Torino, Milano, Gradisca D’Isonzo (Gorizia), Roma, Bari, Brindisi, Palazzo San Gervaso (Potenza), Caltanissetta, Trapani, città unite dall’avere, all’interno del proprio territorio, un Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) gli ex Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) di Maroni e prima ancora i Centri di Permanenza Temporanea (CPT) di Napolitano. Negli anni passati di questi luoghi, veri e propri centri di detenzione per migranti che, nonostante un decreto di espulsione, non avevano lasciato il territorio nazionale, si parlava molto. Se ne contestava radicalmente l’esistenza – partendo dal fatto che privare per un reato amministrativo le persone della libertà personale è un arbitrio –, se ne condannavano le condizioni di vita o meglio di non vita per coloro che vi erano trattenuti, chiamati ancora oggi, in termine quasi beffardo, “ospiti”. Presenti con modalità difformi in gran parte dei paesi Schengen, in Italia la loro persistenza è stata caratterizzata da morti per varie ragioni – almeno una trentina – atti di autolesionismo terribili, quale quello di cucirsi la bocca o di ingoiare lamette, rivolte con conseguenti pestaggi operati dagli agenti delle forze dell’ordine che vigilano sull’impossibilità che gli ospiti escano. E tante altre vicende, tragedie grandi e piccole, che dal 1998 ad oggi hanno caratterizzato contesti territorialmente diversi ma complessivamente micidiali. Alcuni centri hanno aperto da poco, come quello di Macomer, nel nuorese, altri sono stati chiusi, riaperti, richiusi, in seguito a quanto si verificava nelle strutture. La storia della detenzione amministrativa per migranti in Italia meriterebbe di essere scritta e raccontata in maniera complessiva e ci vorrebbero volumi interi per aiutare a comprendere la gravità di quanto si è perpetrato nel Paese indipendentemente dal colore dei governi che ne hanno attraversato le vicende. Nei primi anni un nutrito gruppo di parlamentari, soprattutto di Rifondazione Comunista, effettuava ispezioni continue, denunciava enti gestori e prefetti, sostenuti anche da un movimento non vastissimo ma articolato, antirazzista e contrario a tali distorsioni del diritto. Poi lentamente anche la detenzione per persone colpevoli solo di essere al mondo con un documento sbagliato, è stata accettata e per certi versi silenziata. Un percorso di rimozione collettiva che non ha riguardato soltanto la politica ma – e per certi versi – soprattutto, il mondo dell’informazione. Ma anche lì il segnale era giunto 10 anni fa quando con una circolare ministeriale l’allora titolare del Viminale Roberto Maroni, proibì ai giornalisti di entrare nei centri e ridusse gli spazi di agibilità per organizzazioni umanitarie, attivisti, financo ricercatori. La ragione? Le visite causavano rivolte e mettevano a rischio la “sicurezza” degli allora CIE, come se non fossero le nefande condizioni di trattenimento, il terrore e il rifiuto del rimpatrio, l’arbitrio con cui semplici giudici di pace, titolati al massimo a risolvere controversie familiari, potevano decidere sulla vita delle persone di cui si doveva convalidare il trattenimento e garantire una espulsione. Un’espulsione spesso impraticabile per infinite ragioni legate alle relazioni con le ambasciate dei Paesi di provenienza, all’assenza di vettori per il rimpatrio, a mille altri ostacoli che si frapponevano anche alla stessa “ragione sociale” dei centri. Mai si è riusciti a rimandare a casa più del 50% dei trattenuti e delle trattenute, con costi per la collettività – anche di questo bisognerebbe parlare – totalmente immotivati e guadagni enormi per gli enti gestori a cui venivano affidati i servizi da garantire nei suddetti centri. Durante gli anni cambiavano in continuazione i tempi massimi di trattenimento, che hanno oscillato fra i 30 giorni del primo periodo per poi raggiungere i 18 mesi, tornare a 180 giorni con Minniti e Salvini per arrivare all’oggi quando si passa dai 90 ai 120 giorni. Coloro che riuscivano ad uscire senza essere espulsi finivano e finiscono tutt’ora in un assurdo limbo giuridico. Non possono essere regolarizzati né rimpatriati, ad ogni fermo di polizia rischiano di essere ricondotti in un centro e ripendere una trafila che prima o poi li porterà fuori, sempre nello stesso limbo.
Quando nel 2011 entrò in vigore il divieto di ingresso ai giornalisti, alcuni di loro, insieme ad attiviste/i antirazzisti e con il sostegno della Fnsi, diedero vita alla Campagna “LasciateCIEntrare” che iniziò una dura lotta per riottenere un semplice spazio di libertà di informazione. Con la caduta del governo, la successiva ministra dell’Interno, Cancellieri, sospese l’effetto della circolare ma di fatto poco cambiò. I divieti restarono, seppur camuffati. L’ingresso infatti veniva consentito, previo ampio preavviso, unicamente in base alla discrezionalità di prefetture e ministero e poteva essere bloccato anche all’ultimo momento per cause di forza maggiore (problemi interni al centro, carenza di organico ecc.). Chi vieta l’accesso non è tenuto a dare alcuna spiegazione. Ad alcune/i attivisti è di fatto da anni l’accesso ad ogni centro – viene da pensare che la loro presenza è considerata ostile e indesiderata –, i pochi parlamentari che fanno richiesta di accesso (il mandato ispettivo di cui sono titolari consentirebbe loro di entrare senza dover fare alcuna richiesta) teoricamente possono chiedere di essere accompagnati da un proprio collaboratore. Alcune prefetture si premurano addirittura di verificare se il collaboratore designato risulti o meno fra coloro che fanno ufficialmente parte dello staff del parlamentare. Una solerzia sospetta e a dir poco invasiva. Per quale ragione ad un rappresentante delle istituzioni non è consentito avvalersi di una propria consulenza volontaria per esercitare al meglio le sue funzioni? Misteri del Viminale, del resto per tale dicastero ogni riferimento, diretto o indiretto a quanto accade nei CPR è considerato irriguardoso al punto che, almeno dal 2009 non è pervenuta alcuna risposta alle interrogazioni parlamentari giunte, soprattutto in seguito a fatti gravi avvenuti nei diversi centri.
Ma è stata per molto tempo anche la politica a rimuovere dal proprio orizzonte la critica alla detenzione amministrativa, ritenuta più o meno un male necessario. Nelle due ultime legislature, comprendendo quella attuale, gran parte dei deputati e dei senatori ha praticamente ignorato la questione. Vuoi l’attenzione puntata unicamente sugli sbarchi, vuoi il fatto che una parte dei centri erano stati chiusi o ridimensionati al punto che oggi sono poche centinaia le persone trattenute, il tema è sparito dal dibattito istituzionale. Ma prima ancora è sparito anche tanto dal mondo dell’informazione e dall’attività degli stessi movimenti che ne contestavano l’esistenza. Poche/i e concentrati soprattutto nelle città che hanno il “privilegio” di ospitare un CPR, coloro che continuano a creare mobilitazione e a svolgere lavoro di controinformazione. Qualcosa è cominciato a cambiare – ma è presto per valutarne l’entità – dal momento in cui si è avuta conferma che avrebbe riaperto il famigerato Centro situato in Via Corelli, a Milano. Si è creata una rete “No lager, No ai CPR” che ha visto coinvolti forze politiche, associazioni, centri sociali, persone presenti a titolo individuale. Il CPR malgrado proteste e manifestazioni riuscite ha aperto i battenti ma la rete è rimasta attiva, ampliando le relazioni con chi, nel resto del Paese, continuava l’opera di denuncia e di critica radicale a tale sistema. Attività simili, seppur con dimensioni ridotte, hanno preso piede in Sicilia, Piemonte e Friuli Venezia Giulia, mentre resta attivo anche sul questo tema l’Osservatorio Migranti Basilicata.
Ma per entrare nei centri – ai cui “ospiti” vengono spesso anche sequestrati i telefonini e impedita la comunicazione con l’esterno – bisogna ancora affidarsi alla disponibilità dei pochi parlamentari attivi sul tema o ai Garanti per i detenuti, gli unici ad avere margini di accesso e di informazioni. La pandemia ha avuto in questo contesto un effetto devastante. Numerosi i contagi nei centri – dove spesso è impossibile rispettare il distanziamento e, soprattutto all’inizio, non venivano garantite mascherine e gel disinfettante, impossibilità di visita ad avvocati e parenti per il timore di contagio, realizzazione di reparti di isolamento all’interno delle strutture. Il buon senso avrebbe voluto che in tale contesto i centri venissero almeno temporaneamente chiusi e che non si continuasse a fermare persone prive di documenti per portarli in tali strutture. Una raccomandazione in tal senso veniva data dalla Commissaria europea Dunja Mijatović, ma ovviamente non veniva raccolta. Si è ridotto per alcuni mesi il numero delle persone che venivano prese per essere trattenute ma nel frattempo si sono aperti i centri di Macomer e di Milano, di cui si accennava prima e si sono verificate alcune morti a Torino, Bari e Gradisca D’Isonzo. Fra maggio e giugno scorso, soprattutto per iniziativa del senatore Gregorio De Falco, si sono effettuate ispezioni a Roma e Milano mentre le deputate Doriana Sarli e Yana Ehm si sono poi recate a Torino e a Macomer. L’ingresso a Milano del 5 e 6 giugno in cui De Falco è potuto entrare avvalendosi di due consulenti, ha portato alla realizzazione di un dossier di 90 pagine “Delle pene senza delitti”, realizzato grazie alla rete No lager, No ai Cpr, estremamente rigoroso.
La testata Pressenza ha lanciato un mese fa un appello per chiedere che nello stesso giorno un numero nutrito di persone che operano nel mondo dell’informazione possa avere accesso ai CPR. La data proposta è il 15 settembre. La settimana precedente, il 7 settembre, si terrà presso la Sala stampa della Camera a Roma una conferenza stampa che sarà trasmessa in streaming, in cui verrà presentato il dossier su Milano, si darà conto delle risposte date dalle prefetture alle richieste di accesso e si informerà anche dei vari episodi in cui è stato impedito a persone considerate “scomode” di entrare.
Al di là del fatto che per chi scrive e per gran parte di coloro che hanno avuto a che fare con le strutture atte alla detenzione amministrativa, non esiste riformabilità o miglioramento delle condizioni di vita in tali centri, per cui questa forma di privazione della libertà personale in assenza di reato andrebbe abolita, c’è un elemento su cui vale la pena di riflettere. Per quale ragione c’è tanto bisogno di rendere tali luoghi invisibili al mondo esterno? Viene da pensare che qualcosa vada tenuto nascosto alla pubblica opinione, che tali centri determinino condizioni di vita su cui è meglio che solo il ministero dell’Interno possa avere voce in capitolo. Un aspetto buio della vita democratica su cui però sono ancora in poche e pochi a voler alzare la voce.