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Ascesa e declino dell’ordine neoliberale. Verso un nuovo ordine post-neoliberale?

di Alessandro
Scassellati

Lo storico Gary Gerstle offre il resoconto più completo di come il neoliberismo sia arrivato a dominare la politica americana per quasi mezzo secolo prima di scontrarsi con le forze del Trumpismo a destra e con un nuovo progressismo di ispirazione socialista (Bernie Sanders) a sinistra. Il passaggio epocale verso il neoliberismo, una rete di politiche correlate che, in termini generali, hanno ridotto l’impatto dello Stato e del governo sulla società e riassegnato il potere economico alle forze del mercato privato, iniziato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna alla fine degli anni ’70, ha cambiato radicalmente il mondo. Oggi, la parola “neoliberale” è spesso usata per condannare un’ampia gamma di politiche, dal privilegiare i princìpi del libero mercato rispetto alle persone all’avanzamento di programmi di privatizzazione in tutti i paesi del mondo. Di sicuro, il neoliberalismo ha contribuito a una serie di tendenze allarmanti, non ultima delle quali è stata una crescita massiccia della disuguaglianza dei redditi. Tuttavia, come sostiene Gerstle, queste accuse non riescono a tenere conto dei contorni completi di ciò che era il neoliberalismo e del perché la sua visione del mondo abbia avuto una presa così persuasiva sia sulla destra che sulla sinistra per tre decenni. Come dimostra, l’ordine neoliberale emerso in America negli anni ’70 fondeva idee di deregulation con libertà personali, frontiere aperte con cosmopolitismo e globalizzazione con la promessa di una maggiore prosperità per tutti. Oltre a tracciare come questa visione del mondo sia emersa in America e sia cresciuta fino a dominare il mondo, Gerstle esplora la misura in cui il suo trionfo è stato facilitato dal crollo dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati comunisti, prima non riconosciuta. È anche il primo a tracciare la storia della caduta dell’ordine neoliberista, originata dalla fallita ricostruzione dell’Iraq e dalla Grande recessione degli anni di Bush e culminata nell’ascesa di Trump e di una rivitalizzata sinistra americana guidata da Bernie Sanders negli anni 2010.

Nel 1989, Gary Gerstle e il suo co-editore Steve Fraser pubblicarono “The Rise and Fall of the New Deal Order, 1930-1980” (Princeton University Press, Princeton , NJ 1989), una raccolta che rimane di inestimabile valore per gli studiosi del New Deal e della politica statunitense di metà del ventesimo secolo. Con le macerie dell’ordine del New Deal intorno a loro, Gerstle e Fraser, e i loro collaboratori, ne hanno tracciato l’ascesa e la caduta dagli anni di Roosevelt a quelli di Reagan. Un ordine gradualmente dissoltosi tra le contestazioni dei movimenti per i diritti civili1 e giovanili degli anni ’60, la disastrosa gestione della guerra in Vietnam, la “stagflazione” degli anni ’702 e la perdita di competitività del sistema produttivo industriale statunitense (proprio come la Grande Depressione aveva contribuito a realizzarlo). Ora, in piedi sulle rovine di un altro ordine politico, successore del primo – quello neoliberale -, Gerstle che è professore di storia americana all’Università di Cambridge e editorialista del Guardian, si è messo a spiegare la sua ascesa, il suo trionfo e il suo crollo con un libro capolavoro: “Ascesa e declino dell’ordine neoliberale. L’America e il mondo nell’era del libero mercato”, Neri Pozza Editore, Vicenza 2024 (2022). In 320 pagine (con 66 di note), scritte con sicurezza e fluidità, combinando sviluppi politici, economici, sociali e culturali, Grestle ha scritto una storia narrativa vivace e perspicace. Si tratta di un libro che è inestimabile per studiosi e lettori in generale che cercano di dare un senso a ciò che è accaduto agli Stati Uniti e al mondo negli ultimi 100 anni ed in particolare dopo gli anni ’70.

Con “ordine politico”, Gerstle intende un progetto che richiede avanzamenti su un ampio fronte: “una complessione di ideologie, policy ed elettorati che plasmano la politica americana secondo modalità che trascendono oltre i cicli elettorali di due, quattro e sei anni” (pag. 7). Secondo Gerstle, nel secolo scorso negli Stati Uniti sono esistiti due ordini politici di questo tipo: l’ordine del New Deal che iniziò con Franklin Delano Roosevelt3, alla cui ascesa e declino Gerstle dedica due capitoli iniziali (pp. 25-80), e l’ordine neoliberale che iniziò con Ronald Reagan. Ancora una volta, Gerstle scrive in un momento in cui sembra probabile, ma non certo, che l’ordine politico che sta studiando si stia definitivamente decomponendo.

Gerstle sottolinea come questi due ordini politici sono correlati, in un modo quasi idealmente sincronizzato, con l’ascesa e la caduta del comunismo. Questo non è certo un caso4. Il contesto esterno (internazionale) ha svolto un ruolo importante nella progettazione di entrambi gli ordini politici degli Stati Uniti5.

“Neoliberalismo” resta un termine contestato. Per Gerstle, è un’ideologia “fondata sulla convinzione che le forze di mercato dovessero essere liberate dai controlli normativi dello Stato che ostacolavano la crescita, l’innovazione e la libertà” (pag. 8)6. Gerstle sottolinea, a differenza di altri studiosi, i suoi legami con il liberalismo classico del Settecento-Ottocento, sostenendo che il prefisso “neo” intendeva distinguerlo dal liberalismo moderno, interventista, filogovernativo (e financo di ispirazione socialdemocratica) di Franklin D. Roosevelt e Lyndon B. Johnson. Franklin D. Roosevelt aveva fatto del liberalismo “il contrassegno della sua politica del New Deal e una proprietà esclusiva del Partito Democratico” (pag. 93), che era, dice Gerstle, una “tra le grandi rapine terminologiche della storia” (pag. 117). I neoliberisti cercarono di riconnettersi con un’eredità del liberalismo classico che consideravano di loro diritto7.

Gerstle nota che nella variante americana del neoliberalismo c’erano “tre strategie di riforma – o aggregati di iniziative politiche – ben distinte” (pag. 99). La prima cercava di “introdurre il libero mercato nella normativa sulla proprietà, sullo scambio e sulla circolazione del denaro e del credito”. Forti interventi pubblici nella vita economica, a livello sia nazionale che internazionale, erano considerati necessari. La seconda cercava di applicare i “princìpi di mercato” a tutte le sfere dell’attività umana, riformulando ogni attività “in termini economicisti di input e output, investimenti e rendimenti”. La terza era un approccio “utopico”, interessato principalmente al “brivido” di liberare i mercati dalla mano mortale della regolamentazione e alla “avventura di liberarsi dei vincoli alla propria personalità e al proprio lavoro” (pag. 99). Le prime due strategie enfatizzavano “ordine, controllo, l’estensione dei princìpi del mercato ad altri ambiti, tecnocrazia e manipolazione”, mentre la terza prometteva di ringiovanire la “promessa di libertà personale” del liberalismo classico (pag. 104).

Diversi attori nella narrazione di Gerstle (politici, teorici, attivisti) competono per realizzare la loro versione preferita dell’ordine neoliberale. Fu la terza strategia, con la sua enfasi sui mercati e sugli individui liberati, ad avere il maggior fascino per i politici repubblicani, Barry Goldwater (candidato del GOP nel 1964) e Ronald Reagan (presidente dal 1980 al 1988) che portarono il neoliberismo nel mainstream8 Ma furono proprio le contraddizioni del neoliberalismo, suggerisce Gerstle, il suo “carattere proteiforme”, a dargli una tale “influenza straordinaria, capace di muoversi a tutto campo e di riunire sotto lo stesso tetto una pluralità di attori [politici e culturali] assai diversi” (pag. 117).

C’era anche, dice Gerstle, un ordine morale nel neoliberismo che consentiva ai suoi sostenitori di conciliarlo con il loro disagio per il libero mercato sfrenato. Per i repubblicani, era un “codice morale neo-vittoriano” (pag. 146) che enfatizzava il tradizionalismo socio-culturale conservatore, il patriarcato e le gerarchie razziali (ossia contro l’estensione dei diritti civili delle minoranze, delle donne e dei gruppi LGBTQ+), alimentando le “guerre culturali”. Celebrava “l’autosufficienza, la solidità della famiglia [eterosessuale patriarcale] e una condotta disciplinata in fatto di lavoro, sessualità e consumo” (pag. 19). I suoi sostenitori (soprattutto l’ex Speaker della Camera Newt Gingrich) sostenevano che tale codice era necessario per proteggere l’America “mainstream” (cioè bianca, di retaggio europeo) dalle conseguenze deleterie dei mercati liberati, “droga, alcol, debiti e disgregazione familiare” (pag. 146). Al contrario, gli americani di colore (afrodiscendenti e latinos) che soffrivano di quei mali sociali venivano liquidati come una “sottoclasse” alla deriva e irrecuperabile e dovevano essere rimossi dalla società attraverso l’incarcerazione di massa (ottenuta attraverso un inasprimento delle pene e della recidiva, la “guerra alla droga” e l’applicazione della “teoria delle finestre rotte”) per proteggere il corretto funzionamento del mercato. Per i democratici (soprattutto per Bill Clinton), l’ordine morale era “cosmopolitismo, un modo di vivere che celebrava solidi scambi non solo di beni ma di culture attraverso varie divisioni razziali, etniche, religiose e nazionali” (pag. 200). “Vedeva nella libertà di mercato un’opportunità per modellare un sé o un’identità che fossero liberi dalla tradizione, dai retaggi e ruoli sociali predeterminati. … era profondamente egualitario e pluralistico. Rifiutava l’idea che la famiglia patriarcale eterosessuale fosse celebrata come la norma. Sposava la globalizzazione, la libera circolazione delle persone e i legami transnazionali resi possibili dall’ordine neoliberale. Apprezzava i benefici che sarebbero scaturiti dall’incontro tra popoli diversi, dalla condivisione delle loro culture e dallo sviluppo di modi di vivere nuovi e spesso ibridati. Celebrava gli scambi culturali e il dinamismo che sempre più caratterizzavano le città globali – tra cui Londra, Parigi, New York, Hong Kong, San Francisco, Toronto, Miami – sviluppatesi sotto l’egida dell’ordine neoliberale” (pag. 20). Il fatto che il neoliberalismo potesse conciliarsi con visioni morali così contrastanti, secondo Gerstle, nonostante le continue “guerre culturali” tra neo-vittoriani e cosmopoliti (che comunque erano ampiamente d’accordo sui princìpi dell’economia politica), ha contribuito a trasformarlo in una forza ideologica egemonica (questa dimensione ambigua e multiforme del neoliberalismo statunitense era stata già identificata da Michel Foucault nelle conferenze tenute alla Sorbona nel 1978/79).

Gerstle si sforza di evitare di usare nella sua narrazione le etichette tradizionali, come “liberale” o “conservatore”, comuni in altre storie politiche. Per Gerstle, il neoliberalismo trascende quelle categorie. Ronald Reagan, Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama sono tutti emersi come costruttori e promotori dell’ordine neoliberale, sebbene con vari gradi di impegno ideologico ed entusiasmo. Ma Gerstle mostra come il neoliberalismo sia stato creato anche dal basso, e sia a sinistra che a destra. Gli attivisti per i diritti dei consumatori guidati dal progressista Ralph Nader negli anni ’70 furono efficaci quanto qualsiasi altro gruppo conservatore antistatalista nel minare la fiducia del pubblico in un governo che, a loro dire, era fin troppo indulgente con gli interessi delle grandi aziende.

Facendo eco al suo collaboratore di lunga data Steve Fraser, Gerstle nota che, come l’ordine del New Deal, le parti costitutive dell’ordine neoliberale “- i finanziatori capitalisti, gli intellettuali, think tank, i politici, i media e le reti personali che li collegavano tra loro – erano tutte visibili già negli anni Settanta”, molto prima di arrivare al potere” (pag. 128). Gerstle cita la familiare storia delle origini del neoliberalismo, la scuola Vienna-Chicago, i Colloqui di Parigi di Walter Lippmann (1938) e la Mont Pèlerin Society (1947), con ruoli importanti per economisti come Friedrich Hayek, Ludwig von Mises e Milton Friedman. Tuttavia, attribuisce anche al neoliberalismo radici specificamente americane, collegandolo alla solitaria opposizione post-presidenziale di Herbert Hoover al New Deal, alle aspirazioni democratiche radicali degli attivisti della New Left9, ai romanzi libertari di Ayn Rand e agli imprenditori tecnologici che si riversarono nella Silicon Valley della California negli anni ’70 e ’8010. Così come a personaggi come William Simon, George Gilder, Thomas Sowell, Charles Murray, Rush Limbaugh e Patrick Buchanan. Think tank come Heritage Institution fondata nel 1973, Cato Institute (1974), Manhattan Institute (1977). La Moral Majority creata dal predicatore evangelista Jerry Falwell nel 1979 per promuovere gli autentici valori cristiani nella politica americana e per aiutare Reagan nella corsa alla Casa Bianca.

Per Gerstle, Ronald Reagan era l'”architetto ideologico” (pag. 7) dell’ordine neoliberale. Un ammiratore (e elettore per quattro volte) di Franklin D. Roosevelt, Reagan cercò di “creare un ordine politico che potesse rivaleggiare con il New Deal in termini di potere, fascino e durata” (pp. 128-129). Dal suo indebolimento del regime fiscale ad elevata progressività al suo assalto al movimento operaio ai suoi (in gran parte infruttuosi) sforzi per ridurre la portata del governo federale, Reagan si imbarcò in un attacco completo all’eredità del New Deal. Eppure, egli riconciliò anche, brevemente, le contraddizioni all’interno del movimento conservatore. “Il maggiore successo politico di Reagan”, scrive Gerstle, “fu conciliare una politica incentrata sul ripristino della supremazia bianca e della devozione religiosa con un orientamento neoliberale pro-mercato che enfatizzava la libertà personale e l’antagonismo nei confronti dello Stato del New Deal” (pag. 132). Nonostante le sue fratture interne, Reagan canalizzò le energie del movimento conservatore da lui guidato in un’antipatia verso il governo dominato dai liberali.

La narrazione di Gerstle considera la fine della Guerra Fredda come il momento critico che ha trasformato il neoliberalismo da movimento politico a ordine politico. La disintegrazione improvvisa dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta ha rimosso “l’ultima alternativa universale al capitalismo e alla democrazia liberale” (pag. 162) e ha aperto il mondo intero alla penetrazione capitalista. Ha anche liberato le aziende americane dall’incentivo a scendere a compromessi con i lavoratori. Il capitalismo ora non aveva più sfidanti ideologici significativi. C’erano sempre nuovi mercati e nuovi lavoratori all’estero.

Il test definitivo di un ordine, per Gerstle, è “la capacità del partito ideologicamente dominante di piegare alla propria volontà il partito di opposizione” (pag. 8). Dal 1952 al 1960, fu la riluttanza del presidente repubblicano Dwight Eisenhower (al contrario, ad esempio, di William Taft) a far arretrare lo Stato federale che ora guidava a confermare il trionfo dell’ordine del New Deal (difese i diritti del lavoro, la sicurezza sociale e un’imposta sul reddito progressiva che superava il 90%). Per Gerstle, Bill Clinton, il leader degli “Atari Democrats”, è stato “il facilitatore chiave’ (pag. 7), che dal 1994 in poi divenne “l’Eisenhower democratico, il presidente degli Stati Uniti neoliberale per eccellenza” (pag. 172), colui che stabilì l’acquiescenza del suo partito all’ordine neoliberale11. Fu negli anni di Clinton che l’ordine neoliberista sarebbe stato al suo apice egemonico, quando ormai la sua ideologia era diventata senso comune ineludibile. Secondo Gerstle, Clinton ha fatto più dello stesso Reagan per facilitare i princìpi dell’ordine neoliberale: l’impegno per la deregolamentazione, la celebrazione della globalizzazione e l’idea che dovrebbero esserci mercati liberi ovunque (“ampliare le opportunità, non lo Stato”). La promessa (non realizzata) era che “tutte le barche sarebbero salite”. I democratici progressisti che cercavano un percorso alternativo, come il segretario del lavoro Robert Reich (amico e sodale di Clinton dagli anni dell’università) e Joseph Stiglitz, furono emarginati. I repubblicani risentiti e frustrati, che si aspettavano di godere delle ricompense politiche di parte dello smembramento dell’URSS, dovettero guardare mentre Clinton si prendeva il merito di una serie di riforme neoliberiste negli anni ’90.

Da un regime di disciplina fiscale e di pareggio di bilancio e dall’emanazione di un austero pacchetto di riforme del welfare, alla firma di un North American Free Trade Agreement (NAFTA) che cercava di creare un mercato che abbracciasse un continente, scrive Gerstle, “la misura in cui l’amministrazione Clinton avrebbe adottato i princìpi neoliberali dal 1994 in poi è piuttosto sbalorditiva” (pag. 172)12. Ma molte delle riforme neoliberali promulgate dall’amministrazione Clinton avrebbero poi contribuito ad accelerarne l’implosione. La deregolamentazione del settore finanziario degli anni Novanta e la diluizione della riforma bancaria totemica dell’era del New Deal, il Glass-Steagall Act (abolito nel 1999), avrebbero portato a una crisi finanziaria nel 2007-2008 che avrebbe contribuito a distruggere la credibilità di quei principi neoliberali. Il Telecommunications Act del 1996 ha sostanzialmente autorizzato la rivoluzione di Internet e del cyberspazio a essere libera da qualsiasi seria regolamentazione pubblica (e quindi completamente in mano ad un oligopolio di mega corporations). Ha promulgato una deregolamentazione radicale di compagnie telefoniche, compagnie via cavo, compagnie satellitari, reti televisive, studi cinematografici e fornitori di dati che alla fine avrebbe portato all’account Twitter (ora X) di Donald Trump e al suo diretto e multi-frontale assalto al neoliberalismo13. In una parziale reprimenda al neoliberismo reaganiano, Clinton ha anche dimostrato “quanto un ordine neoliberale fosse compatibile con una repubblica multiculturale dai tanti colori, religioni e credenze” (pag. 200).

Il trionfo del neoliberismo, tuttavia, durò poco. La crisi arrivò con il ritorno di un repubblicano alla Casa Bianca nei primi anni del 2000. Nonostante l’impegno sfacciato di George W. Bush nei confronti dei princìpi neoliberali, furono le politiche da lui perseguite, a livello nazionale e internazionale, ad accelerarne la fine. L’invasione e la ricostruzione dell’Iraq dopo il 2003 furono intraprese seguendo impeccabilmente linee neoliberali e con risultati catastrofici. In patria, Bush perseguì politiche per creare un “paese di proprietari di case” (vale a dire una società di proprietari di case con conti pensionistici e sanitari privati ancorati all’andamento di Wall Street) che portò alla crisi dei mutui subprime del 2007-2008 con lo sgonfiamento della bolla immobiliare alimentata da anni di politiche di denaro facile14.

La crisi del neoliberalismo portò Barack Obama alla Casa Bianca, ma lui si dimostrò “prima di tutto, prigioniero della crisi finanziaria e dei suoi effetti” (pag. 243). Nonostante le speranze riposte in Obama, egli non è stato in grado di liberarsi dalle costrizioni del neoliberalismo, tornando alle “modalità di gestione economica del Partito Democratico tipiche degli anni Novanta” (pag. 245)15. Il risultato sono state reazioni negative a sinistra e a destra. A destra c’era il Tea Party, uno spasmo di rabbia bianca contro il primo presidente nero e il regime neoliberale che non era riuscito a distruggere. Ciò avrebbe alimentato l’ascesa di Donald Trump, la cui politica etno-nazionalista protezionista “sfidava l’impegno del neoliberalismo per la libera circolazione delle merci e delle persone attraverso i confini nazionali, la sua esaltazione della diversità dei popoli e la sua fiducia nella saggezza delle élite globalizzate altamente istruite e colte” (pag. 270). A sinistra, campagne dal basso come Occupy Wall Street e Black Lives Matter hanno reagito alle speranze deluse dell’amministrazione Obama sulla riforma finanziaria e sulla giustizia razziale. Questi impulsi alla fine si sarebbero fusi nelle campagne presidenziali del socialista democratico Bernie Sanders nel 2016 e nel 2020.

La deindustrializzazione e marginalizzazione economica delle aree industriali/occupazionali della “industrial belt” del Nord e Midwest degli Stati Uniti (trasformatasi in “rust belt”), una delle “core costituency” della coalizione politica del New Deal, ha generato una immensa sofferenza delle classi lavoratrici (in gran parte trasformate in “precariato”) che ha portato alla formazione di una “sottoclasse bianca” e ad una ribellione e rabbia contro le élite al potere. Scrive Gerstle, che “gli anni Dieci stavano diventando sempre più simili agli anni Trenta e Settanta del Novecento, i periodi precedenti in cui il declino di un ordine politico preponderante aveva consentito a idee a lungo relegate alla periferia della politica americana di entrare nel dibattito pubblico” (pag. 304). Tra loro, e nonostante le loro numerose differenze, suggerisce Gerstle, Trump e Sanders sono state le punte di un movimento a tenaglia che potrebbe aver finalmente distrutto l’ordine neoliberista.

L’ultimo capitolo che include sia la presidenza di Trump che quella di Biden è forse il più debole. Gerstle riconosce che Joe Biden ha colto subito la portata del cambiamento in atto (con la pandemia del 2020 che aveva inflitto il colpo di grazia all’ordine neoliberale), il che lo ha portato a rompere con l’ortodossia neoliberale in modi in cui i suoi due predecessori democratici non hanno mai fatto. Ha cercato di ripensare quale potesse essere un’adeguata relazione tra lo Stato e i mercati, con lo Stato che deve tornare ad indicare la direzione da percorrere. Nella primavera del 2020, Biden ha accettato di istituire sei task force congiunte con il campo di Sanders per portare il centro e la sinistra del Partito Democratico in un dialogo fruttuoso. I piani risultanti per l’economia, la crisi climatica, la giustizia razziale e simili hanno informato le proposte legislative che Biden ha iniziato a svelare subito dopo l’insediamento nel gennaio 2021. C’è stata molta costernazione a sinistra per come queste varie proposte siano state tagliate a pezzi dal Congresso. Tuttavia, le politiche emergenti erano comunque significative: un piano di salvataggio da 2 trilioni di dollari, una legge infrastrutturale da 1 trilione di dollari, una legge per riportare la produzione di chip per computer e una legge sull’energia verde da 400 miliardi di dollari. Quest’ultima legge, l’Inflation Reduction Act, è il più grande investimento in un futuro senza emissioni di carbonio che il governo degli Stati Uniti abbia mai fatto. La sua importanza è stata stranamente sottovalutata all’interno del paese, ma in Europa la notizia della legislazione è esplosa con la forza di una bomba. È stata percepita come un punto di svolta e l’Unione Europea si sta affannando per adattare le proprie politiche climatiche alla luce di questa misura.

Su Trump, Gerstle ripropone molto di quello che già sappiamo. Forse il libro è stato scritto troppo presto. Trump e, cosa più importante, la silenziosa preparazione ideologica per qualcosa di nuovo (J.D. Vance, Steve Bannon e tante altre figure del movimento MAGA ormai diventate un “contro-establishment” pronto a combattere contro il “Deep State” e lo Stato amministrativo delle agenzie federali cresciuto con il New Deal), e i difetti e le contraddizioni evidenti dell’ordine neoliberale hanno preparato la sua fine nelle mani di un presidente transazionista, che pensa che il mercato non è un ordine naturale e che possa essere usato/manipolato (ad esempio, imponendo dei dazi) per aumentare la ricchezza degli Stati Uniti. Cosa sarà il nuovo ordine, però, non è ancora chiaro, né lo stesso Gerstle azzarda previsioni. Emergerà dal secondo mandato di Trump come 47mo presidente degli Stati Uniti?16. La seconda presidenza Trump si presenta come una miscela di populismo MAGA e pragmatismo aziendale. Sebbene le promesse di rilanciare l’economia americana possano attrarre molti lavoratori, le prime mosse suggeriscono un panorama in cui i diritti sindacali e le politiche di inclusione rischiano di essere messi in secondo piano a favore degli interessi delle grandi imprese, soprattutto quelle dei settori tecnologici e finanziari. Da una parte, si parla di un presidente che promette di riformare il sistema economico per rafforzare la classe lavoratrice; dall’altra, le prime mosse della sua amministrazione e le figure chiave coinvolte (molti i miliardari) fanno presagire un approccio favorevole alle aziende, spesso a scapito dei diritti dei lavoratori. Trump si presenta come un populista vicino alle esigenze della classe lavoratrice. Il suo programma politico include misure come il sostegno alla manifattura americana, la riduzione delle tasse sui salari dei lavoratori del settore ospitalità e l’eliminazione di regolamentazioni considerate eccessive. Tuttavia, dietro questa retorica si cela un possibile favoreggiamento degli interessi aziendali, alimentato da figure influenti come Elon Musk, uno dei maggiori sostenitori del presidente17.

Siamo in piena transizione: anche se il neoliberalismo potrebbe non essere finito, di certo non è più l’ideologia indiscussa del nostro tempo. Secondo Gerstle, ciò non significa che le idee neoliberali spariranno. Dopotutto, la previdenza sociale è ancora in circolazione, ma l’ordine del New Deal no. Ci saranno elementi di pensiero neoliberale che continueranno a caratterizzare la vita statunitense per un lungo periodo. Ma l’ordine neoliberale non ha più la capacità di costringere all’acquiescenza, di costringere il sostegno, di definire i parametri della politica. Anche il tecno-utopismo di Musk non è più in grado di nascondere la verità: gravi squilibri strutturali nell’economia globale minacciano non solo di far crollare i sistemi economici, ma di lacerare il tessuto sociale degli Stati Uniti come di tanti altri paesi (soprattutto europei).

Da un lato, si apre la prospettiva di un “fascismo della libertà” o di “una “democrazia illiberale” o di una “democrazia autoritaria”o di una “democrazia oligarchica” (di cui parla Emanuel Todd) o di un “fascioliberismo” (di cui parla Luigi Ferajoli) che promette di coniugare individualismo (“ciascuno è imprenditore di sé stesso”) e potere sovrano nella cornice di una società nazionale semplificata, conformista e culturalmente omogenea, riempito di contenuti radicalmente antidemocratici (rispetto al modello di democrazia liberale) veicolati attraverso una retorica propagandistica della libertà dalle influenze straniere, dalle censure della correttezza politica, dagli obblighi di solidarietà, dal diritto internazionale, dalle regole e dagli impedimenti che graverebbero su individui e imprese. Dall’altro lato, non dobbiamo presumere che il capitale trionferà, ma dobbiamo anche renderci conto che questo è un momento in cui chi ha idee diverse – ecosocialiste, ad esempio – per riorganizzare l’economia, per riorganizzare la politica, per ricostruire un più equilibrato rapporto tra uomo/società e natura, deve farsi avanti e lottare per ciò in cui crede. Mentre i partiti populisti etno-nazionalisti guadagnano terreno in Occidente, i progressisti devono anteporre le priorità sociali e climatiche agli interessi del mercato.

La narrazione di Gerstle si ferma di tanto in tanto mentre l’autore considera i percorsi non intrapresi. L’ordine neoliberale sarebbe stato così sicuro se un “Gorbachev alternativo” avesse perseguito politiche più repressive e preservato l’Unione Sovietica? L’ordine neoliberale sarebbe imploso in modo così spettacolare se un’amministrazione Gore (invece che Bush Jr.) fosse stata in carica nei primi anni del ventunesimo secolo, perseguendo la moderazione fiscale e rinunciando all’avventurismo militare? Tali momenti servono a sottolineare le contingenze dell’ascesa del neoliberalismo. Niente di tutto ciò era inevitabile.

Alessandro Scassellati

  1. Uno dei punti deboli dell’ordine del New Deal da Roosevelt a Kennedy era l’esclusione del governo federale dall’intromettersi nelle questioni della giustizia/uguaglianza razziale perché la maggioranza New Deal al Congresso si reggeva grazie ai voti dei “baroni” democratici suprematisti bianchi degli Stati del Sud (fautori della segregazione razziale delle leggi Jim Crow). Un equilibrio politico che salta con il movimento dei diritti civili e con il programma di riforme della “Great Society” del presidente Lyndon Johnson che porta rilevanti segmenti dell’elettorato bianco del Sud a spostarsi verso il partito repubblicano (Goldwater, Nixon, Reagan). Ma il consenso del partito democratico aveva cominciato ad essere eroso a seguito dell’abolizione della segregazione delle forze armate decisa da Truman con un ordine esecutivo nel 1946 e poi con il parere Brown vs Board of Education della Corte Suprema del 1954 che Gerstle ritiene rispondesse alle esigenze geopolitiche della politica estera statunitense tese a rispondere alla campagna di penetrazione dell’Unione Sovietica nei paesi del Terzo Mondo nel pieno della Guerra Fredda (pp. 58-60).[]
  2. Il kit di strumenti keynesiani che aveva fatto così tanto per gestire il capitalismo – per mantenerlo in vita e tenere in considerazione il bene pubblico – non funzionava più. È successo qualcosa che non doveva succedere: la «stagflazione» (l’inflazione non doveva aumentare contemporaneamente all’aumento della disoccupazione; avrebbero dovuto operare in proporzione inversa tra loro). Una crisi che non aveva una soluzione facile ha avvolto il mondo industrializzato. È questo momento di crisi economica che ha permesso a idee neoliberali ben articolate ma marginali di prendere voce.[]
  3. Per Roosevelt e gli altri leader del New Deal, il capitalismo lasciato a se stesso era turbolento, capace di generare una grande crescita, ma anche una grande depressione, non forniva sufficiente sicurezza a tutti coloro che erano coinvolti nel sistema, non faceva abbastanza per ridistribuire i frutti del capitalismo ampiamente tra i cittadini. Il governo di un forte Stato centrale – doveva intervenire nell’economia per assicurare la stabilità del capitalismo e ridistribuire i frutti dell’abbondanza capitalista più equamente, ossia governare il sistema economico nel pubblico interesse.[]
  4. L’argomentazione relativa all’importanza del comunismo per la definizione dei due ordini è fortemente avanzata e ha molto senso. Come scrive Gerstle, negli anni ’50 si è prestata troppa attenzione ai democratici che cercavano di non apparire deboli nei confronti del comunismo, e troppo poca attenzione ai repubblicani che accettavano la maggior parte dell’acquis del New Deal in cambio della sicurezza della proprietà privata. “La minaccia del comunismo internazionale ha reso possibile la trasformazione del New Deal da movimento politico a ordine politico, assicurandone per quarant’anni il predominio nella vita americana” (pag. 54). “Fu la paura del comunismo a rendere possibile il compromesso di classe tra capitale e lavoro che sottoscrisse l’ordine del New Deal. E dopo la Seconda guerra mondiale rese possibili analoghi compromessi di classe in molte socialdemocrazie europee” (pp. 17-18). Rese possibile quel particolare sistema di regolazione dell’accumulazione del capitale che altri analisti hanno definito come il Fordismo (emblematico il Trattato di Detroit, l’accordo contrattuale del 1950 tra UAW e le grandi case automobilistiche – GM, Ford e Chrysler). Con il declino dell’attrattiva del comunismo e poi la sua caduta finale, c’era molto meno bisogno di acconsentire alle richieste dei lavoratori (abbandonando il compromesso tra capitale e lavoro). I lavoratori non avevano un posto dove andare, o sognare di poter andare, o minacciare di andare. Il licenziamento di migliaia di controllori di volo da parte di Reagan fu la salva di apertura della guerra ai lavoratori. La globalizzazione e l’esternalizzazione in Cina (ma anche in Corea del Sud, Taiwan, Messico e Brasile) sono  state la seconda. Piketty ha espresso la stessa idea dimostrando che il “periodo addomesticato” del capitalismo coincideva con l’apice del potere dei partiti comunisti e socialisti e dei sindacati nell’Europa occidentale. Inoltre, la caduta del comunismo e dell’Unione Sovietica, ha avuto altri due effetti. In primo luogo, ha aperto il mondo intero alla penetrazione capitalista in una misura che non esisteva da prima della Prima guerra mondiale. All’improvviso tutti questi mercati in paesi che erano stati off-limits allo sviluppo capitalista entravano nel gioco per l’espansione capitalista. Ciò alimentava un senso di arroganza che l’Occidente aveva vinto: che il capitalismo liberale non aveva rivali seri al mondo, che il suo più grande antagonista era stato sconfitto. Per la sinistra, ha prodotto una crisi nell’analisi marxista, perché lo sforzo più ambizioso per stabilire il socialismo era fallito in modo spettacolare. Non sapendo come riorganizzare l’economia su basi socialiste, la gente iniziò a definire la propria sinistra in termini alternativi e identitari. Gli anni Novanta sono diventati un periodo di ricco sviluppo del pensiero cosmopolita e identitario che ha comunque favorito la legittimità delle idee neoliberiste, che a loro volta avevano una componente cosmopolita.[]
  5. Il libro di Gerstle, tuttavia, è limitato nel mostrare solo l’effetto del resto del mondo sugli Stati Uniti, non il contrario. Ma gli Stati Uniti sono stati un attore chiave nel rendere l’ordine neoliberale globale. Reagan e lo “shock di Volcker” (Paul Volcker fu nominato presidente della Federal Reserve dal presidente democratico Jimmy Carter che aveva anche avviato la deregolazione dei settori delle comunicazioni, delle compagnie aeree, degli autotrasporti e delle ferrovie) esercitarono un’influenza cruciale. Riportarono ordine, metaforicamente e spesso fisicamente, in America Latina, Africa ed Europa orientale. Quando Clinton fece del neoliberismo l’ordine politico ed economico americano, ne rese anche il dominio globale. Questo aspetto è assente dal libro di Gerstle. Anche quando il resto del mondo appare, come molto brevemente con Gorbachev e più ampiamente con il fiasco della guerra in Iraq, è visto solo attraverso il prisma degli Stati Uniti. Questa non è una mancanza del libro perché il libro racconta la storia dell’ideologia e della politica degli Stati Uniti nel secolo scorso, ma avrebbe potuto essere sottolineato più chiaramente nel titolo. Il sottotitolo “L’America e il mondo nell’era del libero mercato” è un po’ fuorviante semplicemente perché non c’è alcun “mondo” nel libro. “L’America nell’era del libero mercato” sarebbe stata una descrizione più accurata del contenuto del libro.[]
  6. La promessa del neoliberalismo era che abbondanza, sviluppo e sicurezza dovevano venire liberando il capitalismo dai vincoli imposti dallo Stato e dal governo, riducendo il governo, lasciando che i mercati guidino le decisioni economiche. L’unico ruolo legittimo dello Stato è quello di assicurarsi che i mercati funzionino il più perfettamente possibile, altrimenti il governo deve farsi da parte.[]
  7. Secondo Gerstle, il neoliberalismo non può essere interpretato soltanto come uno sforzo delle élite per incatenare le masse e minare i loro diritti democratici. Questo è certamente un elemento del neoliberalismo: privilegiare la proprietà, in particolare il capitale, al di sopra di ogni altra considerazione. Ma se si vuole capire la diffusione di queste idee negli Stati Uniti, bisogna anche vedere come le idee neoliberali siano state in grado di attaccarsi alle idee liberali classiche del diciottesimo e dell’inizio del diciannovesimo secolo, idee di libertà ed emancipazione. Quei liberali classici, come Adan Smith, credevano seriamente in un tipo di libertà che pensavano non fosse disponibile. Hanno visto un mondo schiacciato da monarchie, aristocrazie ed élite mercantiliste, con la gente comune che non aveva possibilità. Hanno portato avanti un messaggio di emancipazione (addirittura utopico) e di individualità: rovesciare aristocrazie e monarchie, liberare il talento dell’individuo dai vincoli e consentire alle persone di lavorare sodo ed essere ricompensate per questo. Questa è una concezione della libertà profondamente attraente. Ed è nel profondo del pensiero e della mitologia della vita statunitense, associata alla Rivoluzione americana del 1776, che faceva parte di questo movimento per rovesciare l’aristocrazia e la monarchia (Gerstle cita un brano della Dichiarazione di Indipendenza: “Tutti gli uomini sono creati eguali, … sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, … tra questi vi [sono] la Vita, la Libertà e il Perseguimento della Felicità”, il Bill of Rights del 1791, i diritti individuali enumerati nei primi dieci emendamenti della Costituzione ratificata nel 1789; tutto questo anche se questo ordine politico liberale approvava la schiavitù dei neri e l’esclusione delle donne). Questo sogno del liberalismo classico si è rivelato molto efficace (insieme al mito della frontiera occidentale come luogo di libertà e di rigenerazione) nel liberare le forze del capitalismo negli Stati Uniti e in Europa. Poi, verso la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo cominciarono ad apparire nuove voci, che si autodefinivano socialiste e comuniste, sostenendo che la libertà che offriva il liberalismo classico era contraffatta: era semplicemente permettere al capitalismo di scatenarsi e privilegiare le élite capitaliste. Socialisti e comunisti si sono impegnati a ridefinire la libertà in modi che fossero ancorati al collettivo e alla fratellanza, a beneficio dei lavoratori e delle lavoratrici piuttosto che delle élite, in un orizzonte di emancipazione collettiva, diventando così alcuni dei movimenti più potenti e popolari del ventesimo secolo.[]
  8. Reagan è stato fondamentale nel convincere gli americani che lo Stato era un impedimento non solo per la libertà del capitalismo, ma anche per la libertà dei singoli individui. Il nemico da combattere era la tirannia del governo: “il governo è il problema, non la soluzione”. Le tasse andavano di molto abbassate, riducendo drasticamente la progressività del sistema fiscale sui redditi più alti. Il potere dei sindacati andava drasticamente ridimensionato. Anche il welfare andava riformato per togliere i sussidi a coloro che considerava i “poveri immeritevoli” (in gran parte neri e latinos) e costringerli a diventare “più responsabili” attraverso il training e la disciplina del lavoro.[]
  9. Negli anni Sessanta, l’oppressione della gente comune era vista non solo come opera delle élite capitaliste, ma anche come opera del governo. Gli Stati erano diventati troppo forti e potenti, come nell’Unione Sovietica. Al centro dell’ideologia della New Left c’era l’idea che «il sistema» – un’alleanza di grandi aziende private e regolatori statali – stesse privando le persone della loro libertà (la loro espressività e felicità poteva essere espressa solo attraverso il consumo di merci necessarie per sostenere la domanda aggregata). Agli occhi di molti della New Left, anche le agenzie del New Deal create per regolare il capitale erano state catturate da interessi privati. Non regolavano più il petrolio o l’acciaio o altri settori produttivi ed economici nell’interesse pubblico; i regolatori stavano servendo gli interessi delle società e gli interessi del capitale. Quindi ciò che è emerso come parte della New Left è stato un antistatalismo e una difesa dell’individuo e della sua coscienza su tutte le grandi strutture burocratiche, pubbliche e private (“big government, big labor, big corporate business”), che potrebbero limitare indebitamente (attraverso la “massificazione”, il conformismo e la manipolazione dei pubblicitari di Madison Avenue) la sua libertà, autonomia, autenticità, spontaneità, immaginazione, intraprendenza e spirito creativo. Con il Free Speech Movement di Berkeley (Mario Savio) nel 1964, prese così avvio un processo di “individualizzazione della società” che ha messo in discussione la visione newdealista di una società di persone e grandi strutture che lavorano insieme in solidarietà per produrre crescita economica con una relativa equa distribuzione della ricchezza e della diffusione del welfare.[]
  10. Uno dei modi concreti in cui l’incontro tra il pensiero critico della New Left e il pensiero neoliberale si è manifestato, secondo Gerstle è stato nella rivoluzione informatica (esemplificata dalla contrapposizione tra il personal computer e il big mainframe IBM). Era il sogno di Apple, Steve Jobs e Stewart Brand – che era un hippie e scrisse una delle bibbie dell’hippie-dom, il Whole Earth Catalog – per liberare l’individuo da tutte le strutture di oppressione. È così che la New Left ha iniziato a contribuire allo sviluppo e al trionfo finale del pensiero neoliberista.[]
  11. D’altra parte, Margaret Thatcher viene citata per aver affermato che il suo più grande successo è stato che le sue politiche sono state continuate dal laburista Tony Blair.[]
  12. La presidenza di Clinton occupa quasi 50 pagine del libro. Mostra Clinton che conclude abilmente che un ritorno alle politiche del New Deal è impossibile, sposando e approfondendo il neoliberalismo. Gerstle discute le decisioni estremamente importanti di Clinton in merito alla deregolamentazione dell’industria dell’informazione e della comunicazione e del settore bancario, entrambe correlate alla famosa strategia di “triangolazione” di Clinton: la consapevolezza che lui (e i democratici) non possono governare senza il supporto della Silicon Valley (siamo nel pieno della rivoluzione informatica e del tecno-utopismo che la circondava e rappresentava il motore della “new economy”) e di Wall Street. Clinton ha ottenuto entrambi questi poteri dalla sua parte dando loro ciò che volevano e (come scrive Gerstle) deregolamentando molto più di Reagan. Inoltre, ha ridotto lo Stato sociale e pareggiato il bilancio. La disuguaglianza ha continuato a salire, ma meno che sotto Reagan.[]
  13. Gli Stati Uniti hanno una ricca tradizione di regolamentazione pubblica dei media, inclusi telefono, radio e televisione. Poiché l’informazione era considerata così vitale per una democrazia, le istituzioni che fornivano questo sistema infrastrutturale dovevano essere regolate in qualche modo. Fa parte dell’eredità del New Deal di Roosevelt. C’era anche qualcosa chiamato la Dottrina dell’Equità (Fairness Doctrine), che fu messo in atto alla fine degli anni Quaranta; sosteneva che se la televisione o la radio diffondevano una visione politica controversa, dovevano concedere uguale tempo all’altra parte. Reagan se ne sbarazzò negli anni Ottanta e Clinton e la sua amministrazione non fecero alcuno sforzo per ripristinarlo. E quando arriva il momento di scrivere un disegno di legge che raccoglie la sfida della nuova rivoluzione tecnologica, hanno abbandonato l’eredità della regolamentazione dei media che era stata così centrale per il Partito Democratico per gran parte del secolo precedente. In parte ciò è stato dovuto al loro tecno-utopismo.[]
  14. George W. Bush viene criticato per il suo trattamento sprezzante della bolla immobiliare e della crisi finanziaria incombente, e ancora di più per la sua decisione di invadere l’Iraq e poi non fare nulla. Entrambi questi approcci, sostiene Gerstle, si basavano sulla convinzione quasi religiosa di Bush nei mercati: non c’è bisogno di fare nulla, i mercati risolveranno tutto. Non c’è bisogno di preoccuparsi dei prestiti inesigibili; se le banche li dividono in porzioni abbastanza piccole, li cartolarizzano e trovano acquirenti per loro, il rischio scomparirà magicamente. Era “economia voodoo” come suo padre, in un contesto diverso, l’aveva giustamente chiamata. L’approccio alla guerra in Iraq era lo stesso: non c’è bisogno di preparare nulla oltre la campagna militare, basta lasciare che siano le forze di mercato a farlo, e gli iracheni felici, liberi da Saddam, trasformeranno il paese in una nuova Hong Kong. Il sospetto è che le convinzioni semplicistiche di Bush fossero radicate nella sua incredibile pigrizia intellettuale: un ragazzo privilegiato, viziato e non troppo intelligente non è mai cresciuto e non ha mai mostrato il minimo interesse nell’imparare qualcosa su nessuno che non fossero “persone come noi”.[]
  15. La presidenza di Obama è mostrata da Gerstle come irrilevante. Si fa fatica a credere, leggendo il libro, che sia durata tutti gli otto anni. Obama, come è ben noto, ha raccattato tutti i “cervelli economici” clintoniani il cui neoliberalismo era ormai una pallida copia del passato.[]
  16. Quello che è certo è che Trump sarà il presidente più anziano d’America. Sarà il primo criminale condannato. E sarà il primo presidente repubblicano in due decenni a vincere il voto popolare (con oltre 77 milioni di voti, rispetto ai 75 milioni di Kamala Harris), un risultato che evidenzia e aggrava la crisi della democrazia che gli Stati Uniti stanno affrontando.[]
  17. Musk, che co-presiede un gruppo consultivo informale della Casa Bianca (il DOGE), ha espresso posizioni chiaramente anti-sindacali, opponendosi a politiche di lavoro flessibile e diversità. Con questa influenza, è probabile che la presidenza Trump tenda a indebolire le tutele sindacali e a favorire una maggiore libertà per i datori di lavoro. Negli Stati Uniti, solo il 10% dei lavoratori è iscritto a un sindacato, un dato molto inferiore rispetto al picco del 35% registrato negli anni ’50. La nuova amministrazione potrebbe accelerare questo declino, con modifiche all’assetto del National Labor Relations Board (NLRB), l’agenzia federale del New Deal responsabile della tutela dei diritti sindacali dal 1935. Trump potrebbe sostituire la leadership attuale con figure meno orientate alla protezione dei lavoratori, riducendo così la capacità dei sindacati di organizzarsi. Parallelamente, le politiche di diversità, equità e inclusione (DEI) potrebbero essere ridimensionate, favorendo un ritorno a dinamiche aziendali più tradizionali e meno attente alle minoranze. Una delle decisioni più discusse è stata la nomina di Lori Chavez-DeRemer come segretaria del Lavoro. Chavez-DeRemer ha sostenuto alcune misure pro-sindacali in passato, come il Protecting the Right to Organize Act, generando tensioni tra le aziende che vedono in lei un possibile ostacolo. La sua nomina evidenzia le contraddizioni della presidenza Trump, divisa tra il desiderio di attrarre i lavoratori e la necessità di mantenere il sostegno delle grandi aziende. Trump ha annunciato una linea dura sull’immigrazione, con l’intenzione di espellere milioni di lavoratori senza permesso di soggiorno. Sebbene questa misura possa trovare il favore tra i suoi sostenitori della classe lavoratrice, molti imprenditori avvertono che tali politiche potrebbero causare gravi carenze di manodopera, specialmente nei settori agricolo e della ristorazione, dove la presenza di lavoratori non documentati è significativa.[]
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