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Abbandonare il capitalismo neoliberista per salvare la vita umana sul pianeta

di Alessandro
Scassellati

L’umanità vive ormai da tempo all’interno di una “crisi universale” simile alla Grande Depressione degli anni ’20-’40 del secolo scorso, senza riuscire a vederne la fine. Per uscirne deve decidere se abbandonare il capitalismo per un modo di produzione diverso, che assicuri effettivamente la salvezza dell’umanità e che sia rispettoso degli equilibri della natura e della dignità umana. Una cosa che come umanità abbiamo imparato durante la pandemia da CoVid-19 è che possiamo cambiare radicalmente il nostro modo di vivere dall’oggi al domani. Pensiamo al modo in cui abbiamo iniziato a lavorare da casa, comprato meno cose, volato e mangiato meno. Abbiamo dimostrato che lavorare di meno era più rispettoso dell’ambiente e offriva alle persone una vita migliore. Ma ora il capitalismo sta cercando di riportarci in qualche maniera a uno stile di vita “normale” e noi dobbiamo reagire, pensando e praticando un’alternativa radicale.
Innanzitutto, dobbiamo decidere di abbandonare il neoliberismo come modo di regolazione del processo di accumulazione. Un modo divenuto egemone a partire dalla fine degli anni ’70, ma in crisi di legittimità dalla Grande Recessione del 20081. La dottrina del neoliberismo insiste sul fatto che la politica si deve sottomettere al “mercato”, il che significa che la democrazia deve sottomettersi al potere del denaro. Qualsiasi ostacolo all’accumulazione di ricchezza – come la proprietà pubblica, il welfare e il servizio sanitario nazionale, le tasse, la regolamentazione, i sindacati e la protesta politica – deve essere smembrato ed abbattuto con qualsiasi mezzo. Non a caso il neoliberismo è associato a politiche economiche pubbliche improntate all’austerità, con tagli alle tasse per ricchi e imprese che producono la contrazione delle entrate pubbliche, creando una pressione irresistibile per i tagli alla spesa pubblica (una tattica nota come “affamare la bestia“, perché inesorabilmente produce la crisi fiscale dello Stato). Per circa 40 anni, il neoliberismo è stato incontestabile e ha permesso ai ricchi di diventare sempre più ricchi, gonfiando i valori degli asset finanziari ed immobiliari e il debito delle famiglie normali, bruciando le relazioni umane, le condizioni di lavoro e il mondo vivente.
Ora è il tempo di alternative reali e stimolanti visioni positive di un mondo migliore, piuttosto che di parziali modifiche di un’ideologia che ci ha portato sull’orlo del disastro economico, politico ed ambientale. Abbiamo bisogno di speranza. Dobbiamo provare a costruire una economia globalmente interconnessa caratterizzata da un nuovo modo di regolazione multilaterale – un sistema condiviso di governance globale – che consenta di farla funzionare per tutti. Se si vogliono salvare globalizzazione e democrazia rappresentativa occorre un nuovo modo di regolazione del processo globale di accumulazione del capitale attraverso la creazione di una nuova struttura sociale transnazionale dell’accumulazione che sia in grado di riannodare insieme economia e società, economia internazionale ed economie nazionali (ad esempio, attraverso un rilancio di “politiche industriali”, politiche per l’istruzione e la formazione, “politiche territoriali” per lo sviluppo locale e politiche sociali di stampo quantomeno socialdemocratico), riorientando il processo di globalizzazione sulla strada che sia rispettosa dell’ambiente, equa, solidale, equilibrata e stabile, in grado di assicurare la salvezza umana, che faccia perno sulla pace e la cooperazione internazionale (con una conseguente forte riduzione delle spese militari) e su un rafforzamento del lavoro vis-à-vis il capitale in modo che i dividendi della eventuale maggiore ricchezza prodotta siano effettivamente distribuiti in modo equo e solidale.
Una distribuzione più egualitaria del reddito non è un lusso che può essere affrontato una volta stabilizzata l’economia globale, ma è una parte integrale di una sana struttura sociale dell’accumulazione che possa sostenere e regolare una nuova fase di crescita dell’economia globale in grado di generare sia aumenti di produttività sia un’effettiva espansione della domanda. Per questo occorre costruire un più efficace insieme di regole e forme istituzionali di coordinamento e cooperazione globale che sia capace di riportare il capitale finanziario – quello più globalizzato di tutti e che ha rappresentato l’elemento dominante del regime globale di accumulazione neoliberista – sotto controllo politico ed istituzionale2, riducendo o eliminando del tutto il fenomeno dell’evasione ed elusione fiscale, alzando le aliquote fiscali per la parte più ricca della popolazione e per le grandi corporations sulla base del principio di progressività, separando le funzioni delle grandi istituzioni finanziarie e limitando le loro dimensioni, costruendo sistemi per tracciare e controllare i flussi di denaro transnazionali (attraverso l’imposizione di limiti, divieti o imposte sulle transazioni e la promozione di flussi di capitale che si indirizzano verso investimenti, sia pubblici sia privati, di lungo termine, pazienti, sostenibili e responsabili3) e trasferendone una buona parte in canali pubblici o sotto la supervisione pubblica. Si deve anche pensare più seriamente alla redistribuzione globale: non gli aiuti, che sono estemporanei, ma il trasferimento sistematico della ricchezza dai ricchi (dai Paesi con popolazioni prevalentemente bianche) ai poveri (ai Paesi con popolazioni prevalentemente “colorate”) per migliorare la sicurezza di tutti, come almeno in parte accade nelle società nazionali4.
Allo stesso tempo, sappiamo che per assicurare un futuro all’umanità (la possibilità della sua riproduzione sociale5) e alle altre forme di vita del pianeta dobbiamo avere uno “sviluppo che soddisfa i bisogni delle generazioni presenti, senza compromettere la possibilità che le future generazioni possano soddisfare i propri”, come affermato dal Rapporto Bruntland (Our common future, 1987) della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo dell’ONU6.
Sappiamo che senza crescita il capitalismo collassa, eppure la crescita perpetua di un sistema economico basato sul modello “estrazione-produzione-consumo-smaltimento” in un pianeta finito conduce inesorabilmente alla calamità ambientale, come afferma il 97% degli scienziati che si occupano di clima, a cominciare da quelli che fanno parte dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (IPCC) promosso dall’ONU7. La ricerca scientifica ci dice che ormai quasi non c’è un sistema ecologico terrestre che non sia minacciato di collasso, con il degrado del suolo e degli ecosistemi idrici e marini (acidificazione, microplastiche, riscaldamento, etc.), con la minaccia di estinzione di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci selvatici, insetti, flora e della maggior parte delle forme di vita sulla Terra8, compresa la maggior parte degli esseri umani. Gli scienziati parlano di sesta estinzione di massa – la più grande perdita di vita sulla Terra dai tempi dei dinosauri – promossa dagli esseri umani. Per avere un sistema economico che non sia una minaccia per l’estinzione umana e della biodiversità naturale, quindi, sarà quanto meno necessario “rivoluzionare” il capitalismo, passando dal modello dell’economia lineare a quello dell’economia circolare, in cui quello che normalmente viene considerato “rifiuto” può essere trasformato in risorsa. Come il carbone o il petrolio, il capitalismo ha portato dei benefici materiali in termini di standard di vita, ma, come il carbone e il petrolio, ora provoca più danni che benefici. Proprio come abbiamo trovato i mezzi per generare energia rinnovabile utile che è migliore e meno dannosa del carbone e del petrolio, l’umanità deve trovare i mezzi per generare benessere umano che siano migliori e meno dannosi dell’economia lineare capitalistica.
Occorre fare della trasformazione della produzione e delle forze produttive il fulcro di un nuovo rapporto con il pianeta, puntando sullo sviluppo di forme ecologicamente benigne di sviluppo tecnologico. Per economia circolare si intende un’economia pensata per potersi rigenerare da sola, garantendo dunque la sua ecosostenibilità attraverso la riutilizzazione dei materiali in successivi cicli produttivi, riducendo al massimo gli sprechi. Nell’economia circolare scarti e rifiuti non esistono perché gli scarti e i rifiuti di qualcuno diventano risorse per qualcun’altro. La transizione verso questo tipo di economia sposta l’attenzione sul riutilizzare, aggiustare, rinnovare e riciclare i materiali e i prodotti esistenti e richiede nuove regolamentazioni, nuove politiche pubbliche, nuovi modi di progettare e produrre beni e servizi, e nuovi stili di vita e modelli di consumo basati sui modelli della “sharing economy”.
Puntare alla qualità e non alla quantità, vivere non sulla natura per sfruttarla, ma con la natura per seguire i suoi cicli naturali con la consapevolezza di farne parte. Pensarci come un tutt’uno con la natura, intesa coma Gaia, ossia un’entità vivente e vitale “in cui la vita mantiene le condizioni per la vita”, come sosteneva lo scienziato inglese James Lovelock. Da questo punto di vista, vanno valorizzate le pratiche culturali dei popoli autoctoni (i “popoli originari”) riguardo alla conoscenza e al radicamento nel territorio, alla cura e tutela di ambiente e biodiversità, e alla condivisione delle sue risorse che nascono da visioni e preoccupazioni per il futuro e per i discendenti9. Le loro società non sono basate sul modo di produzione capitalistico e sono sostenibili, perché operano per realizzare un’economia stazionaria, non sono guidate dall’accumulazione e dalla crescita.
L’obiettivo del Patto di Parigi del 2015, affidato ad impegni volontari e all’arruolamento del capitalismo finanziario, di contenere l’aumento delle temperature entro 1,5° C al di sopra dell’era preindustriale entro il 2030, non verrà rispettato10: il pianeta nel 2021 si è già scaldato mediamente di 1,1 gradi. Le emissioni di CO2 continueranno a crescere di 2,5° C almeno fino al 2030, portando il riscaldamento a 3,2-4° C nel 2100. Un mondo che gli scienziati ritengono sia invivibile, almeno per gli esseri umani. Possiamo aspettarci un futuro in cui ondate di calore letali e temperature superiori a 50° C sono comuni ai tropici; dove le estati alle latitudini temperate saranno invariabilmente calde, e dove i nostri oceani sono destinati a salire di livello e a diventare caldi e acidi. In particolare, le aree nella fascia tropicale che si estende su entrambi i lati dell’equatore – latitudini comprese tra i 20 gradi nord, una linea che attraversa Messico, Libia e India, fino a 20 gradi sud, che attraversa Brasile, Madagascar e le regioni settentrionali dell’Australia – rischiano di trasformarsi in un ambiente che raggiungerà “il limite dell’adattamento umano“, con l’aumento del calore e dell’umidità che minacciano di gettare gran parte della popolazione mondiale (almeno 3 miliardi di persone) in condizioni potenzialmente letali.
Gli enormi ritardi, le promesse non mantenute dei governi rendono l’inversione di rotta un compito titanico. Secondo l’agenzia ambientale dell’ONU (UNEP), l’unico modo per limitare gli impatti peggiori della crisi climatica è una “rapida trasformazione delle società“. Servirebbero rivoluzioni incentrate su una “mentalità sottrattiva” razionale, conveniente e produttiva riferita ai vantaggi a breve termine e una frugalità dei consumi11 – dalla rinuncia totale del consumo di carne al drastico taglio dei voli aerei, dalla eliminazione delle auto private alla fine del consumo dei prodotti dell’agricoltura industriale – che avrebbero conseguenze pesanti su agricoltura, turismo, commercio, migrazioni. Certo, sono cresciute la rabbia e la pressione dei giovani di tutto il mondo, mentre governi ed imprese hanno iniziato a prendere impegni più stringenti. Ma una “rapida trasformazione della società” non può avvenire in un mondo governato dal paradigma neoliberista, in cui, il cosa produrre e il come e il costo dei vari beni (anche quelli essenziali alla vita delle persone) sono decisi soprattutto dalle speculazioni finanziarie. Come ha ammonito papa Francesco nella sua enciclica del 2016, Laudato si’: “Un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare sia il grido della terra sia il grido dei poveri”.

C’è bisogno di una nuova immaginazione radicale, di un nuovo “pensiero utopico” e generativo collettivo12, di una forte discontinuità in termini di consapevolezza e comportamenti individuali e collettivi, di politiche pubbliche e di risorse economiche investite. La politica ha grandi responsabilità: deve far capire alle opinioni pubbliche e ai cittadini che nessuno si salva da solo e che soltanto insieme si può combattere la minaccia del riscaldamento globale.
D’altra parte, negli ultimi anni si sono moltiplicate nel mondo le esperienze basate su un nuovo modo di produzione e di scambio post-capitalista, in cui delle comunità di pratica – dal campo energetico a quello agricolo, educativo, assistenziale, di consumo, etc. – creano valore condiviso attraverso sistemi di contribuzione aperti, governano il loro lavoro comune attraverso pratiche partecipative e creano risorse condivise che a loro volta possono essere utilizzate in nuove iterazioni13. Questo ciclo di input aperto, processo partecipativo e output orientato ai beni comuni è un ciclo di accumulo di beni comuni, al contrario dell’accumulazione di capitale. Questo modo di produzione, che Benkler14 ha chiamato “produzione tra pari basata su beni comuni” (ossia su risorse condivise autogestite da comunità di stakeholders), prospera in ecosistemi che comprendono: 1) comunità contributive che condividono conoscenze e capacità; 2) coalizioni imprenditoriali (nelle forme istituzionali delle cooperative aperte) che creano mezzi di sussistenza intorno ai beni comuni; e 3) organizzazioni infrastrutturali no-profit che supportano e garantiscono la cooperazione nell’ecosistema, consentendogli di continuare nel tempo. Un modo di produzione non estrattivo, ma generativo nei confronti delle persone (più egualitario e solidale), dei loro bisogni e della natura, che fa leva sulla mutualizzazione in linea con i principi proposti per la governance dei beni comuni dal premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom15, senza dover richiedere una costante sovrapproduzione e una costante promozione del consumo eccessivo16.
Le persone nel tempo, vivendo in comunità amichevoli, potrebbero creare una nuova cultura diversificata e non violenta, in cui tutte le forme di espressione personale e di gruppo sarebbero possibili. Uomini e donne, bianchi e neri, vecchi e giovani, potrebbero dunque considerare le loro differenze come attributi positivi, non come ragioni di dominio. Nuovi valori di cooperazione, solidarietà, fraternità e di libertà personale e collettiva potrebbero allora manifestarsi nelle relazioni tra le persone (nel sesso, famiglia, relazioni personali e sociali) e nell’educazione delle nuove generazioni (non insegnandogli a competere per il “successo” come maschera per l’individualismo esasperato e l’avidità). La pedagogista Maria Montessori, messa all’indice dal regime fascista e costretta ad emigrare nel 1934, ha scritto: “Tutti parlano di pace, ma nessuno educa alla pace. A questo mondo si educa per la competizione e la competizione è l’inizio della guerra. Quando si educherà per la cooperazione e per offrirci l’un l’altro solidarietà, quel giorno si starà educando per la pace17.
Per fare tutto questo, date le complesse condizioni di controllo nel sistema capitalistico, richiederebbe combinare energia, esperienze e tattiche (dimostrazioni, marce, disobbedienza civile, scioperi, boicottaggi, scioperi generali, azioni dirette per ridistribuire la ricchezza, per ricostruire le istituzioni, per rianimare le relazioni sociali e culturali) dei precedenti movimenti sociali della storia delle società capitalistiche (indipendentemente dal fatto che siano “riusciti” a realizzare le loro visioni) – dei movimenti anti-coloniali, operai, contadini, dei diritti civili, delle donne, dei gruppi LGBTQIA+, degli studenti, dell’altra globalizzazione (Forum Sociale di Porto Alegre, Via Campesina, Occupy Wall Street, Indignados) – insieme alla nuova energia dei ceti medi arrabbiati contro il “tradimento” dell’establishment mainstream. Le persone dovrebbero iniziare a trasformare i loro ambienti immediati – posto di lavoro, casa, famiglia, scuola, quartiere, comunità locale – attraverso una serie di lotte contro l’autorità assenteista, per dare il controllo di questi luoghi alle persone che ci vivono e lavorano. La rete offre grandi opportunità per lo scambio di esperienze e competenze, per costruire ampie e inclusive alleanze transcontinentali e per mettere a punto un lessico comune e una narrazione condivisa, oltre che per costruire un coordinamento generale in tempo reale di questo nuovo movimento sociale progressivo e non violento.

Alessandro Scassellati

  1. Già la crisi finanziaria del 2008, la Grande Recessione, aveva svelato che “il re è nudo” e aveva portato il sistema di regolazione neoliberista, tutto orientato al “primato dei mercati” e alla crescita del debito, e il suo regime di accumulazione basato su bassi salari, compressione dei diritti dei lavoratori, prezzi contenuti e ultra-concorrenziali, massimizzazione del profitto per gli azionisti e soprattutto sull’attività finanziaria, ad un improvviso collasso, facendo esplodere una crisi globale che ha causato un crollo della domanda aggregata, una stagnazione e uno stato di incertezza di lungo periodo. Come ha notato Luciano Gallino, ha reso evidente “una grave contraddizione nel sistema capitalistico, perché esso per sopravvivere avrebbe bisogno di consumatori/lavoratori non poveri, bensì relativamente benestanti” (cfr. Gallino L., Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2013). Ovunque crescono le disuguaglianze economiche, territoriali e sociali, la diffusione della povertà, il degrado ambientale, il declino della fiducia e della correttezza, i risultati economici problematici, le piccole e grandi crisi finanziarie ed economiche, il terrorismo, le minacce unilaterali di nuove guerre, e rapidi cambiamenti e dislocazioni. Questa persistente e drammatica crisi irrisolta del capitalismo neoliberista globale è divenuta un terreno fertile per la polarizzazione politica (negli USA, a cominciare dal Tea Party  e Donald J. Trump a destra e da Occupy Wall Street, Bernie Sanders e Black Lives Matter a sinistra), con milioni di cittadini indignati, impauriti ed arrabbiati che aspirano ad un ritorno alla chiusura, alla protezione e ad un rilancio del nazionalismo e del potere dello Stato-nazione in campo economico (nazionalizzazioni, protezionismo, sussidi, blocco dell’immigrazione, etc.), arrivando a mettere in discussione la democrazia rappresentativa. Negli Stati Uniti, sebbene fosse egemonico all’interno dell’élite, il neoliberismo sotto Ronald Reagan e Bill Clinton era sostenuto solo da una ristretta base politica. Dagli anni 2000 questa base è crollata. La scarsità e l’inadeguatezza delle principali legislazioni sotto Obama, sia che si trattasse di regolamentazione bancaria (Dodd-Frank Act del 2010) o sanitaria (Obamacare), ha evidenziato la difficoltà di attuare riforme davvero decisive. Nonostante tutto la sua retorica pirotecnica, Trump non è riuscito nemmeno ad abolire l’Obamacare, affidandosi invece a misure amministrative per cercare di sviscerarlo. Il suo principale risultato legislativo è stato il taglio delle tasse ai ricchi e alle grandi corporations. Cfr. Gerstle G., The rise and fall of the neoliberal order. America and the world in the free market era, Oxford University Press, Oxford, 2022.[]
  2. Si tratta di aprire un confronto pubblico internazionale, mettendo al lavoro tutte le maggiori forze politiche, intellettuali, sociali, tecniche ed economiche, affinché si pongano consapevolmente l’obiettivo di costruire una nuova configurazione di regole ed istituzioni – come quelle nate con la conferenza di Bretton Woods nel 1944 – che, se fatte rispettare a livello globale, possano consentire di stabilizzare e regolare in modo più equilibrato il conflitto sociale, la competizione tra capitalisti e i flussi globali di capitale, merci e forza lavoro, soprattutto in relazione alla necessaria decarbonizzazione dell’economia e alla rapida espansione del capitalismo delle piattaforme digitali attualmente quasi del tutto deregolamentato.[]
  3. Soprattutto a lungo termine in base alla ”idea che influenzare positivamente il futuro a lungo termine sia una priorità morale chiave del nostro tempo” (MacAskill W., What we owe the future. A million-year view, Oneworld, London, 2022). Investimenti in infrastrutture fisiche e sociali, in formazione del capitale umano, in ricerca e sviluppo, in trasformazioni tecnologiche ed organizzative a basso consumo di energia e a bassa emissione di anidride carbonica che possono portare ad incrementi della produttività e della produzione e anche in riforme strutturali che producono mercati dei prodotti e del lavoro in grado di aumentare la resilienza e la sostenibilità ambientale delle economie locali. Soprattutto, c’è bisogno di indirizzare investimenti enormi in nuovi impianti di risparmio energetico e di risparmio di CO2 (negli alloggi e nei trasporti) e nuove “fonti rinnovabili” pulite e beni primari che possano anche contribuire a risolvere la incipiente crisi alimentare.[]
  4. Alcuni studi stimano che solo una frazione dell’assistenza allo sviluppo vada direttamente a gruppi con sede nel sud del mondo. Il paradosso africano – vero per tutte le regioni a basso e medio reddito – del denaro che lascia il continente più del denaro che entra nel continente come aiuti, deve finire. Anche il modello di aiuto bilaterale merita di essere completamente riesaminato. Molte persone credono che gli aiuti bilaterali siano vincolati ed essenzialmente uno strumento di politica estera. Una comprensione apolitica del potere del denaro non farà che perpetuare la povertà e manterrà il settore dello sviluppo internazionale come canale del neoimperialismo.” Behar A., Decolonizing development is key to avoid path to irrelevance, Devex, 1° September 2022, https://www.devex.com/news/opinion-decolonizing-development-is-key-to-avoid-path-to-irrelevance-103912.[]
  5. Fraser N., Cannibal capitalism. How our system is devouring democracy, care, and the planet—and what we can do about it, Verso Books, London, 2022.[]
  6. Dobbiamo anche ricordare che il 2022 è stato il cinquantesimo anniversario di uno degli studi ambientali più influenti e anche controversi (accusato di avere un’impostazione malthusiana) mai scritti: il rapporto del Club di Roma, The limits to growth (Universe, New York, 1972) di Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens III. Nessun altro lavoro ambientale degli anni ’70 ha offerto una sfida così diretta ai presupposti alla base dell’economia della crescita esponenziale capitalista o ha ricevuto una risposta così veementemente contraria dai pensatori dell’establishment. Il rapporto aveva utilizzato un modello matematico-computerizzato formale per presentare dodici scenari sulle tendenze della crescita economica e le loro conseguenze ambientali. In tal modo, il rapporto si era concentrato su cinque fattori di crescita: popolazione, produzione alimentare, industrializzazione, inquinamento e consumo di risorse naturali non rinnovabili. In quello che era stato chiamato lo scenario di “esecuzione standard“, così come la maggior parte dei suoi altri scenari, il risultato previsto era stato il “superamento” e il crollo delle tendenze di crescita nel XXI secolo. Tuttavia, il rapporto non intendeva essere predittivo in senso stretto, ma piuttosto indicare i pericoli ambientali fondamentali risultanti dalle dinamiche di crescita delle società industrializzate contemporanee. Il messaggio era quindi quello della trasformazione necessaria per creare percorsi di sviluppo più sostenibili, ovvero che l’umanità, se vuole salvarsi, deve entrare in “un periodo di grande transizione“, il “passaggio dalla crescita a […] uno stato desiderabile e sostenibile di equilibrio globale” (24, 180).[]
  7. Mann G., Reversing the freight train, The London Review of Books, 18 August 2022, https://www.lrb.co.uk/the-paper/v44/n16/geoff-mann/reversing-the-freight-train.[]
  8. Le popolazioni di fauna selvatica della Terra sono crollate in media del 69% in poco meno di 50 anni, secondo la valutazione scientifica del Rapporto sul Pianeta Vivente 2022 di WWF e Zoological Society di Londra (https://livingplanet.panda.org/en-gb/), poiché gli esseri umani continuano a disboscare le foreste, consumare oltre i limiti del pianeta e inquinare su scala industriale. Dall’oceano aperto alle foreste pluviali tropicali, l’abbondanza di uccelli, pesci, anfibi e rettili è in caduta libera, diminuendo in media di oltre due terzi tra il 1970 e il 2018.[]
  9. Basso K. H., Wisdom sits in places. Landscape and language among the western Apache, University of New Mexico Press, Albuquerque, 1996.[]
  10. Secondo il Rapporto sul divario delle emissioni delle Nazioni Unite (https://www.unep.org/resources/emissions-gap-report-2021), la produzione mondiale di combustibili fossili pianificata entro il 2030 sarà più del doppio della quantità che sarebbe coerente con il mantenimento dell’obiettivo di 1,5° C. Le previsioni delle Nazioni Unite, infatti, concludono che le nostre emissioni di CO2 dovrebbero aumentare di un altro 16% entro il 2030. Il tempo che ci resta per evitare di creare crescenti catastrofi climatiche in molti luoghi del mondo – soprattutto nel Sud globale – si sta rapidamente esaurendo. Il nodo di fondo è che i Paesi che definiamo “occidentali” o industrializzati hanno sulle loro spalle la responsabilità pressoché totale della situazione odierna. Questi Paesi che rappresentano solo il 12% della popolazione globale, hanno causato circa la metà delle emissioni dal 1850 ad oggi, ciò grazie anche allo sfruttamento dei Paesi più poveri. Tutto questo lo hanno fatto spesso anche con l’esportazione dell’inquinamento delle produzioni che a loro sono state necessarie. Vale la pena di ricordare che nel 2020 le emissioni pro-capite annue di un americano sono di 14,2 tonnellate di CO2, di un tedesco 7,7, di un italiano 5 e di un francese 4,3. Mentre quelle di un cinese (dove si producono un sacco di merci che i Paesi occidentali comprano) sono 7,4 tonnellate, mentre quelle dei tanto criticati indiani (che devono bruciare carbone) sono solo di 1,8 tonnellate. Va ricordato che gli indiani sono 1,5 miliardi di persone e un terzo di questi, cioè un numero di persone paragonabile all’intera popolazione dell’Europa, vive al di sotto della soglia di povertà. Vale la pena di ricordare, inoltre, che l’emissione pro-capite dei Paesi più poveri come quelli dell’Africa sub-sahariana è di circa 0,1 tonnellate all’anno. C’è quindi bisogno di giustizia e solidarietà. C’è bisogno che i Paesi che si sono arricchiti sulle fonti fossili e sulle spalle del resto del mondo, oltre ad agire di più e prima degli altri, destinino una parte consistente dei profitti accumulati, proprio verso “quel” resto del mondo che per secoli è stato depredato delle risorse naturali e che ora soffre le conseguenze peggiori della crisi climatica. Questo trasferimento di soldi (il target concordato era pari a 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020, ma non è stato mai raggiunto) e tecnologie deve garantire una transizione equa, giusta, che non lasci indietro nessuno, come del resto, anche specificato formalmente nel testo dei vari patti internazionali siglati negli ultimi decenni. La questione del risarcimento finanziario per i danni causati dal riscaldamento climatico ai Paesi del sud del mondo è quella principale che viene trattata nel corso della COP27 in Egitto.[]
  11. Legrenzi P., Quando meno diventa più. La storia culturale e le buone pratiche della sottrazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2022; Frugalità, Il Mulino, Bologna, 2014.[]
  12. Kelley R. D.G., Freedom Dreams. The black radical imagination, Penguin Random House, New York, 2022 (2002).[]
  13. Bauwens M. e Pazaitis A., P2P accounting for planetary survival. Towards a P2P infrastructure for a socially-just circular society, P2P Foundation, Guerrilla Foundation e Schoepflin Foundation, 2020, https://commonstransition.org/wp-content/uploads/2019/09/AccountingForPlanetarySurvival_defx-2.pdf?fbclid=IwAR1RGnxTNElX7rBdQknFbVHHg7Y-59WBdLFCuJ0_ qxqdZvWq-OuIVPwwf24. Negli ultimi decenni è cresciuto anche l’interesse per il modello del sistema cooperativo di Mondragon nei Paesi Baschi della Spagna, divenuto il più grande al mondo (una rete di 95 cooperative con 80 mila lavoratori, al 76% soci, 132 impianti produttivi in 32 Paesi e 11 miliardi di euro di fatturato nel 2021). Cfr. Romeo N., How Mondragon became the world’s largest co-op, The New Yorker, 24 August 2022, https://www.newyorker.com/business/currency/how-mondragon-became-the-worlds-largest-co-op.[]
  14. Benkler Y., La ricchezza della rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà, Università Bocconi Editore, Milano, 2007.[]
  15. Ostrom E., Governing the commons. The evolution of institutions for collective action, Cambridge University Press, Cambridge, 1990. Ostrom ha dimostrato che gli esseri umani spesso reagiscono alla crisi e alla scarsità di risorse con strategie di collaborazione e condivisione.[]
  16. A conclusioni analoghe arrivano anche uno storico dell’economia, Matthias Schmelzer, un politico ecologista, Aaron Vansintjan, e un giornalista, Andrea Vetter, nel libro The future of degrowth. A guide to a world beyond capitalism (Verso, London, 2022). Sostengono che il perseguimento della crescita perpetua sia una premessa disastrosa su cui basare il nostro futuro collettivo e che la decrescita potrebbe non essere un processo dall’alto verso il basso, ossia non guidato dall’élite.[]
  17. Montessori M., Educazione e pace, Garzanti, Milano, 1949. Si vedano anche i testi del pedagogista brasiliano Paulo Freire, di Parker J. Palmer e Bell Hooks (Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza, Meltemi, Milano, 2022; Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Meltemi, Milano, 2020). La pedagogia italiana ha prodotto alcuni grandi maestri della pedagogia della cooperazione: Don Lorenzo Milani, Mario Lodi, Gianni Rodari e Loris Malaguzzi (Cfr. Belvedere G. C. e altri, Un’altra scuola è possibile, Enea Edizioni, Milano, 2013).[]
ambiente, capitalismo, Crisi Climatica
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2 Commenti. Nuovo commento

  • Alessandro Vigilante
    12/11/2022 20:08

    Un manifesto esaustivo e condivisibile.
    Sul versante economico finanziario mi pare fondato sugli studi e sulle teorie di Piketty.
    Sul versante pedagogico, oltre alla Montessori, citerei il lavoro di Paulo Freire: solo un educazione dialogica e libertaria può evitare la moltiplicazione di soggetti pronti alla prepotenza o alla sottomissione.

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