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Binari e tradotte

di Giancarlo
Scotoni

Non so quanto interesse avrebbe il riproporre la verità di quanto la guerra in corso sfondi l’illusione di razionalità che circonda le nostre esistenze di minoranza garantita e quanto ci lasci inermi: di questo si parla abbondantemente e con dovizia, questo si pone nel campo del reale. Invece mi interrogo su un altro piano perché do per certo che non bisognerebbe seppellire ma occorrerebbe confrontare reciprocamente le modalità con cui la notizia dell’invasione dell’Ucraina si è imposta alle nostre coscienze e ha prodotto le nostre personali catene di sensazioni, di reazioni e di pensieri.

Mettere a confronto i processi delle nostre re(l)azioni interne, la loro storia ci consentirebbe di illuminarli ulteriormente e farebbe venire a galla i processi mentali per come si sono originati e via via trasformati. Dunque sarebbe possibile non tanto individuare un quadro psichico quanto leggere caratteristiche e limiti dei processi sociali che costruiscono i nostri stati d’animo e che ci fanno sviluppare i nostri pensieri.

Per chi scrive il sentimento di paura si era già affermato settimane avanti il 24 febbraio e aveva già distillato un senso di impotenza molto distinguibile nel suo contrappunto di impulsi individuali e di delega al gruppo: elucubrazione e commento, senso di alterità e di appartenenza, impulso a condividere opinione e identità oppure a staccarsene. Erano stati giorni in cui per me la depressione per l’ineluttabilità della minaccia incombente mi faceva dimenticare quella eccitazione che talvolta si genera dalla nostra presunta capacità di previsione; quel sottile senso di privilegio o di potenza che ci viene regalato dal presunto possesso di capacità o di competenze o di conoscenze o di posizionamento che ci sembra (o che speriamo) ci stiano distinguendo dal nostro prossimo. Me la faceva dimenticare tanto che solo ora mi riemerge come una delle sensazioni possibili.

Dunque dinamiche interne al comportamento sociale: quale stato d’animo sperimenta la gazzella che decide di proseguire nel branco oppure di scartare a destra o a sinistra imponendo incidentalmente la propria leadership? Quale distinzione è in atto tra razionalità e follia nella guerra? Teniamoci sul generale e lasciamoci pure alle spalle ogni suggestione etologica anche se il proporla ha una significatività e anche se il sapore di un rituale cieco ha accompagnato la mia considerazione non solo dei talk-show televisivi ma anche della produzione e scambio delle opinioni, persino quelle di persone a cui rimango legato per stima, considerazione e affetto.

Infatti per chi scrive l’anticipazione del senso di impotenza, di ineluttabilità, di tragedia si è tradotto in un plumbeo senso di isolamento che si è presentato autonomamente e in anticipo rispetto allo sfilacciamento del tessuto delle relazioni,  che è stato un fenomeno a sé.

Per quanto mi riguarda una consapevolezza contraddittoria e forse debole della diversità individuale ha reso i processi di (auto)riconoscimento disagevoli. Penso in questo di non essere l’unico: sospetto anzi che la gioia della liberazione collettiva sia tanto maggiore quanto i percorsi individuali sono dolorosi e contraddittori: dall’alto dei cieli e dal fuori della coscienza alienata il sospetto scruta le dimensioni desideranti mentre anche nel caso della guerra in atto la declinazione soggetto/collettivo ha presentato il suo riconoscibile carattere sociale nella formazione delle opinioni e nella loro messa a valore nella riproduzione.

Oltre la dimensione professionale dei talk show, su facebook e non (ma in metropolitana sembra resistere un maggiore rispetto per la serietà dell’argomento) ho letto autoproposizioni, vuote retoriche, impliciti ricatti che per essere (spesso, ne sono certo) inconsapevoli non mi sono parsi più sopportabili.

Dunque, dopo un breve tentativo di rifugio nel sarcasmo, mi sono trovato a chiudere quelle saracinesche che ancora una volta -purtroppo e con disagio- si sono abbassate non tanto verso le “posizioni” diverse dalla mia quanto verso il significato e l’uso sociale di alcune scelte, di alcuni comportamenti di scelta.

Ho trovato ributtanti e  insostenibili l’espressione gioconda e vagamente fuori contesto del Letta con l’elmetto; la sguaiatezza dell’irrisione riservata a chi chiede tempo e riflessione, la riproposizione del Davide e del Golia del raffinato intellettuale (anche perché un Davide mi capitò di patirlo senza essere io nel modo più assoluto un Golia): ma oltre il limite interno che mi definisce e mi contiene mi spingerei a dire che ho visto o intuito anche kapò di se stessi in questa tragedia di furbizie, di irresponsabilità e anche di posizionamenti sinceri e sbagliati.

Inutile dire che per quanto mi riguarda il panorama di queste settimane è stato anche profondamente diverso, che non posso estendere questa irrorazione di sconforto a tutto il mio intorno, anzi! Che ve lo dico a fare, ho scoperto e riscoperto consonanze, vicinanze calde, umanità, rispetto per le relazioni anche nell’attività di riflessione e ricerca… Queste evenienze però si sono sempre costruite oltre e fuori la regola, le regole, le convenienze, i meccanismi, i nessi del quadro sociale esterno e interno alle menti. D’altronde se è impossibile negare il valore di ritrovare l’agnello smarrito è anche impossibile negare quello di riconoscersi agnelli smarriti: quale terreno abbiano raggiunto le opposizioni e le lotte interne e mentali contro la guerra non è compito che mi sia possibile espletare. Ora io voglio –anche- poter sentire dentro di me le donne che si stendevano sui binari davanti ai treni che portavano i soldati in Libia. Questo mi fa stare meglio.

Nella risposta all’ultima domanda di una breve intervista, all’intervistatrice che le chiedeva fino a che punto pensasse che la psicoanalisi potesse essere d’aiuto nel riformulare la teoria e la pratica politica, Judith Butler rispondeva: 1

“Penso che sia particolarmente importante, nella politica contemporanea, rintracciare le strategie di rimozione, considerare come il passato continui nel presente, anche come presente. Non so se possiamo riuscire a capire quello che succede in Medioriente senza un senso specificamente politico del trauma. E non so se possiamo riuscire a capire il razzismo, la misoginia, l’omofobia, la xenofobia senza considerare l’ansia e la paura che accompagnano le relazioni di prossimità con gli altri. Noi negoziamo costantemente i confini che ci separano dagli altri o che ci connettono con loro, e ciò dimostra come certi problemi psicoanalitici, concepiti socialmente, informino la politica contemporanea sull’immigrazione (che riguarda sempre il confine: chi può attraversarlo, e a quale prezzo per il sé?) e sulla guerra (chi può irrompere attraverso un confine, e a quale costo?). Non credo che estrapolare un modello individuale della psiche per pensare le relazioni politiche funzioni: la cosa che mi pare più promettente è considerare con quanta frequenza le relazioni politiche siano formulate in termini di ansia, paura, difesa, vendetta, aggressione, ma anche, e viceversa, di riparazione e relazionalità.”

  1. http://www.universitadelledonne.it/butler-inter.htm[]
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