In questa nota cerco di riassumere e tradurre dall’economichese all’italiano un discorso (Unconventional fiscal and monetary policy at the zero lower bound) tenuto il 26 febbraio 2021 da Isabel Schnabel. L’intervento è politicamente rilevante, perché lei non è solo una docente di economia finanziaria all’Università di Bonn e un membro del Consiglio Tedesco degli Esperti Economici. È anche un membro del Comitato Esecutivo della BCE, dove supervisiona il programma di quantitative easing.
L’esperta esordisce richiamando l’attenzione su uno dei “maggiori rompicapo” dell’economia europea: la coesistenza di saggi d’interesse e tassi d’inflazione persistentemente bassi. I saggi d’interesse sono molto bassi, persino negativi (e promettono di rimanere tali ancora a lungo),come conseguenza di politiche monetarie fortemente espansive. La BCE, già a partire dalla gestione Draghi, ha inondato i mercati finanziari di liquidità. L’intento era di alleggerire gli oneri del servizio dei debiti pubblici e nello stesso tempo di stimolare investimenti e domanda aggregata in modo da riportare il tasso d’inflazione intorno al 2% (che sembra quello necessario per oliare bene l’ingranaggio dell’aumento dei profitti). Negli anni che hanno preceduto la crisi COVID, il PIL cresceva abbastanza da far diminuire leggermente il tasso di disoccupazione. Secondo la famigerata curva di Phillips, l’espansione monetaria avrebbe dovuto mettere in moto il seguente meccanismo: alta domanda aggregata → alti prezzi → alti profitti → alta domanda di lavoro → alti salari. Sennonché l’inflazione si ostina a rimanere bassa. Come mai? Ed ecco la grande scoperta: “la curva di Phillips è piatta”, che è un modo elegante di dire che proprio non esiste!
Allora qual è la causa della bassa inflazione? Sembra siano in gioco fattori strutturali di lungo periodo: “certi cambiamenti demografici, l’impatto della globalizzazione e della digitalizzazione sui prezzi, sui profitti e sul potere contrattuale dei lavoratori, oltre che cambiamenti epocali nel consumo e nella produzione di energia”. La Schnabel non dice di più, ma si può capire cosa ha in mente. La digitalizzazione ha ridotto i costi di transazione e fatto aumentare la concorrenza tra imprese. La globalizzazione ha a sua volta alimentato la concorrenza da parte di economie a basso costo del lavoro. L’immigrazione ha moderato la crescita salariale. La paura di perdere il posto di lavoro per fallimento o delocalizzazione delle imprese ha ridotto il potere contrattuale dei lavoratori. La bassa crescita della domanda di energia ha rallentato la crescita dei prezzi. Tutto ciò non suona strano a un keynesiano che sa che l’inflazione è un fenomeno spinto dai costi e non trainato dalla domanda.
La Schnabel non è una volgare monetarista, anzi sembra essere una sincera keynesiana, sia pur con tutta l’ingenuità della neofita. E come tale si pone la domanda sovversiva: Che fare? Le ricette che suggerisce sono interessanti. Inizia con l’approvazione dei programmi lanciati dalla BCE per fronteggiare la crisi COVD: il Pandemic Emergency Purchase Programme(PEPP); e una nuova serie di Targeted Longer-Term Refinancing Operations(TLTRO III). Sono politiche monetarie espansive che devono essere continuate. Ma non bastano perché, “anche se i tassi d’interesse reali potessero essere abbassati, gli effetti sullo sviluppo e l’inflazione sarebbero limitati, visto che la domanda aggregata diventa meno sensibile ai cambiamenti dei saggi d’interesse quando questi sono bassi o quando sono stati bassi per lungo tempo”. Evviva! Abbiamo riscoperto la trappola della liquidità! I tassi d’interesse sono molto bassi perché è inutile portare il cavallo a bere se il cavallo non vuole bere. È inutile inondare i mercati finanziari di liquidità con il PEPP e le TLTRO III se le imprese non domandano liquidità perché non fanno investimenti. E il rischio è che il costo di un’ulteriore espansione monetaria superi i benefici, cioè che l’inondazione di liquidità vada ad alimentare i mercati finanziari più che quelli reali (traduzione: la speculazione più che gli investimenti produttivi) accentuando l’instabilità sistemica. Si paventa una prossima crisi finanziaria, magari del debito pubblico?
Saggiamente, comunque, la Schnabel non critica le politiche monetarie espansive. Dice solo che non sono sufficienti per stabilizzare l’economia. E sostiene che devono essere accompagnate da politiche strutturali e fiscali inflattive! Su quelle strutturali non dice un granché, a parte il fatto che gli investimenti pubblici devono essere indirizzati soprattutto verso l’istruzione e le infrastrutture. Ma le cose che dice sulle quelle fiscali sono degne d’interesse. Il bilancio pubblico primario è stato positivo e crescente nell’eurozona prima del 2014 e di conseguenza gli investimenti pubblici sono andati diminuendo invece che aumentando. Questo non è più accettabile, anche perché “gli investimenti pubblici tendono a crowding in quelli privati invece che a crowding out.” Non vi agitate: è più semplice di quanto sembri, ed è una nuova scoperta dell’acqua calda. I monetaristi criticavano le politiche fiscali keynesiane perché sostenevano che, espandendo gli investimenti pubblici, fanno aumentare i tassi d’interesse (per collocare un debito crescente), quindi alzano il costo del finanziamento degli investimenti privati causando il loro spiazzamento (crowding out). In altri termini, gli investimenti che il governo fa in più, i privati li farebbero in meno. I keynesiani rispondevano che gli investimenti pubblici fanno aumentare la domanda aggregata e quindi trainano al rialzo gli investimenti privati (crowding in), i quali tra l’altro sono in generale piuttosto insensibili alle riduzioni del saggio d’interesse, e lo sono ancor più nella trappola della liquidità. Cosicché, come mostra “l’evidenza empirica, la politica fiscale è particolarmente efficace ai livelli minimi dei tassi d’interesse.”
Ma c’è il problema dei debiti pubblici. Siccome nell’Unione Economica e Monetaria le decisioni di indebitamento sono decentralizzate, cioè non esistono un rilevante bilancio pubblico e un rilevante debito pubblico federali, l’alto indebitamento espone i governi a forti rischi di crisi causate da aspettative auto-realizzanti degli speculatori. Perciò la politica fiscale si muove tra la Scilla della difficoltà a stabilizzare il ciclo economico e la Cariddi della insostenibilità del debito, il che limita la capacità dei governi di impegnarsi in politiche fiscali espansive. E si crea un circolo vizioso di questo tipo: elevato rapporto Debito/PIL → politiche fiscali restrittive → bassa crescita del PIL → aumento del rapporto Debito/PIL.
Per uscirne sono state necessarie due azioni politiche. Una è di tipo monetario, ed è il lancio del PEPP, la cui funzione di paracadute ha impedito alla private cross-border risk-sharing (traduzione: la speculazione internazionale) di scatenare una crisi del debito. L’altra è di tipo fiscale, ed è il Recovery and Resilience Facility (un fondo per prestiti e contributi ai governi nazionali volti a finanziare riforme e investimenti), che ha sostanzialmente lo scopo di dividere il rischio e ridurre la pressione sui governi. L’insieme di questi due provvedimenti contribuisce a far considerare non rischiosi i titoli di stato.
Tuttavia i due provvedimenti sono stati giustificati con la pandemia e quindi sono temporanei, mentre la trappola della liquidità potrebbe perdurare a lungo. Perciò è necessario che la logica della politica monetaria si converta decisamente in modo da fornire un sostegno politico duraturo, cosa che deve fare impegnandosi credibilmente a fornire tutto il supporto finanziario necessario alla ripresa economica e per tutto il tempo necessario. In pratica deve fornire liquidità per sostenere le politiche fiscali espansive, oltre che per contrastare gli effetti destabilizzanti della speculazione finanziaria.
La politica monetaria espansiva deve essere accompagnata da politiche fiscali “non convenzionali” (che vuol dire “spese pubbliche in deficit”) attivate quando l’economia entra in una depressione profonda. Un esempio di tali politiche è fornito dallo schema di sussidi alla disoccupazione adottato negli USA, dove la durata dei sussidi aumenta automaticamente quando aumenta il tasso di disoccupazione. Altri esempi sono forniti dai job furlough schemes (cassa integrazione, congedi parzialmente retribuiti) adottati in diversi paesi dell’UE in risposta alla pandemia. Inoltre è stata dimostrata l’efficacia espansiva delle politiche di redistribuzione del carico fiscale sul lavoro. Il suggerimento è esposto in modo piuttosto ellittico, ma sembra di capire che si tratti di usare il fisco per redistribuire il reddito a favore delle categorie sociali più povere e con più alta propensione al consumo.
Come regola generale di politica anti-ciclica viene proposta la seguente: creare spazio fiscale (cioè ridurre il deficit pubblico) in tempi di prosperità e usarlo in tempi di crisi. Non è una proposta particolarmente audace, non avendo come obiettivo il raggiungimento di una stabile piena occupazione, ma è pur sempre qualcosa; e non si può pretendere troppo da un’esponente della BCE. Comunque, la Schnabel dichiara di essere d’accordo con l’European Fiscal Board, che nel 2019 ha raccomandato l’adozione di una regola di spesa fissa con ancoraggio a un target di debito. Tradotto, vuol dire due cose interessanti. La prima è che la spesa pubblica deve crescere in modo stabile, e non essere condizionata dalla ciclicità delle entrate fiscali, così da svolgere una funzione anti-ciclica. La seconda cosa interessante riguarda il debito pubblico. Udite udite: l’obbligo di ridurre il debito in eccesso rispetto alla soglia del 60% rischia di creare quel circolo vizioso di cui sopra, spingendo la politica fiscale alla contrazione proprio quando deve essere espansiva!
Ma non ci entusiasmiamo troppo. Cosa propone in alternativa? Un annullamento parziale dei debiti pubblici, ad esempio autorizzando le Banche Centrali dei vari paesi a non riscuotere alla scadenza i titoli di stato acquistati con il quantitative easing? Dio ci guardi a liberi! Allora cosa? Be’, niente meno che questo: correggere gli aggiustamenti fiscali (necessari per il raggiungimento di quella soglia) con la deviazione dell’inflazione dal target. In pratica, quando l’inflazione è molto bassa si può ridurre l’entità dei tagli al bilancio pubblico. Alla fine la montagna ha partorito il topolino!
In conclusione direi che questo discorso rivela un fatto interessante: che la pandemia ha avuto almeno un piccolo effetto positivo. Un numero crescente di euroburocrati sta pian piano capendo una cosa che la Schnabel ha già capito molto bene e cioè che “l’austerità non paga in tempi di sviluppo debole” – l’aforisma del secolo. Speriamo che le sue proposte vengano accettate dalle istituzioni e vadano a formare la nuova ortodossia politica dell’eurocrazia. È vero che per ora sono piuttosto timide. Ma cerchiamo di essere ottimisti.
A tale proposito vorrei chiudere con una considerazione personale che esula dalla traduzione delle tesi della Schnabel. È molto probabile che tra un anno le economie di tutto il mondo saranno in forte ripresa, semplicemente come rimbalzo post-COVID. È anche possibile che l’inflazione rialzi la testa in Europa, per via delle strozzature dell’offerta causate dalla pandemia. Inoltre si scoprirà che i rapporti Debito/PIL saranno aumentati smisuratamente! E quindi che saranno aumentati i rischi di una crisi del debito. Che faranno a quel punto gli euroburocrati? Avranno il coraggio di proseguire sulla strada timidamente indicata dalla Schnabel? O ricominceranno a proporre le politiche “convenzionali”? A voler essere pessimisti, ci si potrebbe domandare: non è che una volta passata la crisi covid ci sarà la restaurazione?