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Prefetti e caporali nella Capitanata

di Stefano
Galieni

Ora che il dibattito pubblico è incentrato quasi esclusivamente sulle misure da prendere verso la pandemia, sul terrore e l’indignazione verso chi esercita il diritto di sciopero, su scenari di guerra platealmente raccontati per definire uno schieramento geopolitico militarizzato, sotto banco si prova ad affrontare alcune questioni che i governi passati e presenti non hanno ancora voluto toccare. L’Italia della “ripresa” ha bisogno di lavoratrici e lavoratori, in numerosi comparti che, per diverse ragioni (demografiche, bassi salari, precarietà estreme, assenza di formazione) possono arrivare da altri paesi. In realtà di uomini e donne immigrati che, a causa di leggi fallimentari e inefficaci come la Bossi Fini (2002) sono nel Paese senza avere documenti che ne attestino la regolarità della presenza o di persone giunte dopo ma che ancora non hanno avuto l’opportunità di regolarizzarsi, ce ne sono numerosi. Persone che lavorano, al nero e sottopagate, la cui emersione garantirebbe non solo salari migliori ma un enorme gettito fiscale alle casse dell’Inps. A parole il precedente governo ci ha provato, ma in maniera insufficiente, maldestra, e per taluni aspetti fallimentare. La regolarizzazione promossa nel giugno 2020 dall’ex ministra Bellanova ha coinvolto solo 207.000 persone per due grandi comparti a cui andava lanciato un segnale, ma che rappresentano una parte minimale del mondo del lavoro. Persone impegnate in agricoltura e nei servizi alle famiglie, col risultato che il 13% delle domande presentate abbiano riguardato braccianti e l’87% collaboratori e soprattutto collaboratrici familiari. Non basta: dai dati di fine di ottobre scorso (ottenuti attraverso una serie di accessi agli atti rivolti al ministero dell’Interno e consultabili, insieme al dossier di approfondimento, sul sito della campagna “Ero Straniero”), emerge che poco più di un terzo delle pratiche è stato finalizzato finora da parte delle prefetture e sono solo 38mila circa i permessi di soggiorno rilasciati dalle questure a procedimento ultimato. Ancora critica la situazione in alcune grandi città: a Milano, delle 25.900 domande ricevute, sono in via di rilascio solo 2.551 permessi di soggiorno. A Roma su 17.371 domande, sono 1.242. In legge di bilancio sono stati presentati alcuni emendamenti per “salvare la regolarizzazione”. Il primo prevede l’autorizzazione a stanziare le risorse necessarie a prorogare almeno per il 2022 i contratti degli interinali già assunti nelle prefetture, consentendo così di definire le pratiche e tamponare il perenne sotto organico di tali uffici. Il secondo garantisce la prosecuzione dei procedimenti in corso consentendo alle persone in attesa, di superare gli ostacoli burocratici emersi a causa del protrarsi dei tempi dell’esame delle domande e ottenere il permesso di soggiorno. Vi sarebbe poi un terzo, più strutturale con cui si propone di mettere fine al sistema illogico delle sanatorie, introducendo un percorso sempre accessibile per uscire dall’irregolarità e rientrare nell’economia legale, e che produrrebbe entrate, nuove e stabili, per lo Stato.

Ma si tratta di poca cosa che, anche se ottenuta, non risolverebbe neanche gli errori compiuti dalla ministra e dal governo. Intanto perché i tempi di elaborazione e smaltimento delle pratiche potrebbero protrarsi per anni – i permessi di lavoro concessi valevano per sei mesi – poi perché le tante complicazioni e i vincoli frapposti per ogni singola pratica espongono tanto i lavoratori quanto gli stessi datori di lavoro, alle discrezionalità di prefetture e questure. In molti casi le domande sono ferme perché si chiede a chi lavora il certificato di idoneità alloggiativa – non previsto nella norma – che favorisce il proliferare della compravendita illegale di tali certificazioni. Sono poi già state rilevate alcune migliaia di truffe vere e proprie, realizzate in Caf fasulli o attraverso mediatori di dubbia credibilità, questo perché i percorsi di regolarizzazione hanno sempre avuto il difetto di considerare chi lavora, unicamente in quanto oggetto e non soggetto, in quanto si è sempre agito in funzione del connubio fra ricerca di consenso e utilità economica. Guai a parlare di persone in carne ed ossa, con proprie volontà e capacità decisionali.

Ma in questo quadro di meccanismi intoccabili da almeno venti anni accadono poi “incidenti di percorso” che impongono di rivedere le condizioni di partenza. Alcuni gli elementi critici: intanto il caro, vecchio, rassicurante mercato, preme anche contro i reiterati cori xenofobi che, a forza di ripetere parole come “invasione”, “sostituzione etnica”, “islamizzazione della cattolica Italia”, rischiano di sembrare dischi rotti e noiosi. Già dal gennaio prossimo è previsto un “decreto flussi”, il meccanismo con cui si permette l’ingresso, da alcuni Paesi con cui si è stretto un legame di cooperazione, anche per i rimpatri di persone non gradite, che sembra improntato ad un realismo imprevedibile in passato. Dai 30 mila ingressi previsti sembra – il condizionale è d’obbligo – si dovrebbe passare ad almeno 90 mila, quasi un ritorno al passato. Ed è grottesco come questo avvenga non volendo affrontare il tema nascosto come polvere sotto un tappeto, delle centinaia di migliaia di persone, già in Italia da anni e che vorrebbero regolarizzarsi. Al Cnel è stato presentato oggi, davanti al ministro Orlando, un progetto che permetterebbe, se approvato, un più facile – apparentemente – percorso di emersione dall’irregolarità. In cambio della denuncia di violazioni contrattuali o di assunzioni al nero, magari con forme di caporalato – il termine tornerà alla fine – sarà possibile, se il testo venisse approvato, garantire sostegno, alloggio, permessi di soggiorno, trattamento economico temporaneo, prospettive di ricerca lavoro, eccetera, non solo al denunciante e ai parenti fino al secondo grado ma anche alle colleghe e ai colleghi di lavoro. Facile che il testo si impantanerà, difficile immaginare un cambiamento così repentino nella mentalità che sembra essersi instaurata non solo nella classe dirigente del Paese, ma questo resta un segnale interessante da cogliere. Un segnale dettato da necessità, in un Paese che non può permettersi il lusso di rinunciare a manodopera che non ha, il cinismo delle logiche di mercato è paradossalmente ma solo temporaneamente alleato, di percorsi di riscatto, perennemente subalterni al profitto. Una condizione grottesca di cui i veri “liberali”, non chi ne ha usurpato il ruolo, si sono resi conto da anni e che vale per l’intero continente europeo. Un continente “anziano”, in cui l’età media precipita sempre più in basso (in Italia si stanno superando i 47 anni di età media), col tasso di natalità bassissimo e una molteplicità di attività produttive che gli autoctoni non sono più in condizione di coprire per intero. Ma non solo, il Paese – le proprie classi dirigenti – hanno bisogno di nuovi consumatori e l’emersione di qualche centinaia di migliaia di persone ne trarrebbe sollievo. Tutto questo sta facendo esplodere una vera e propria contraddizione che il governo tenta di risolvere con provvedimenti poco visibili ma di cui in tante e tanti in fondo hanno bisogno. Ma poi capita l’incidente di percorso, di quelli che come un granello di polvere, mettono in discussione un meccanismo ancora più grande. La signora Rosalba Livrerio Bisceglia, secondo le intercettazioni e le indagini, della procura di Foggia, era fra le persone che permettevano di stipare nei furgoni braccianti africani, assunti con il caporalato per condizioni di lavoro a dir poco massacranti. Se andava bene erano 5 euro all’ora sotto il sole, se andava male il pagamento era a cassone di pomodori e alla fine della giornata era grasso che cola se nelle tasche di chi era sfruttato restavano 25 euro. C’è un’indagine in corso con arresti, misure di fermo domiciliare, obbligo di firma quindi non si è ancora a processo e il garantismo viene prima di ogni altra cosa. Il problema è che la signora in questione è anche la moglie del Prefetto Michele Di Bari, fino a pochi giorni fa Capo del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del Viminale. Ovvero l’uomo che tutto poteva tenere sotto controllo in materia di presenza di migranti. Il prefetto ha avuto una carriera interessante. Come solito per la carica, ha girato per varie prefetture, da ultimo Reggio Calabria dove si è distinto non certo per il contrasto e la repressione della criminalità organizzata quanto per aver individuato in Mimmo Lucano, per 3 legislature sindaco di Riace, il simbolo dell’accoglienza e della convivenza, come il nemico dello Stato. Si è impegnato tanto Di Bari contro Lucano, dall’autorizzazione a manifestazioni di Forza Nuova nel piccolo borgo sulla costa jonica al sostegno al lavoro persecutorio della procura di Locri, sempre con lo stesso obiettivo. A risultato ottenuto il Prefetto ha ottenuto la promozione che forse auspicava, è venuto a Roma divenendo di fatto il numero 2 del ministero dell’Interno. Il suo ruolo di fatti, potente nel mandato, lo ha tranquillamente messo al riparo dai cambi di governo, al punto che anche la ministra Lamorgese, ha considerato giusto preservarlo in tale delicato incarico. Il prefetto si è ovviamente e subito dimesso dall’incarico – dimissioni accettate in tempo immediato – anche perché, comunque siano andate le cose, la sua consorte aveva probabilmente accesso a informazioni riservate, comprese le misure di controllo e di contrasto al caporalato. Sarebbe forse il caso che anche il signor Di Bari venga ascoltato dalla procura pugliese e sarebbe ancora di più il caso che per tali ruoli vengano scelte persone valide non per fedeltà politica ma per lealtà verso lo Stato. Ci permettiamo di dubitare che il prefetto abbia tali caratteristiche – sono tante le testimonianze secondo cui avrebbe più volte espresso in materia, pareri poco adeguati – ma qui non si tratta di politically correct. Si tratta del fatto che a gestire gli affari correnti del “governo dei Migliori” ci sono persone come il signor Di Bari, funzionari cresciuti nella logica dell’obbedienza all’ordine costituito e che in tali contesti aumentano pervicacemente il proprio potere individuale. Spaventano persone di questo tipo, sono loro che impediscono, concretamente, che il paese faccia un vero salto in avanti nella costruzione di una completa convivenza civile. Se non da soli almeno quanto i loro referenti politici, che possono cambiare lasciandoli immutabilmente al loro posto, fino a quando, lo strapotere dell’impunità, non li porta a commettere errori.

 

Stefano Galieni

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