Nell’intervento di Franco Russo pubblicato da Transform! Italia la scorsa settimana che prende le mosse dal dibattito aperto dalle relazioni di Pasqualina Napoletano e Roberto Musacchio sul risultato delle elezioni europee, viene posto con nettezza un problema che merita una discussione esplicita.
Russo si pone e ci pone il tema di come agire in un contesto “di disfacimento della classe operaia e dei soggetti sociali oppressi, in mancanza di conflittualità diffusa?” Sulla risposta – scrive ancora Russo – “mi sono diviso da quanti ritengono che i partiti siano la risposta, che invece ritengo di conservazione”.
L’alternativa proposta è quella di “promuovere movimenti sociali, elaborare piattaforme, sostenute da argomenti in grado di formare discorsi pubblici capaci di attrarre consenso e dar vita alla e alle ragioni pubbliche”. Definito questo obbiettivo la scelta è netta: i partiti della sinistra alternativa non sono stati e non sono in grado di farlo. Ne deriva che i collettivi, i comitati, i movimenti territoriali sono oggi “l’unica via per costruire lotte e discorsi politici, mobilitazione e cultura dei valori”.
E qui per me viene il punto fondamentale di dissenso, a costo di passare per “conservatore”. Ritengo anche che nella argomentazione ci siano degli elementi di contraddizione. Quanto si dice che occorre promuovere movimenti, piattaforme ecc, ci si chiede inevitabilmente quali sia il soggetto che debba fare ciò. Non siamo già in una forma di “partito politico”? E se i soggetti sociali oppressi sono “in disfacimento” e manca la “conflittualità diffusa” su quali basi si possono creare “movimenti sociali” e “piattaforme”. Sui quali gambe effettive essi possono camminare?
Altro interrogativo: è possibile formare “discorsi pubblici” senza che questi si fondino su una forza sociale in qualche modo mobilitata e organizzata nel sistema politico?
Se assumiamo la definizione di Max Weber, l’agire dei partiti è rivolto alla “potenza” sociale, cioè ad influenzare un agire di comunità di qualsiasi contenuto. Laddove per “potenza”, Weber indica “la possibilità, che un uomo o una pluralità di uomini possiede, di imporre il proprio volere in un agire di comunità anche contro la resistenza di altri soggetti di questo agire”1. La “potenza”, seguendo Gramsci, si può tradurre in forme di imposizione e in altre di conquista del consenso.
Porre la questione solo in termini di “discorso pubblico” significa, a mio parere, ignorare che i rapporti sociali si traducono, anche se in modo mediato e deformato nella sfera della decisione politica. Quella che si determina nello Stato in tutte le sue articolazioni (leggi, regolamenti, attività amministrativa ma anche costruzione di una egemonia).
I movimenti sociali possono rinunciare a misurarsi con il terreno dello Stato e quindi della rappresentanza politica? In teoria sì e in pratica non c’è dubbio che vi siano stati e vi siano movimenti nati al di fuori dell’azione dei partiti e dello Stato. In parte questi movimenti hanno agito sulla società e sui rapporti sociali diffusi (si può dire quindi sui rapporti di potere non direttamente espressi dallo e nello Stato). Tipico è il movimento femminista. In parte anche il movimento del ’68 nella sua azione di modifica della vita quotidiana. Anche questi movimenti ad un certo punto si sono dovuti incrociare con il terreno della decisione istituzionale: il divorzio o l’aborto, due terreni di riconoscimento del mutamento della struttura sociale patriarcale, non potevano non trasformarsi in leggi.
Altri movimenti si pongono immediatamente sul terreno del conflitto col potere politico e le sue decisioni. Il movimento “Fridays for future” ad esempio che, se non si rincorrono tesi complottiste che hanno avuto cittadinanza anche a sinistra, si può considerare il massimo possibile di un movimento nato spontaneamente e dal basso. Ovvero dall’iniziativa di una sola persona scollegata da qualsiasi forma organizzata precedente. Eppure Greta Thunberg era del tutto consapevole che l’azione di contrasto al cambiamento climatico non poteva restare sul terreno del “discorso pubblico” ma doveva trasformarsi in decisione politica.
Siccome ritengo che i “soggetti sociali oppressi” esistano, benché abbiano mutato forma e composizione soprattutto nella loro capacità di organizzazione, e che quindi un progetto politico di trasformazione sociale sia opportuno e necessario e possa corrispondere all’interesse (materiale e valoriale) di una maggioranza sociale, penso anche che questi soggetti abbiano bisogno di “potenza”. E che questa “potenza” si debba esercitare anche sul terreno della decisione politica.
Vi sono varie obiezioni che si possono avanzare a questa tesi. Intanto si può assumere che in un contesto di “post-democrazia”, ovvero di realtà che mantiene il processo elettorale e rappresentativo ma nella quale molte delle decisioni fondamentali (a partire dall’economia e dagli assetti internazionali) sono sottratte alla sovranità degli organi rappresentativi, una forza politica di trasformazione sociale non abbia alcuna possibilità di produrre cambiamenti reali agendo sul terreno elettorale-istituzionale. Questa mi sembra un’obiezione rilevante, ma va detto che lo stesso problema se non maggiore si trovano di fronte anche i movimenti sociali, i comitati e altre forme di partecipazione extrapartitica la cui capacità di incidere sui rapporti di forza reali si è rivelata spesso modesta.
In questo caso ci si può affidare, mi sembra la strada percorsa da alcune teorizzazioni, all’inaspettato. L’evento che irrompe dal nulla nella storia e lo modifica, spesso definito come “la rivolta”. Il che effettivamente è possibile ma essendo un evento che nasce direttamente dal contesto sociale non ha nemmeno bisogno di un partito politico che la evochi, tanto meno che la prepari, ancora meno che crei le condizioni affinché “la rivolta” produca un nuovo assetto sociale positivo (Gramsci lo traduceva, con una formula che ha le sue ambiguità, in “farsi Stato”). Essa diventa solo uno strumento che determina la paura nelle classi dirigenti e le costringe a modificare le proprie politiche e a renderle meno ingiuste, ad esempio sul piano della distribuzione della ricchezza sociale. Non più un compromesso fra “potenze” in contrasto tra loro com’è stato nella relazione capitale-lavoro nel trentennio del maggiore sviluppo capitalistico, bensì concessione dall’alto per timore del peggio (la ghigliottina che qualcuno ha recentemente evocato).
C’è forse in questa evocazione della “rivolta” qualcosa delle tesi di Walter Benjamin, nel quale si trovano intrecciati marxismo e messianismo ebraico. Il ritorno del Messia (o parlando dal punto di vista ebraico e non cristiano, l’arrivo del Messia) è qualcosa che può accadere in qualsiasi istante della storia. Ciò significa che non è prodotto di un processo storico perseguito da un soggetto cosciente, ma qualcosa che prima o poi accadrà, ma è al di fuori della nostra volontà.
Una seconda obiezione può essere quella che non c’è bisogno, in Italia, in questa fase, di un partito politico della trasformazione sociale perché il sistema politico esistente soddisfa già questa esigenza, per quanto è possibile nel contesto dato. Vi è chi vede la soluzione nel PD della Schlein, che è indubbiamente diverso da quello di Renzi e da quello che sarebbe stato di Bonaccini, oppure in AVS. Lo stesso Fratoianni ha spiegato prima delle elezioni europee che finalmente la sinistra, diciamo così, “radicale”, si era nuovamente unita nelle liste di AVS e quindi non c’era più bisogno di porsi il problema di una sua riunificazione.
Si può rilevare che figure che possono essere considerate rappresentativa di movimenti e realtà extrapartitiche si sono candidate e in parte sono state elette nelle liste del PD e di AVS. C’è chi, come l’ex direttore dell’Avvenire Tarquinio, ha motivato la scelta di presentarsi in un partito che sulla questione della guerra o della NATO sostiene posizioni opposte alle sue, con l’utilità di integrarsi ad un gruppo politico importante che influisce sulle decisioni.
Le scelte compiute da Tarquinio, Cecilia Strada, Mimmo Lucano ed altri si possono considerare l’espressione di due motivazioni. La prima è di passare dalle fila di coloro che pongono esigenze al sistema politico alle fila di coloro che cercano di dare risposta a quelle esigenze dall’interno del sistema politico (è la motivazione formulata da Cecilia Strada). La seconda mossa, se vogliamo chiamarla così, è di utilizzare forze politiche rilevanti o che comunque tendono a garantire l’ingresso nel sistema politico e quindi la grande attenzione a valutare chi può eleggere e chi no.
In questo se vogliamo c’è anche un elemento parassitario nei confronti dei partiti. Il “free rider” che snobba i partiti ma che quando decide di entrare nelle istituzioni ricorre ad un partito che esiste grazie a coloro che il partito non l’hanno snobbato ma tenuto in vita. Anche se in cambio può rivendicare di portare voti aggiuntivi.
Si potrebbe stilare un lungo elenco di questi passaggi da forme organizzative extrapartitiche all’ingresso in partiti possibilmente istituzionali. Ciò significa che movimenti, comitati e così via tendono ad un certo punto a porsi il problema della propria rappresentanza politica (la “potenza” esercitata sul terreno dello Stato). E questo, a me pare, tende a smentire le tesi di chi pensa che queste realtà siano autosufficienti. Il problema è che spesso si tratta di un’integrazione subalterna, anche con le migliori intenzioni, che non modifica i rapporti di forza tra i soggetti sociali.
Affermata la necessità della presenza di un soggetto politico che cerchi di agire anche sul terreno elettorale-istituzionale, si pongono evidentemente tutta una serie di altri problemi.
Vorrei limitarmi a segnalare quello che mi sembra fondamentale non a livello teorico ma nel qui e ora concreto dell’Italia. Prendendo a prestito la teoria di Lipset e Rokkan sul fatto che “i sistemi partitici (cioè l’insieme degli attori partitici e delle loro reciproche interazioni) tendono a riflettere l’evoluzione storica di alcuni conflitti – o fratture (cleavages è la parola inglese) – sociali” (Della Porta, 2012: 41).
In questa interpretazione un partito politico che non sia espressione di un’esigenza contingente oppure sia di fatto una corrente esterna di un’altra formazione politica, va ricollegato ad una qualche frattura sociale rilevante che trova rappresentanza nel sistema politico.
Per questo credo sia necessario definire una linea di frattura esistente e potenziale che giustifichi la necessita di un partito politico di trasformazione sociale. Il cleavage attorno al quale si sono costituiti i partiti del movimento operaio è quello del conflitto capitale/lavoro. La domanda che ci si deve porre è se questa linea di conflitto sia ormai storicamente superata. E può essere superata da due versanti: quello oggettivo e quello soggettivo.
Nel primo caso la contrapposizione novecentesca capitale/lavoro non opera più, sostituita da conflitti di tipo postmaterialista e dalla semplice differenziazione e combinazione di interessi non antagonistici che trovano composizione nel sistema politico. Nel secondo caso la contrapposizione è tutt’ora operante ma non è più percepita come tale dai soggetti sociali che la vivono (quelli che stanno in basso certamente, non da quelli che stanno in alto che continuano ad agirla).
Una parte delle strategie politiche perseguite dalla sinistra di trasformazione in Europa si sono poste su un terreno che in un qualche modo dà per scontato che non sia più rappresentabile politicamente un conflitto capitale/lavoro quale asse centrale della propria identità. Questo ha prodotto almeno due strategie alternative: quella del partito arcobaleno o mosaico (un insieme non gerarchico di conflitti e domande di cambiamento) e quella del populismo di sinistra, che assume un nuovo cleavage, quello tra popolo ed élite in cui diventano rilevanti sia la contrapposizione amico/nemico sia la forma della narrazione come primaria, almeno nel caso di Podemos del primo e forse anche dell’attuale periodo.
Una terza ipotesi strategica che è emersa viene rappresentata dal movimento della Wagenknecht che non cancella il classico conflitto sociale di tipo materialista, ma ritiene che esso vada applicato innanzitutto riportando questo conflitto nella sua dimensione nazionale e ricostituendo il contesto precedente ai processi di globalizzazione (e anche quelli di migrazione della forza-lavoro). Lo chiamerei di comunitarismo sociale anziché ricorrere alla superficiale definizione di rosso-brunismo utilizzata (con intenti denigratori) dal Manifesto e da altri.
Ipotizzando che le diverse strategie vadano valutate sulla base della loro efficacia e dei risultati che ottengono e non sulla base di uno schema ideologico universale pre-esistente, ci si deve chiedere quale frattura sociale manca oggi di una reale rappresentanza politica. Le altre ipotesi sono già state in parte percorse. Il populismo, anche se non propriamente di sinistra ma che in qualche modo ha assunto tematiche di sinistra, è stato sperimentato dai 5 Stelle. Il partito arcobaleno è in larga parte identificabile con AVS ma forse anche l’idea di PD che ha in mente la Schlein (che solo in piccola parte coincide con il PD “realmente esistente”).
La rappresentanza del conflitto capitale/lavoro, inteso non tanto nella forma propriamente novecentesca che aveva al suo centro la classe operaia della grande industria, quanto piuttosto nella visione originaria marx-engelsiana più ampia del conflitto tra i possessori dei mezzi di produzione da un lato e di coloro che per vivere possono solo vendere la propria forza-lavoro dall’altro, resta largamente sottorappresentato o non rappresentato nell’attuale sistema politico.
È una possibilità aperta, avendo anche la consapevolezza che se pure la natura profonda del conflitto è ancora quella individuata da Marx, le modalità e le forme nelle quali può esprimersi politicamente non può che essere profondamente innovata. Non sono utili in questo senso né tentativi di ricostruire il passato ma nemmeno la tabula rasa che suppone l’azzeramento irreversibile di tutta l’esperienza novecentesca fino alla damnatio memoriae. Nella storia si parte sempre dal mezzo, diceva Daniel Bensaid.
Per concludere un già lungo intervento riepilogo le mie tesi essenziali:
1) esistono tutt’ora soggetti sociali oppressi e sfruttati, e questi rappresentano, anche attraverso varie forme di alleanza, una potenziale maggioranza numerica della società.
2) questi soggetti sociali hanno bisogno di diverse forme organizzative e strumenti d’azione (e quindi ben vengano movimento, collettivi, comitati, ecc.) ma hanno anche bisogno di rappresentarsi sul terreno del sistema politico e quindi hanno necessità di uno strumento politico non solo per influire sul “dibattito pubblico” ma anche per acquisire “potenza”.
3) nel contesto italiano dove è assente uno strumento politico con dimensioni di massa soddisfacente a questo fine, tale strumento deve fondarsi principalmente sul conflitto capitale/lavoro senza per questo contrapporlo ad altre richieste politiche che non si pongono immediatamente sullo stesso terreno.
Queste tesi aprono ovviamente molti problemi di forma organizzativa, programma, alleanze politiche, rapporti con i movimenti sociali. Tutte questioni che ovviamente richiedono una dimensione teorica ma ancora di più l’analisi concreta delle esperienze compiute in Italia negli ultimi decenni e delle ragioni che hanno portato ad una crisi profonda e una frammentazione della sinistra di trasformazione. Crisi e frammentazione che (non me ne voglia Fratoianni) a me paiono tutt’altro che risolte.
Franco Ferrari
- D. Della Porta, I partiti politici, 2012, Il Mulino, p. 10.[↩]
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Grazie Franco per la chiarezza in un tema complesso.
Per la mia esperienza tutt’ora nell’associazionismo, condivido.