Per chiedere un “cessate il fuoco” permanente e la fine della troppo lunga occupazione della Palestina da parte di Israele.
Per riconfermare la solidarietà a tutte le donne palestinesi che, nonostante il genocidio in atto, mantengono la capacità di resistere e far sentire al mondo la loro, disperata ma coraggiosa, voce.
Una solidarietà che esprime empatia e vicinanza umana ma che al contempo ribadisce l’importanza di una relazione politica fra donne femministe che hanno ben presente quanto non possano essere guerra e violenze a risolvere i problemi. La guerra semmai, come scriveva Hanna Arendt, ridisegna poteri che certo non promettono nulla di buono per nessuno tantomeno per le donne.
Questo il senso, mi pare, dell’appello femminista (che di seguito riportiamo) frutto di incontri, a livello nazionale, fra numerosi luoghi e case di donne.
Non era scontato che, da questi incontri, sortisse un testo condiviso. Come per la guerra in Ucraina, dopo l’invasione russa, anche sulla trucida reazione del governo israeliano al feroce atto militare di Hamas vi sono state, in una prima fase, posizioni non perfettamente collimanti e voci non sempre concordi, pure in campo femminista.
Eppure siamo riuscite a far valere ciò che unisce piuttosto che ciò che divide. In tempi di frammentazioni e spaesamenti non è poca cosa.
Certamente hanno aiutato le numerose iniziative femministe, e non solo, che in molte città hanno manifestato costantemente contro il genocidio e a fianco del popolo palestinese.
Così come è stato ossigeno pure il diffondersi delle “acampade per la Palestina” che in molte parti del mondo, ed anche in Italia, hanno riattivato un protagonismo studentesco che accende qualche speranza e produce qualche crepa nel mainstream informativo filo-israeliano.
Ed importantissimi sono stati gli appelli delle donne palestinesi che, proprio in ragione dell’essere femministe, invitavano i movimenti delle donne a far sentire la propria voce di denuncia in ogni parte del mondo.
Il testo dell’appello femminista, inoltre, è molto buono. Dice con parole chiare e un ragionare coerente, quello che andava detto. Ed anche in questo caso non vi era nulla di scontato.
Per questo, e per altro, vale la pena leggerlo e diffonderlo.
Con questo fine lo pubblichiamo molto volentieri.
Nicoletta Pirotta
Ciò che ormai da 8 mesi sta avvenendo nei Territori Palestinesi Occupati e a Gaza ci coinvolge direttamente come donne, persone, umanità intera. La cosiddetta «guerra di Gaza» è in realtà parte di un ampio disegno portato avanti ormai da decenni volto a colpire, annientare e assoggettare tutta la popolazione palestinese. Nei Territori Palestinesi Occupati, gli abitanti sono impossibilitati a spostarsi, lavorare, e sono soggetti a continui attacchi da parte dell’esercito e dei coloni israeliani: dal 7 ottobre 2023 i palestinesi imprigionati sono stati più di 9.000 e gli uccisi 550, per non parlare dei feriti.
A GAZA L’«OPERAZIONE SPADE di ferro» ha ucciso (al 18 giugno 2024, secondo il ministero della Sanità di Gaza) 37.372 palestinesi e ne ha feriti 85.452 (non tutti completamente identificati). Ignoto è il numero di coloro che rimangono sotto le macerie. La crudeltà con cui vengono lasciati morire civili inermi in condizioni inumane ci rende testimoni di un crimine aberrante, sostenuto dal silenzio di molti paesi e dalla totale impunità, malgrado le numerose risoluzioni dell’Onu.
Ad oggi i morti a Gaza rappresentano una percentuale della popolazione totale che supera di parecchio quella di tutti i morti italiani civili e militari nel corso della seconda guerra mondiale (Roma, Istituto centrale di Statistica, 1957). UN Women, cioè l’organizzazione delle Nazione Unite che si occupa dell’uguaglianza di genere e dell’empowerment delle donne, già nel gennaio 2024 stimava che fino ad allora circa 10.000 donne di Gaza fossero state uccise lasciando 19.000 bambini orfani e che circa 540.000 donne e ragazze di Gaza in età riproduttiva non avessero la possibilità di accedere all’acqua e a ciò che è necessario per soddisfare i loro bisogni di igiene, salute e dignità.
Gaza ora è distrutta e devastata. Già 6 giorni dopo l’inizio dell’«Operazione», la quantità di bombe israeliane sganciate superava quella lanciata in un anno dagli Usa in Afghanistan (fonte: Idf, esercito israeliano). Tutta la zona è stata trasformata in un gigantesco cimitero e in un campo minato oggettivamente inabitabile per i prossimi decenni, a dispetto del fatto che gran parte della popolazione non intende andarsene.
L’AZIONE DI ISRAELE nella realtà dei fatti non è quella di «rispondere all’attacco di Hamas» del 7 ottobre 2023, ma quella di disfarsi una volta per tutte della popolazione palestinese, riducendo in uno stato di totale soggezione coloro che non potranno fuggire. Questa opera di distruzione e annientamento è completata dall’accanimento con cui Israele si è adoperato per distruggere tutte le infrastrutture civili a Gaza (ospedali, scuole, università) e ogni possibile testimonianza della cultura e della civiltà palestinese in Cisgiordania e a Gaza (monumenti, cimiteri, luoghi di culto, luoghi di incontro).
A noi pare evidente che – al di là delle macabre controversie, recentemente registrate a livello internazionale, sulle cifre esatte dei morti comunicati dal ministero della Sanità di Gaza (e ritenute comunque affidabili da tutti gli esperti) – l’enorme numero di donne e di bambini uccisi a Gaza nei fatti sradica ogni possibilità di vita futura per la popolazione palestinese.
In quanto donne che negli scorsi anni e durante la pandemia ci siamo battute per rimettere al centro della nostra società la “cura” (affidata alle donne per millenni) come fondamento delle relazioni e del nostro vivere, non possiamo restare indifferenti di fronte a questa “prova generale” di disumanità e di cancellazione di ogni speranza.
In quanto donne femministe sentiamo il bisogno di fare nostro il grido delle donne palestinesi, che ci ricordano che «le donne palestinesi lottano da decenni contro l’intersezione delle oppressioni nazionali, sociali ed economiche, mettendo in luce l’intrinseco nucleo patriarcale del regime di oppressione di Israele» e che ci esortano a «intensificare le campagne di pressione Bds contro l’apartheid israeliana e a fare contemporaneamente pressione sui vostri governi».
COME FEMMINISTE che abitano in vari modi i luoghi delle donne vogliamo ribadire la nostra forte opposizione alle guerre che riteniamo essere la forma più estrema della violenza della società patriarcale. Vogliamo ribadire il nostro posizionamento. Sappiamo, infatti, che il femminismo può essere usato in chiave “coloniale” e razzista, giustificando invasioni e occupazioni, politiche di esclusione contro i migranti, e dipingendo le donne – e le donne palestinesi in particolare – solo come vittime bisognose di protezione.
Noi sappiamo, invece, che le donne palestinesi sono in prima fila per lottare per la loro liberazione e contemporaneamente stanno lavorando per tenere unita la loro comunità di fronte agli orrori: le mediche, le infermiere e le altre operatrici sanitarie che salvano vite o danno conforto ai moribondi nella Striscia di Gaza; le insegnanti e le attiviste che organizzano lezioni e giochi per i bambini palestinesi nei rifugi, le donne che lavorano come giornaliste, riportando e documentando la violenza contro il – e la forza del – loro popolo.
SOSTENIAMO LA LORO LOTTA, consapevoli che l’uguaglianza di genere non può prosperare in un mondo afflitto da violenza e ingiustizia, dove il militarismo e i sistemi patriarcali si intrecciano per perpetuare l’oppressione.
Come femministe, è fondamentale riconoscere l’interconnessione di tutte le lotte per la giustizia e costruire solidarietà. Mentre sosteniamo un cessate il fuoco permanente, e la fine dell’occupazione della Palestina, dobbiamo anche amplificare instancabilmente le voci di tutte le donne palestinesi, assicurando che i loro diritti siano riconosciuti e rispettati, compreso il loro diritto fondamentale all’autodeterminazione.
*** Luoghi delle donne in Italia per la Palestina – Coordinamento delle Case delle donne di diverse città italiane