articoli

Biden, Xi Jinping e Bergoglio al capezzale della democrazia

di Franco
Ferrari

Nei giorni scorsi il tema della democrazia, del suo stato a livello globale e delle sue prospettive, è stato al centro di varie iniziative che hanno visto impegnati il presidente degli Stati Uniti, la Cina e Papa Francesco. Prospettive diverse tra loro che però indicano come le leadership delle maggiori potenze (politico-economico da un lato, spirituale ma non solo nell’altro) ritengano di doversi misurare su alcune tendenze che operano nello scenario globale.

Il primo evento che ha affrontato il tema democrazia è stato organizzato dal Presidente degli Stati Uniti che ha dato seguito ad un impegno assunto in campagna elettorale. Chiamato pomposamente “Summit per la democrazia” si è rivelata alla resa dei conti un’iniziativa modesta e di scarso impatto. Anche all’interno degli Stati Uniti e anche in ambiti non ostili alla presidenza democratica, l’incontro, rimasto virtuale a causa del Covid-19, ha suscitato più scetticismo che entusiasmo.

Biden ha convocato un po’ più di un centinaio di capi di Stato e di governo scelti a suo insindacabile giudizio per chiamare a dare un contributo allo sviluppo della democrazia e dei diritti umani. Non poche critiche si sono appuntate sulle scelte compiute tra inclusioni ed esclusioni. Quale contributo potranno mai dare personaggi come il presidente brasiliano Bolsonaro, di cui sono note le tentazioni golpiste, o il filippino Duterte, durante la cui presidenza si sono contate decine di migliaia di vittime di una repressione indiscriminata giustificata con la necessità di riportare “legge e ordine”? Alcune scelte sono state motivate da logiche tutte interne alla politica di potenza americana piuttosto che a criteri oggettivi. La decisione di escludere l’Ungheria di Orban ma non la Polonia del PiS (paesi entrambi indirizzati ad un corso autoritario) ha a che vedere col fatto che la prima mantiene rapporti amichevoli con la Russia mentre la seconda è fortemente ostile.

Le scelte che rivelano ampiamente l’ipocrisia americana sono molte. Discusse quelle di invitare “Stati” non internazionalmente riconosciuti come il Kosovo e Taiwan (quest’ultima in funzione provocatoriamente anti-cinese). O di prendere ancora seriamente il ruolo dell’autoproclamato presidente del Venezuela Guaidò, che non solo non è mai stato eletto dai suoi cittadini ma nemmeno mai si è candidato a tale carica. Ormai ha perso anche quel poco di credibilità che aveva nell’opposizione venezuelana ed è poco più di una marionetta nelle mani del Dipartimento di Stato americano. Senza contare la contraddizione di escludere paesi considerati non democratici ma che contemporaneamente sono stretti alleati degli Stati Uniti come molte tirannie mediorientali, il che rende evidente il contrasto fra proclami ideologici e cinismo politico.

Ma queste sono tutte sommato le critiche di contorno. Quelle sostanziali sono state fondamentalmente due: la prima viene da chi ritiene che sia sbagliata e pericolosa la scelta di cercare di creare una nuova contrapposizione tra blocchi “ideologici”, secondo lo schema della guerra fredda con l’Unione Sovietica; la seconda è che oggi il problema della democrazia gli Stati Uniti ce l’hanno in casa e non sono certo in grado di proporsi come punto di riferimento per il resto del mondo senza aver risolto innanzitutto i propri problemi (manipolazione del sistema elettorale e negazione del diritto di voto a milioni di persone, politicizzazione della magistratura a tutti i livelli, diffusione di gruppi armati, negazione di diritti civili fondamentali in molti Stati, ecc.).

Il “summit per la democrazia” rappresenta un tassello di una politica globale degli Stati Uniti di Biden che presenta non poche contraddizioni. La prima è che mentre da un lato si cerca di ridurre l’impegno militare e la partecipazione diretta alle guerre locali (come si è visto con la ritirata dall’Afghanistan, per altro malamente gestita) dall’altro si vuole riattivare un ruolo di direzione ideologica secondo una logica di campo. La seconda è che risulta evidente il contrasto fra la retorica di un “America che è tornata” sulla scena mondiale (dopo la presidenza Trump) e la difesa del primato economico e tecnologico degli Stati Uniti, anche a scapito degli interessi degli alleati. La terza è quella di gestire il conflitto con la Cina (e secondariamente con la Russia) spingendo da un lato alla contrapposizione ideologica ma anche militare, mantenendo contemporaneamente la collaborazione su temi di carattere globale (come il cambiamento climatico) e senza avere del tutto chiaro come gestire il complesso intreccio economico che si è andato creando in alcuni decenni di globalizzazione.

Biden resta ancorato alla tradizione ideologica dei “Cold War liberals”, progressisti all’interno e interventisti e fautori della Guerra Fredda a livello globale. Il problema di questa corrente, come dimostrano gli scivoloni che l’Amministrazione democratica sta accumulando in poco tempo (come il catastrofico abbandono delle sabbie mobili afghane, lo scontro con la Francia sulla vendita di sottomarini all’Australia, il fallimento del Summit per la democrazia), è che da un lato gli Stati Uniti non hanno più il peso economico e tecnologico globale sul quale potevano contare un tempo e dall’altro che gli equilibri globali non sono riconducibili ad una frattura ideologica netta come quella tra comunismo e anticomunismo che aveva caratterizzato il periodo ’47-’89.

La Cina rivendica la “democrazia che funziona”

Di fronte al Summit di Biden, la Cina ha deciso di rispondere con una propria offensiva ideologica. Da un lato ha messo l’accento su tutte le contraddizioni del sistema politico americano che non permettono agli Stati Uniti di presentarsi come modello di democrazia al resto del mondo, dall’altro ha rivendicato il proprio sistema politico come “una democrazia che funziona”. Lo ha fatto con un corposo documento pubblicato dall’Ufficio di Informazioni del Consiglio di Stato.

Si tratta di una cinquantina di pagina nelle quali, oltre ad esporre le modalità di funzionamento del sistema politico cinese, si affermano alcuni concetti di fondo. Il primo è quello di una relativizzazione dell’idea di “democrazia”. Il meccanismo “occidentale”, che prevede come elemento fondamentale della democrazia la presenza di un sistema multipartitico competitivo, non viene considerato come l’unico possibile.  Il conflitto tra partiti viene invece ritenuto come divisivo della società mentre l’obbiettivo di un sistema democratico dovrebbe essere innanzitutto quello di creare consenso e unità, in una sola parola “armonia”. Quella che viene chiamata come “democrazia popolare” o “dittatura democratica del popolo” viene vantata come un sistema che consente di tenere conto di tutte le domande e gli interessi dei vari gruppi sociali. In particolare le si attribuisce il merito di aver gestito un colossale processo di industrializzazione senza troppi conflitti sociali.

Questo rimanda il secondo aspetto che, secondo la leadership cinese, consentirebbe di considerare il modello cinese come superiore a quello occidentale, ovvero l’efficacia. Un sistema politico è “democratico” se soddisfa le esigenze di benessere dei suoi cittadini e da questo punto di vista la Cina è riuscita ad “eliminare la povertà estrema” e a creare “una società moderatamente prospera”, che potrà ulteriormente migliorare nei prossimi decenni.

Il “libro bianco” descrive poi tutta una serie di meccanismi che garantirebbero la consultazione e la partecipazione dei cittadini alle scelte amministrative. Secondo indagini citate ma non meglio specificate “oltre il 90%” dei cinesi sarebbero soddisfatti di come vanno le cose. Non viene escluso il miglioramento e il perfezionamento progressivo di questo sistema istituzionale ma lasciando intatto il principio fondamentale, il ruolo di direzione del Partito Comunista Cinese.

I criteri che il documento propone per valutare se un paese sia più meno democratico (la successione ordinata dei leaders, se tutto il popolo possa partecipare a gestire gli affari dello Stato e sociali, una conduzione razionale e democratica dei processi decisionali, ecc.) potrebbero essere largamente condivisi ma la loro applicazione pratica nel caso cinese porta ad un sistema dai tratti paternalistico-autoritari. La leadership cinese ha sicuramente fatto i conti con il crollo dell’Urss e del blocco socialista puntando su due correzioni sostanziali. La prima è evidentemente quella di soddisfare le esigenze di miglioramento delle condizioni economiche dei propri cittadini, garantendo una progressiva estensione del ceto medio, la seconda l’attivazione di meccanismi tali da garantire un certo possibilità di manifestare il malcontento almeno a livello locale e nei confronti di scelte di gestione amministrativa al fine di evitare che questo si accumuli e si manifesti poi in forma esplosiva. La Cina non propone il suo come modello ad altri Paesi, come avvenuto in una certa fase della direzione maoista, ma lo afferma con maggiore vigore di un tempo come una soluzione “di successo”.

Bergoglio e l’allarme per l’arretramento della democrazia

La terza voce, influente, che si è posta il tema dello stato della democrazia in queste settimane, è stata quella di Papa Bergoglio che vi ha dedicato il suo discorso ad Atene. Da quella sede il Papa ha lanciato l’allarme sull’”arretramento della democrazia” che si registra oggi in Europa e non solo. Al suo posto vengono avanzando “autoritarismo” e “populismo” che offrono facili rassicurazioni. Questo avverrebbe in società “preoccupate dalla sicurezza e anestetizzate dal consumismo”, da cui nascerebbe una sorta di “scetticismo democratico”. Questo scetticismo è alimentato anche dalla distanza delle istituzioni, dal timore della perdita delle identità, dalla burocrazia.

A questa crisi si deve rispondere, secondo il Papa, con la “buona politica”, laddove la politica è intesa come “arte del bene comune” e questo richiede da parte dei cittadini di passare dal “parteggiare al partecipare” e l’attenzione va rivolta principalmente “alle fasce più deboli”. Bergoglio per mettere in guardia dalle eccessive polarizzazioni cita una frase di De Gasperi pronunciata nel 1949 secondo il quale: “Si parla molto di chi va a sinistra o a destra, ma il decisivo è andare avanti e andare avanti vuol dire andare verso la giustizia sociale”. Si trattava in verità del De Gasperi del dopo 18 aprile ’48, quindi di colui che aveva guidato un’esasperata polarizzazione del conflitto politico e dal governo condurrà una politica di forte contrapposizione sociale, negli anni dello scelbismo e della repressione poliziesca contro operai e contadini. Fu interprete della ripresa del comando capitalistico sui luoghi di lavoro e più in generale nella società, quindi l’esempio non pare dei più felici.

Ma nel discorso di Bergoglio ci sono comunque alcuni punti che vanno presi seriamente in considerazione. Siamo in presenza di un arretramento della democrazia in Europa e non solo? Sembra indubitabile ma non si tratta di una crisi generica quanto più precisamente della crisi del modello di democrazia capitalistica nella fase liberista che si è affermato tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Questa crisi non nasce dalla presenza di modelli autoritari esterni al “mondo libero” come vorrebbe Biden, ma nasce dalle contraddizioni interne al modello di democrazia capitalistica dominante negli ultimi trent’anni.

Per risolvere questa crisi occorre innanzitutto “ridurre la polarizzazione” come propone il Papa? O non è necessario invece tornare alla polarizzazione legata al conflitto sociale (che come tale può avere un esito progressivo) cacciando la polarizzazione di tipo etnico-identitario (che come tale tende ad essere regressiva)? La democrazia è stata innanzitutto corrosa dal radicalizzarsi delle differenze sociali e dall’accumularsi della ricchezza nelle mani di un’oligarchia economico-finanziaria che ha alterato i meccanismi democratici per sottrarsi a qualsiasi forma di controllo. Andare verso la giustizia sociale come diceva (ma non faceva) De Gasperi? Sembra proprio questa la strada maestra: non ci può essere democrazia che non sia solidamente basata sulla giustizia. Quindi si conferma che la democrazia può essere solo “positiva” (cioè orientata ad un fine) ed espansiva e non solo un insieme di procedure formali, pur necessarie, ovvero è tale se contribuisce a costruire le basi sociali della propria sussistenza.

 

Franco Ferrari

democrazia
Articolo precedente
Prefetti e caporali nella Capitanata
Articolo successivo
L’ambientalismo senza giustizia sociale è giardinaggio

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.