di Gino Sperandio – Al di là delle affermazioni puramente ideologiche che fa Salvini sull’”ambientalismo da salotto”, che dimostra tutta la pericolosità di un approccio che nega come la questione dell’alluvione sia innanzitutto tema di cultura ambientale credo sia un errore non sfruttare l’occasione per tentare di proporre una visione “di sinistra” che dal particolare arriva al generale.
Io mi soffermo su 3 questioni che possono sembrare “locali” ma pongono questioni generali.
LA QUESTIONE DEMOGRAFICA
I grandi disastri ambientali che hanno colpito il Veneto negli ultimi 70 anni hanno causato enormi mutamenti dell’occupazione antropica della nostra Regione con il progressivo abbandono di intere zone geografiche e il loro invecchiamento.
Infatti, l’alluvione del 1951 ha provocato l’esodo dal Polesine, immediatamente di almeno il 20% della popolazione della provincia di Rovigo e un declino demografico che, negli anni, ha portato alla riduzione della popolazione della provincia di quasi il 50% della popolazione, ferita che ancora oggi non si è rimarginata.
Così, l’alluvione del 1966 ha accelerato il processo di abbandono della città lagunare ed in particolare del centro storico del comune di Venezia, come della montagna bellunese.
Ora l’odierna alluvione rischia di significare per le terre alte della provincia di Belluno la definitiva botta che porterà all’abbandono della presenza antropica in interi comuni.
LA QUESTIONE DEL TERRITORIO
L’alluvione odierna per la sua dimensione ha colpito radicalmente non solo l’assetto idrogeologico della provincia di Belluno, ma in alcune parti ne ha modificato profondamente il paesaggio; l’abbattimento di migliaia di ettari di versanti di boschi ha cambiato e messo in crisi biotopi di boschi che caratterizzavano le nostre zone montane, la storica fragilità del sistema viario è stata ulteriormente messa in crisi soprattutto nelle zone alte della provincia. A ciò si accompagna anche i danni che hanno subito il servizio idrico e fognario.
IL MODELLO PRODUTTIVO
Il modello produttivo nato sostanzialmente dopo il disastro del Vajont, e con le leggi di finanziamento ad esso collegate, che aveva portato all’industrializzazione della provincia di Belluno aveva si accelerato i processi demografici in atto incrementando lo spostamento della popolazione nelle parti basse della provincia, ma ne aveva anche ottenuto lo spalmamento non solo nella Valbelluna grazie alla crescita del distretto dell’occhiale nel Cadore e la nascita della LUXOTTICA ad Agordo, introducendo una presenza manifatturiera significativa in aree montane che altrimenti sarebbero state travolte già allora.
Dall’inizio del nuovo secolo, in realtà il distretto cadorino dell’occhiale è entrato in crisi, tutte le maggiori industrie si sono spostate a sud (da Longarone in giù) l’unica azienda che ha mantenuto una presenza significativa nella media montagna è stata la LUXOTTICA con gli stabilimenti di Agordo e Cencenighe, in alternativa non c’è stato uno significativo sviluppo del settore del turismo o dell’agricoltura.
In realtà la dimensione del disastro ambientale che è avvenuto pone questioni che vanno oltre al nostro microcosmo, è del tutto evidente che eventi atmosferici di questa intensità e diffusione (ha coinvolto l’intera montagna del Triveneto) sono il sintomo di un cambiamento climatico globale che ormai è davvero miope negare o banalizzare. Su questo tema la riproposizione di un modello produttivo nuovo e alternativo è improrogabile, come la consapevolezza del limite dello sviluppo e del consumo delle risorse naturali che non sono infinite.
Credo però che noi, nel nostro piccolo, dobbiamo avere la consapevolezza che le nostre proposte debbano essere coerenti con il quadro generale sopra accennato.
Per questo sono convinto che la sfida lanciata da Zaia con la suggestione di un “piano Marshall” per la montagna veneta vada accolta ma appunto tenendo ferme alcuni punti e proposte.
Innanzitutto, credo vada rilanciata la categoria della montagna come Bene Comune, bene che nella sua complessità è patrimonio dell’umanità e non solo delle donne e degli uomini che la abitano.
La montagna non (solo) come ambiente selvaggio, (santuario della storia geologica della Terra) ma come ambiente storicamente antropizzato da almeno 1000 anni.
La montagna se abbandonata dagli esseri umani non muore, ritrova con i suoi tempi, che non sono quelli umani, i suoi equilibri, diventa semplicemente inabitabile per gli esseri umani; una cosa è la montagna, altra è la montagna antropizzata, per cui credo che occorra innanzitutto chiarire, che anche in sede di tutela oggi noi parliamo di una “montagna umanizzata” e non solo della “montagna naturale”.
In questa mia riflessione parlo della “montagna umana”, ritenendo che sia indispensabile la difesa della montagna come punto essenziale della difesa della abitabilità del pianeta da aprte gegli esseri umani.. Ciò mi pare un punto culturalmente essenziale, poiché la vita nel pianeta continuerà anche senza la specie umana. Mentre non è possibile il contrario! Vale a dire che la qualità della vita degli umani, il loro benessere, dipende in prima istanza dal buon funzionamento degli ecosistemi.
Alla devastazione di un così ampio territorio antropizzato non si può rispondere con il programma “dove prima, come prima”, anzi. Bisognerebbe migliorare le capacità di resilienza dei sistemi naturali, incrementare la loro capacità adattiva, rigenerativa, evolutiva.
Occorre prendere atto che il connubio tra abbandono della agricoltura, della pastorizia e la monocoltura nei rimboscamenti ha radicalmente mutato equilibri ambientali consolidatisi nei secoli e ha reso di fatto più fragile il sistema boschivo storico. Posso sbagliare, ma ho la netta impressione che i boschi di soli abeti o pini sono risultati i primi ad essere stati abbattuti, mentre quelli misti o di latifoglie hanno dimostrato una maggiore tenuta di fronte alla devastazione del vento e dell’acqua.
Pertanto, stante l’assoluta antieconomicità del modello economico che aveva portato a quel equilibrio, ora occorre ridefinire un progetto economico che renda agibili i comportamenti virtuosi, quali la gestione dei boschi, dei pascoli e la regolamentazione delle acque, che erano il presupposto di una attività agricola di mera sopravvivenza. Una agroecologia e silvoecologia della montagna capaci di generare redditi sono possibili. Nelle università di Agraria (vedi Udine) vi sarebbero le competenze necessarie. Così come esistono sperimentazioni di successo. Pensiamo ad alcune oculate gestioni dei “demani collettivi” in Friuli o in Trentino. Il loro modello di gestione (studiato dal premio nobel per l’economia Elinor Ostrom) è stato riconosciuto dalla legge del novembre del 2017 sui Demani collettivi e sugli Usi civici. Quella forma di governace di autogoverno andrebbe estesa.
Quelle pratiche possono essere riproposte solo se sostenute con un intervento pubblico; non è facile pensare ad una agricoltura di montagna competitiva economicamente.
Parimenti, le conoscenze che pure si sono sviluppate sulla biodiversità devono essere la guida per i processi di riforestazione.
Queste opere necessitano inevitabilmente di un forte finanziamento pubblico tale da consentire di rispondere all’abbandono con interventi volti al presidio ambientale e alla ricostruzione della biodiversità in un ambiente antropico montano, politiche di supporto anche alla residenzialità delle zone alte. Teniamo presente che sotto questo profilo la nostra provincia, ed in particolare le zone alte hanno un patrimonio abitativo enorme della cui sorte occorre farci carico.
La butto lì, magari passando magari per razzista, ma una diffusione di un modello Riace, per il recupero delle frazioni abbandonate è così folle? Tutt’altro. L’allora ministro Barca aveva cominciato ad elaborare un programma per le “aree marginali” montane e collinari che si è perso tra le nebbie.
Il primo punto da affrontare è trovare gli strumenti economici e programmatici per ribaltare andamenti demografici ormai consolidati da decenni.
Se non si è in grado di fare ciò si pensi allora all’altra montagna, accettando che la presenza umana si abbassi e diradi, non c’è nulla di male purché sia una scelta consapevole.
Insomma, credo che su questo occorra, prima che passi l’attenzione data dall’emergenza, che le persone della montagna non lascino ad altri la gestione del proprio futuro, ma che dicano la loro sul futuro di queste zone.