“Fanno il deserto e lo chiamano pace” scriveva Vik, all’anagrafe Vittorio Arrigoni, storico attivista della causa palestinese e dell’autodeterminazione dei popoli, a cui dava voce con la sua ‘Guerrilla Radio’.
In questa fase di turbocapitalismo neoliberista la desertificazione non viene solo dalla crisi climatica dovuta all’ipersfruttamento di risorse esauribili, ma dai conflitti, possibilmente a bassa tensione o in scenari regionali, spesso di carattere asimmetrico, su cui si riversano però risorse e truppe anche regolari di paesi terzi, come nel caso dello Yemen o della Siria, si trascinano in guerre campali.
In molti casi le tensioni interne vengono all’occorrenza sostenute da stati o soggetti esterni, con l’intento di una destabilizzazione generalizzata dello scenario, fino a determinare il collasso o il fallimento della struttura statale pre-esistente.
Queste e altre dinamiche sono al centro delle ricerche dell’Atlante delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo, un progetto nato nel 2008 dall’Associazione 46° Parallelo in modo ‘articolato ed aperto’, che ha il suo fulcro nella pubblicazione del dossier annuale sui conflitti in corso, come strumento portante per la comprensione, di affiancamento quindi alle organizzazioni impegnate nella cooperazione internazionale.
La scelta di localizzare a Trento la sede dell’associazione non è casuale, anzi viene definita ‘una scelta intrigante’ nella presentazione del portale web, trattandosi di una “terra di passaggio e infiltrazione di culture e diversità”, ben rappresentativa quindi di chi ha messo la geografia e le culture al centro delle analisi e delle valutazioni dei racconti.
Con il tempo poi l’impegno è cresciuto e, oltre a strutturarsi in pubblicazioni tematiche, fotoreportage e persino un’emittente ‘Radio Memoriae’, sono proliferate le collaborazioni con Tavola della Pace, Centro di Documentazione dei Conflitti Ambientali, Amnesty International, Arci, Università di Firenze, Medici Senza Frontiere e UNHCR.
Fra gli ultimi lavori consultabili viene riportato anche il Terzo Forum delle Città e dei Territori di Pace, svoltosi di recente a Città del Messico, con oltre venti fra istituzioni ed organizzazioni provenienti da tutti i continenti, riunite in un processo di riflessione ed incidenza globale sulle origini della violenza. Fra queste gli aspetti più indagati sono risultati quelli legati alla violenza di genere, collegata alla distribuzione ineguale del potere e alle relazioni asimmetriche in contesti patriarcali; oltre alle diseguaglianze nelle città, dove si concentra il 50% della popolazione mondiale, che risente della mercificazione di diritti essenziali, come acqua, sanità, istruzione, casa, trasfromatisi sempre più spesso in servizi privati.
Per l’occasione l’Atlante delle Guerre ha partecipato con un proprio contributo sulle principali sfide che i processi migratori generano sui territori, riguardo alle tensioni tra popolazioni o gruppi stanziali, per la promozione dell’inclusione delle persone in movimento nei territori ospitanti, attraverso le esperienze esemplari di Riace e di ResQ.
La stessa Europa, che cerca spesso di legittimare la propria Unione come un progetto di pacificazione del ‘vecchio continente’, oltre alla passività nella mediazione dei conflitti balcanici, esplosi dopo la dissoluzione dell’ex-Yugoslavia, registra ora conflitti crescenti ai propri confini, a cominciare da quello in Ucraina.
Sul fronte orientale infatti le perduranti tensioni nei rapporti diplomatici con Mosca, specialmente per interessi commerciali e di approvvigionamento delle materie prime hanno spesso determinato contrasti evidenti nelle sanzioni o nella riduzione di forniture per la ‘guerra del gas’.
Nelle scorse settimane oltre 120mila soldati sono stati dislocati da Kiev a ridosso della regione russofona del Donbass, che dal 2014 ha unilateralmente dichiarato la propria indipendenza.
La Russia infatti continua a percepire come una minaccia l’estensione dell’Alleanza Atlantica ai paesi dell’Europa centro-orientale, come si apprende anche dalla posizione di Putin in vista del suo colloquio con il Presidente USA, Biden, nel quale si richiedono garanzie a lungo termine, che escludano il dispiegamento di sistemi d’arma a ridosso dei propri confini.
Altro preoccupante teatro di scontro nell’ultimo anno è stato il Nagorno-Karabakh, con il conflitto apparentemente sopito fra Armenia ed Azerbaijan.
In vista della Giornata Mondiale dei Diritti Umani è la pubblicazione dell’annuario 2021 del SIPRI, l’istituto svedese per le ricerche sul controllo degli armamenti, che fotografa una situazione in continuo deterioramento, affatto arginata dalla diffusione della pandemia da Covid-19.
Nonostante la crisi sanitaria e le priorità mondiali su questo fronte, la spesa militare globale ed il numero di conflitti armati hanno continuato il loro incremento, secondo il rapporto.
Rispetto all’anno precedente si sono infatti aggiunti cinque nuovi scenari ai 19, dove si registravano scontri militari aperti: 2 nelle Americhe, 7 in Asia e Oceania, 3 in Europa, 7 in Medio Oriente e Nord Africa e 20 in Africa. Fra questi, due vengono classificati come ‘gravi’ – ovvero Afghanistan e Yemen, con entità di vittime superiori alle 10mila unità – e ben sedici ‘ad altà intensità’.
È soprattutto l’Africa subsahariana ad essere squassata da conflitti esasperanti, soprattutto nella regione del Corno d’Africa, dove le contese tribali o delle materie prime sfociano in guerre, come quelle in Etiopia, Sudan; senza risparmiare poi altri stati dell’area, come il Congo, il Niger, il Mali o il Burkina-Faso, dove le successioni al potere continuano a perpetrarsi spesso per mano di golpe militari.
Per quanto riguarda invece la la spesa militare mondiale il SIPRI stima nel suo dossier il raggiungimento di una quota pari ai 1.981 miliardi di dollari, del 2,6% maggiore rispetto al 2019 e del 9,3% rispetto al 2011. L’onere militare globale – la spesa militare globale come quota del prodotto interno lordo globale – è cresciuta ulteriormente di 0,2 punti percentuali, raggiungendo il 2,4%, l’aumento più consistente dalla crisi finanziaria ed economica del 2009.
La spesa militare è aumentata in almeno quattro delle cinque regioni globali: del 5,1% in Africa, 4,0% in Europa, 3,9% nelle Americhe e 2,5% in Asia e Oceania; mentre per il sesto anno consecutivo non sono reperibili dati per la stima della spesa militare totale in Medio Oriente.
Se da un lato soltanto pochi paesi abbastanza ‘marginali’ nei conflitti mondiali, come Angola, Brasile, Cile, Kuwait e Corea del Sud hanno ridotto o deviato le spese militari per poter affrontare la pandemia; dall’altro i maggiori attori globali o regionali, come USA, Cina, India e Russia sono ai vertici delle classifiche per incremento degli stanziamenti bellici, con Washington in testa a fronte di circa 778mld. dollari, seguita da Pechino con 252mld nel 2020, poi Nuova Dehli con 72mld ed infine Mosca con oltre 65mld. Al quinto posto si affaccia invece un paese europeo come il Regno Unito, che ha incrementato la spesa militare del 2,9% in più rispetto al 2019.
L’auspicio illusorio che la pandemia avrebbe in qualche modo messo il genere umano di fronte ad una crisi epocale, spingendolo così a rivedere quelle derive di auto-distruzione sempre più eclatanti, non sembra essersi affatto avverato. Al contrario, la polarizzazione delle diseguaglianze, le criticità dovute alla crisi sanitaria, la carenza di materie prime e l’incapacità del multilateralismo del ventesimo secolo sembrano rispolverare quell’arsenale predatorio e conflittuale tanto vasto ed articolato.
Info:
https://www.atlanteguerre.it/usa-russia-il-gelo-della-nuova-guerra-fredda/