Quando vivevo a Milano, abitavo accanto all’area dove sorgeva l’Istituto Sieroterapico milanese (abbastanza noto ai milanesi del dopoguerra come Il Sieroterapico.)
Il Sieroterapico, fondato nel 1894 come ente morale, fu uno dei primi istituti di ricerca medica sui vaccini in Europa e, a inizio secolo, il primo produttore di vaccini in Italia (in particolare di siero antidifterico).
Nel tempo, l’Istituto sieroterapico arrivò ad occupare una superficie che si estendeva su un’area di oltre venti ettari. Nel secondo dopoguerra, per più di un trentennio, si occupò, oltre che della produzione e somministrazione di vari tipi di vaccini, anche di derivati per uso trasfusionale.
Le produzioni del Sieroterapico ebbero una indubbia utilità per tutti i cittadini italiani per diversi decenni.
L’attività del Sieroterapico terminò con il crac finanziario del 1991 per 150 miliardi di lire. Le cause del crac furono da imputarsi ad una gestione, forse, volutamente inadeguata (si mormorava che, soprattutto per gli emoderivati, vi erano pressioni per lasciare il campo ad una industria farmaceutica privata toscana) e, certamente, dalla carenza di finanziamenti pubblici alla ricerca scientifica. L’area fu inseguito oggetto di speculazione edilizia, solo parzialmente evitata dalla mobilitazione di alcuni Comitati di quartiere.
Questa premessa per riprendere il tema dell’importanza del lavoro pubblico e dell’intervento dello Stato nell’orientare le attività produttive garantendo l’accesso ai servizi essenziali a tutta la popolazione.
Il tema della salute e della produzione di farmaci e prodotti medicali è un tema che non si presta a facili soluzioni. Se si affronta solo dal un punto di vista (ad esempio da quello economico,) si rischia di trovarsi in situazioni come quella in cui si è trovata l’Europa intera all’inizio dell’epidemia, quando le poche mascherine che si trovavano (provenienti quasi tutte dall’Asia) erano vendute a prezzi da “mercato nero”, cosa che ha causato migliaia di vittime, in particolare tra gli operatori della sanità. Certo era più comodo lasciare produrre le mascherine in Asia, lasciando da noi produzioni più remunerative! Il prezzo è stato pagato in seguito!
Se, nel caso delle mascherine, è stato abbastanza semplice riconvertire degli impianti esistenti, nel caso dei vaccini la cosa presenta maggiori difficoltà. Principalmente per due motivi: a) anche se abbiamo centri di ricerca di eccellenza, la ricerca, anche quella di base è quasi completamente delegata ai privati, che, anche avvalendosi di finanziamenti pubblici, sono stati in grado di produrre vaccini, dettando però regole e prezzi. B) anche ammettendo di superare lo scoglio dei brevetti, non è così facile e soprattutto rapido, mettere in piedi o riconvertire linee produttive in grado di produrre adeguate quantità di vaccini.
Per rispondere adeguatamente a questi problemi bisogna cambiare visione.
Soprattutto in alcuni settori (la salute, l’istruzione, ecc.) il profitto di qualcuno (diciamo l’elargizione di succulenti dividendi) viene dopo il bene della collettività. Alla luce di questa visione, vi sono settori produttivi che devono, quanto meno, essere sotto il controllo pubblico (anche non sarebbe affatto sbagliato che in alcuni settori strategici vi fossero anche aziende completamente pubbliche).
Ciò anche quando tali aziende non generano profitti nell’immediato. Infatti, tralasciando la questione etica legata al diritto di accesso alle cure, va sottolineato che, anche dal punto di vista della spesa pubblica, nel medio/ lungo termine si ridurrebbero i costi complessivi per la collettività, anche perché la Pubblica amministrazione non avrebbe sul capo la spada di Damocle della speculazione delle grandi compagnie farmaceutiche (quanto sta costando in termini economici la mancanza si aziende pubbliche in grado di produrre vaccini?).
Ora con il governo Draghi, assisteremo ad una tavola imbandita con i soldi dell’Europa, a cui, però, i commensali saranno solo gli amici di Confindustria e delle grandi aziende.
La domanda, diventa quindi cosa faranno con questi soldi? Vero è che ormai sono tutti per la transizione ecologica, ma sarà vero? Si darà l’avvio a un diverso modello economico produttivo, o si darà una verniciata di verde a vecchi modelli? Un esempio in negativo sembrano essere i piani di soggetti come ENI, che fanno progetti per catturare e sequestrare la CO2 invece che ridurla, o progetti per costruire mega impianti per produrre idrogeno (verde, blu o nero), invece di preparare l’abbandono dei combustibili fossili. Certo è che, la composizione del nuovo governo, non lascia molte speranze.
Peraltro, nell’immediato, occorrerà interrogarsi a fondo sui risvolti sociali che gli interventi produrranno, in termini di occupazione, qualità del lavoro, condizioni di lavoro, redditi erogati. Alla luce delle posizioni particolarmente aggressive dei vertici di Confindustria, le prospettive in questo senso, non sembrano particolarmente rosee!
È per questi motivi che è indispensabile rilanciare il ruolo dello Stato, non solo come regolatore controllore (attività svolta poco e male anche a causa della progressiva demolizione della macchina pubblica deputata a questi compiti (spesso ci si dimentica di quale sia oggi la consistenza degli organici dell’INAIL o delle ARPA)), ma anche con l’intervento diretto nelle attività produttive. Per questo sarebbe particolarmente utile un soggetto pubblico (come era l’IRI, appunto), non solo per intervenire direttamente dove serve, con investimenti e con una programmazione non legata alla elargizione di dividendi, ma anche per orientare, attraverso le politiche pubbliche le attività dei privati. Il tutto avendo cura di prestare attenzione alla struttura produttiva che storicamente, nel bene e nel male, ha caratterizzato l’Italia.
Per inciso, va detto che, una posizione darwinista come quella che sembra aver espresso Draghi potrebbe essere molto pericolosa per le nostre aziende. Infatti, se è condivisibile una posizione che afferma che è da evitare l’accanimento terapeutico su settori che non hanno come orizzonte la transizione ecologica (che senso, ad esempio, ha puntare ancora su sistemi produttivi legati ai combustibili fossili?), meno condivisibili sono posizioni che puntano tout court alla fusione e alla concentrazione delle imprese.
Va infatti sottolineato che il tessuto produttivo nazionale è principalmente caratterizzato da imprese di piccole e piccolissime dimensioni, in larga parte organizzate in distretti produttivi e, almeno sino all’inizio di questa disastrosa emergenza sanitaria, aveva dimostrato di avere significativa capacità di ripresa, soprattutto quando sono state affrontare collettivamente alcune sfide e l’innovazione tecnologica è stata coniugata con l’innovazione ambientale e la qualità dei prodotti.
Va, infatti, ricordato, che le piccole e medie imprese italiane (PMI) dopo la crisi finanziaria del 2008 hanno ripreso un percorso di crescita dei conti economici, distinguendosi dalle grandi società, per cui invece i risultati sono stati ancora negativi.
Il sistema italiano, pur con una spesa ridotta in ricerca e sviluppo, presentava un’elevata quota di imprese innovatrici. Le imprese italiane a fronte di una modesta propensione all’investimento in ricerca e sviluppo (lo 0,7% del Pil a fronte di una media UE pari all’1,3%), si collocavano al di sopra della media europea in termini di propensione all’innovazione (41,5% di imprese innovatrici rispetto a 36% per l’UE).
A questo proposito il ruolo di un soggetto pubblico (una nuova IRI) potrebbe essere, oltre a quello dell’intervento diretto in settori strategici, dove necessitano investimenti significativi, proprio quello di supportare attraverso la messa a disposizione di infrastrutture di sistema (es. impianti per il riciclo dei rifiuti e degli scarti di lavorazione, sistemi di logistica per favorire la simbiosi industriale, ecc…) o dei risultati di attività di ricerca che le PMI non sono in grado di portare avanti da sole, o dei feedback che arrivano dalle esperienze avanzate condotte dalle stesse PMI.
Su questi temi si innesta quello della Pubblica amministrazione che deve essere in grado di rispondere pienamente ai compiti che costituzionalmente deve svolgere. Il primo di questi è quello di garantire ai cittadini i diritti che ad essi spettano. Tra questi non vi sono solo quelli alla salute, all’istruzione, alla giustizia, ma anche quelli alla sicurezza nei luoghi di vita e di lavoro, e quelli ad avere un ambiente pulito. Naturalmente vi sono poi quei compiti legati alla necessita di garantire regole uguali su tutto il territorio nazionale, e quelli di garantire quel minino di programmazione e pianificazione necessaria, sia alle attività di cura del territorio, sia alle attività produttive.
Per poter garantire questi diritti è indispensabile, prima di ogni altra cosa, rafforzare la struttura pubblica, da decenni indebolita dal mancato turnover e dalla esternalizzazione selvaggia. Un numero minimo più volte richiamato è quello di 500.000 assunzione nella PA.
Per finire sembra utile una domanda retorica: oggi, alla luce della vicenda vaccini, non sarebbe stato utile avere una struttura pubblica come l’Istituto Sieroterapico?