovinezza. Ma, sento anche quanto sono difficili i rapporti umani che sono alla base della costruzione di una società nella quale il dialogo che genera il confronto, dovrebbe saperci governare.

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