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Venti anni dopo

di Roberto
Musacchio
Ho chiesto di ripubblicare questo testo sulla Storia di Rifondazione che è uscito sul numero 45 di Alternative per il socialismo di luglio-agosto 2017.
Era un pezzo ragionato che feci discutendone anche con Graziella Mascia e Patrizia Sentinelli. Avevamo l’idea che riflettere sulla nostra Storia fosse utile al futuro. Rileggendolo mi è parso ancora utile. E mi fa piacere riproporlo nell’anno del trentennio del Prc.
Naturalmente ci sono aggiornamenti sulle cose intercorse ma non mi sembra tolgano validità. Il primo aggiornamento personale è che mi sono reiscritto al Prc e leggendo questo testo si poteva anche prevederlo. I fatti intercorsi li ho/abbiamo trattati su Transform e si trovano facilmente.

“Con 313 no e 312 si la Camera nega la fiducia”. Era il 9 ottobre del 1998 e, per la prima volta nella storia della Repubblica, un governo cadeva per una sfiducia in aula. L’appoggio esterno dato fin li da Rifondazione Comunista era stato ritirato e, nonostante la spaccatura del gruppo parlamentare, preludio a quella del partito, a Prodi mancarono i voti per continuare la propria esperienza. Gli succederà, dopo che fu messa da parte l’idea di nuove elezioni, il governo D’Alema, sostenuto da Cossiga. Era anche la prima volta che si consumava una rottura a sinistra tale da far saltare un governo. Non che la storia delle sinistre italiane, storiche e nuove, non fosse piena di rotture politiche e, addirittura, di campo. Ma un voto contrario, in aula, sulla fiducia ad un governo “proprio” e, per giunta, in una epoca in cui si era avviata la cosiddetta seconda Repubblica del maggioritario con “avversario” il “nemico numero uno”, Berlusconi, rappresentava un vero e proprio “scandalo”. La campagna contro Rifondazione, e il suo leader Bertinotti, fu violentissima e ancora oggi basta leggere i post sotto qualche scritto dell’ex segretario per averne l’eco.

È il 26 gennaio del 2015 quando Tsipras diventa Presidente del Consiglio di una Grecia martoriata dalla Troika, attraversata da grandi movimenti, al termine di una campagna elettorale di rottura con il vecchio ordine politico e in primo luogo con il Pasok, il partito socialista ellenico, considerato responsabile come i conservatori di Nuova Democrazia della devastazione del Paese. Alleanze col Pasok sono escluse per esplicita scelta politica di Syriza e risulterebbero improponibili di fronte al popolo greco.

23 aprile 2017, si vota al primo turno delle elezioni presidenziali francesi. Melenchon, leader della “France ensoumise” e appoggiato dal Pcf, raggiunge il 19,5%, un risultato enorme frutto di una grande partecipazione popolare. Ha fatto una campagna elettorale travolgente e tutta all’attacco. Non si è mai fermato di fronte agli appelli alla unità “a tavolino” con il socialista Hamon che pure aveva vinto da sinistra le primarie del suo partito con un programma per altro interessante. Troppe sono le responsabilità di Hollande e del Psf per rendere credibile la proposta di Hamon Che infatti viene nettamente sconfitto con il 6,4% del voto. Paradossalmente il leitmotive  del voto utile sempre usato contro la sinistra stavolta condannerebbe proprio i socialisti e Hamon che avrebbero potuto rinunciare in favore di Melenchon. Al ballottaggio si ripresenta il dibattito del “votare o no il meno peggio”. La natura di Le Pen dovrebbe “facilitare” ma la realtà si presenta più complicata. Macron diventa presidente ma con una partecipazione al voto assai bassa e tante schede bianche e nulle. Si vede che la situazione parla di una crisi totale del vecchio sistema politico, di una costruzione neocentrista e trasversale intorno a Macron con programmi in continuità con la cattiva politica di questi anni e su cui vorrebbero affrettarsi ad imbarcarsi i vecchi ceti politici e che si vedrà se sarà solida (e colpisce che neocentrismo e trasformismo siano addirittura favoriti da quel maggioritario per collegi uninominali  da sempre, e ancora adesso, spacciato in Italia come sistema “anti inciuci” e che invece si conferma un sistema per escludere le vere alternative). E poi una destra “nuova” rispetto al passato. E un grande spazio di sinistra che può essere l’alternativa per il suo voto popolare e giovane ma che vive immediatamente e conflittualmente il problema del suo definirsi, della sua rifondazione.

Devo ora spiegare però il perché e il cosa è di questo articolo. Articolo sui generis che per questo richiede qualche avvertenza di lettura. Diciamo che chi scrive si sente molto legato alla esperienza di quella che chiamo in sintesi “la Rifondazione Comunista di Bertinotti” e che, continuando a fare politica in modi “irregolari” (nella esperienza dell’Altra Europa con Tsipras, da iscritto individuale al Partito della Sinistra Europea ma anche da operatore della associazione Altramente che aiuta la scuola pubblica lavorando con i ragazzi in una situazione multietnica) si chiede spesso di cosa sia ancora utile di quella esperienza (anche perché gli sembra di continuare ad usarne i materiali), ma anche si interroga del perché non si sia realizzata una continuità. Anzi, il contrario, visto che l’Italia è uno dei Paesi d’Europa che vive una crisi più acuta di ciò che chiamo sinistra sapendo però che anche il termine è da sottoporre al vaglio. Devo avvertire in aggiunta che questo non sarà un articolo storiografico ma si baserà su ricordi e riflessioni personali. E non vorrà invadere il campo di chi legittimamente continua l’esperienza del Prc che ha per altro il mio affetto così come di altre esperienze che vengono da quella storia. Insomma, parto da me.

E dalla Europa. Perché questo è lo scenario che mi appassiona e ritengo abbia segnato, e segni, la nostra realtà  di questi ultimi 20 anni. Ho cominciato dalla rottura col governo Prodi che avvenne non a caso sullo sfondo dell’accellerarsi del processo di costruzione della “Europa reale”, quella di Maastricht ancor prima che dell’euro e che arriva oggi al Fiscal Compact. La caduta di Prodi avviene sul tema della “svolta o rottura” (cioè la richiesta di un vero cambiamento o la dichiarazione di una separazione inevitabile) e con un Prc che è contrario a Maastricht (trattato liberista incompatibile con una Europa sociale) ma non alla moneta unica e che cerca di incidere in quell’avvio di una fase che porterà agli esiti attuali tentando di modificarne  il corso. Ma quanti “vedevano” allora come Maastricht ci avrebbe portato alla attuale situazione che è poi quella della crisi drammatica in cui versa l’Europa? Certo se pure qualcuno c’era, nel mondo politico e in quello dei mass media, non si manifestò se non per incitare alla gogna per il “gesto sciagurato”: la caduta di Prodi. In un Paese dai tanti e gravissimi rimossi, questo rimane tale e i molti che oggi si strappano le vesti per la brutta piega che ha preso l’ Europa, sono ancora li a scrivere post sulla caduta del “migliore dei governi possibili” (come avrebbe ironizzato il filosofo).

Ne traggo la prima considerazione che spesso mi faccio. Noi, la Rifondazione di Bertinotti, fummo sconfitti da un processo storico che avevamo visto nelle sue linee di fondo ma che non riuscimmo ad invertire. E fummo i primi a cimentarsi con tutto ciò in Europa e a farlo avendo abbastanza forza da non poter eludere la domanda di efficacia ma non abbastanza da essere in grado di cambiare il corso degli eventi. Si può ricordare che ci fu anche l’esperienza del governo Jospin in Francia, cui infatti ci si appoggiò per la campagna sulle 35 ore. Ma a me pare che quella esperienza fosse ancora inscrivibile nella vecchia fase, con un Partito socialista tradizionalmente velleitario e un Partito comunista tradizionalmente subalterno. E un Paese, la Francia, con capacità storiche diverse nel processo europeo in corso.

In Italia inizia la “storia nuova”. Non a caso si era sciolto il Pci e si era avviato quel percorso che porterà al PD di Renzi. Percorso non lineare ma certo conseguenziale. Che non fosse lineare lo si vede anche dai tentativi di invertire la rotta come, appunto, quella richiesta di svolta o rottura che avanzammo  a Prodi. Che fosse conseguenziale è dimostrato proprio dalla inefficacia di questi tentativi. Il tema per altro non è banale visto il ripetersi di “prese di coscienza” della natura del processo che portano a successivi distacchi dopo quello iniziale di Rifondazione Comunista, fino agli attuali. È mia convinzione che solo la rottura originaria aveva la forza e la consapevolezza necessarie a provare a stare in campo sapendo di andare controcorrente ma anche comprendendo il senso di marcia della corrente stessa.

Il modo in cui, sia pure con tantissimi problemi, la Rifondazione Comunista fiuta l’aria nuova della globalizzazione e si rapporta ai nuovi conflitti è abbastanza straordinario. Naturalmente si dispiegherà coll’adesione al movimento dei movimenti ma una capacità di critica delle “occhettiane magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione sta già nelle origini. Non a caso la rottura originaria della Rifondazione Comunista è quella in cui c’è ancora corrispondenza tra la rottura dei corpi politici e di quelli di appartenenza sociale ed elettorale. Percentuali più basse di rottura tra i gruppi dirigenti ma sostanzialmente simili tra gli iscritti e gli elettori. Nessuna scissione seguente fu così. E nessuna scissione seguente ha guardato alla storia, e al futuro, con sguardi lunghi.

La Rifondazione di Bertinotti, a guardare alla storia ed al futuro si dedica anima e corpo. Dallo stalinismo alla globalizzazione, dalle foibe alla non violenza, dalla doppiezza al “sia si il tuo si e no il tuo no”. Al “i passeri con i passeri e i merli con i merli”,  per ricordare alcuni temi ed alcune metafore che furono usate.

E torno alla rottura con Prodi che era la violazione di un tabù. Quando poi i totem cadono i tabù si possono rimuovere, anche dalla memoria. Ma tra la violenza inaudita che si abbatteva su Rifondazione in quel 1998 e Tsipras che straccia il Pasok e Melenchon che irride il Psf passano questi venti anni. Ciò che allora era scandalo, oggi è quasi “normalità “. Anche perché il complesso delle forze del socialismo europeo si sono sempre più andate trasformando nella globalizzazione e nella costruzione dell’Europa reale divenendo corresponsabili in modo esplicito e diretto della rivoluzione conservatri. E si può oggi dire che il socialismo europeo segue  diverse parabole. Quella del collasso politico, come in Grecia e, probabilmente, ora in Francia. Quella di una totale modifica di senso come in Italia o con Macron in Francia (che come Renzi non nasce certo dal nulla). Quella di una integrazione in blocchi neocentristi di governance dello status quo come in Francia ma anche nella stessa Germania se rimarrà la Grande Coalizione. Con qualche tentativo di cercare strade nuove come con Corbyn o in Portogallo.

Ma una violenza inaudita si è abbattuta anche su Tsipras. Non tanto per aver stracciato il Pasok ma per quel che vuole fare il suo governo. Ciò che è stato fatto contro il governo di Syriza e il suo leader è assai più estremo. Oltre abbiamo i colpi di Stato di Pinochet. A dire che il vero macigno di questi venti anni è ancora tutto qui, che ci schiaccia. È il macigno dell’Europa reale che da Maastricht arriva alla austerità, alla Troika, al Fiscal Compact, all’assalto alle Costituzioni. E questo macigno precipita da una montagna che si chiama globalizzazione capitalistica, finanziarizzazione e rottura col compromesso sociale democratico. Rifondazione Comunista aveva visto entrambi, il macigno e la montagna. E provava a forgiare la cassetta degli attrezzi per stare nella fase nuova.

Capimmo che la rottura del compromesso operata dall’avversario storico impediva vecchie doppiezze, vecchie logiche di scambio e cambiava l’ordine dei fattori. Tu puoi gestire politicamente un compromesso politico quando esso prevede un effettivo compromesso anche sul terreno sociale. Ma quando lo scambio che ti viene proposto, ma in realtà imposto, è tra uno straccio di riconoscimento politico e, comunque, un peggioramento sociale, forse appena meno rovinoso, devi cambiare del tutto il tuo modo di far fronte alla realtà. Capirlo è  importante ma non ti da la bacchetta magica. Provammo per questo a ricostruire nuove cassette degli attrezzi. Furono  il movimento altermondialista da un verso e il Partito della Sinistra Europea da un altro a cui provammo ad attingere.

In particolare il Partito della Sinistra Europea fu proprio una nuova cassetta che attrezzammo. Nacque non a caso a Roma, in una collaborazione molto stretta con l’allora Pds tedesca, un’altra realtà che faceva i conti, col proprio percorso, con l’era nuova, la nuova Germania, la nuova socialdemocrazia e le forze che da essa fuoriuscivano e che avrebbero portato alla Linke. Proprio la Germania andrà al voto in autunno ed è tutto da vedere l’assetto che prenderanno le relazioni politiche e sociali anche a sinistra in quel Paese, anche se le disfatte della Spd, che ha candidato Schulz, nei voti dei land che precedono quello generale di settembre già ci dicono che le contraddizioni e la non credibilità della stessa Spd lasciano spazio a Merkel per vincere ancora e scegliere magari il nuovo forno liberale e magari verde.

Di certo il Partito della Sinistra Europea è una costruzione di quella epoca di cui tratto in questo articolo che non è franata, anzi. Non si può dire che sia diventata egemone e capace di dar corso ad un nuovo movimento operaio (altra espressione che si conio’ per intendere una soggettività a funzione storica ma profondamente innovata) ma certo sta in campo e tiene insieme opzioni anche diverse ma che non si sono elise l’un l’altra. Da Tsipras a Melenchon, passando per la Linke e cominciando ad addentrarsi nelle realtà dell’Est. E il Gue, il gruppo del Parlamento Europeo, arricchisce il ventaglio con le presenze di Podemos, degli Irlandesi e dei Nordici.

Il fatto di aver contribuito così tanto alla loro esistenza fa si che in queste realtà europee ci si chieda spesso di cosa succede agli italiani, riconoscendo per altro di avere anche “imparato” da noi ad affrontare il mondo nuovo. Si pensi, oltre alle questioni della globalizzazione e dell’Europa di cui ho parlato, al rapporto con i movimenti ed alla nuova gerarchia tra politico e sociale che ancora è faticosa per molti. Quando mi chiedono dei problemi che abbiamo da noi oggi mi sforzo di capire innanzitutto io per poter rispondere e qui è anche il senso di questo articolo.

La cosa che mi viene da dire di più, come già accennavo all’inizio, è che innanzitutto siamo stati sconfitti. Intendiamoci, non voglio essere assolutorio. Errori ne abbiamo fatti tanti e ne vado a parlare. Ma la prima cosa che sento è la sconfitta in una battaglia, che era in realtà una guerra per un mondo nuovo che per loro, gli avversari, era ed è senza la sinistra. Cioè senza alternative possibili o addirittura pensabili. È con questo sentimento che seguo anche la lotta di Tsipras e del suo governo. Ne vedo tutti i problemi, ma resto con lui. Non per sola solidarietà ma perché mi chiedo cosa sto facendo io per lui e cioè cosa stiamo facendo noi per noi. Perché io penso che questa guerra sia europea e che la nostra lotta debba essere quella per la liberazione dell’Europa e che noi non riusciamo a farla perché quel nuovo movimento operaio di cui abbiamo parlato non c’è ancora e il vecchio movimento operaio nato con l’internazionalismo rischia di morire nella globalizzazione.

Ma questo sentire non mi fa ombra alla complessità dei temi. Il governo. La globalizzazione e la sua nuova versione neo nazionalistica. La guerra che definimmo permanente e che oggi Papa Francesco chiama guerra mondiale a puntate. La rottura tra politica e società. I nuovi dire sulla sovranità e il populismo. La nuova dimensione del soggetto politico. La nuova natura dei socialisti europei. Soprattutto la sofferenza di una società cui viene imposta l’impossibilità del cambiamento e addirittura del potersi riconoscere come soggetto in carne ed ossa e con valenza storica. Su ciascuno di essi possiamo cercare errori e problemi.

Prendiamo il tema del governo. Fondamentale? Certo. Esaustivo? Continuo a credere di no. Certo mi colpisce ancora oggi come, trovandoci ad affrontarlo per primi nel nuovo quadro, ne abbiamo quasi rimosso la discussione concreta, già allora nel suo svolgersi e ancora di più dopo che l’esperienza si concluse. Eppure fu un momento che segnò una nostra caduta radicale, una vera rottura col nostro popolo e le nostre ragioni. Possiamo semplicemente concludere che fosse un terreno improponibile e da esorcizzare? Richiamo alla memoria come ci arrivammo e cioè dopo gli anni di Berlusconi seguiti alla fine del governo D’Alema. E dopo gli anni in cui si manifesta una nuova fase del movimento dei movimenti che vive a Genova un punto altissimo e drammatico.

C’erano le forze per provare a imporre quel cambiamento che non si era avuto ai tempi del primo Prodi? Oppure le cose erano andate così avanti nella edificazione dell’Europa reale da far considerare un mero azzardo il cimentarsi con un terreno divenuto impraticabile come il governo? Ho detto che sento troppa rimozione per considerare adeguate le risposte che sono state date e che, peraltro sono assai divaricate e divaricanti. Di certo non pensavamo di consegnarci ma mantenevamo un punto di vista altro che sentivamo sostenuto da un movimento che pensavamo forte. Naturalmente vale qui l’accusa che ci viene mossa di aver piegato quel movimento ad una sfida, quella del governo, che non gli apparteneva e che lo ha snaturato.

Ma vale anche riflettere su come la cacciata dal governo non ha ridato al movimento, ma neanche alla sinistra in Italia, la sua forza e la sua ragion d’essere. Come non ha ritrovato ragion d’essere chi, venendo da quel percorso, ha al contrario riproposto la centralità del governo rispetto alla politica pensando di risolvere il tema della forza necessaria con la categoria del campo largo e cioè quello del centrosinistra che ha finito con il far venir meno la ricerca sulla sinistra, e sulle ragioni stesse della sua sconfitta, di fatto amplificandola Questione che continua a compromettere una vera ripartenza della alternativa in Italia.

Ribadisco che il nesso movimento/sfida del governo che risultò rovinoso aveva però una sua valenza. Porre l’accento sul cambiamento e sul sociale piuttosto che sullo strumento governo. Parlammo infatti di governo debole e movimento forte. E pensavamo che il farsi della società che era in potenza nel movimento potesse colmare il gap. Non era così, ma qualche barlume di domanda c’era. Fummo inadeguati, nella lettura dei fatti, nelle scelte, financo nei comportamenti, di gruppo e persino individuali. Ma non del tutto ignari. Forse per questo addirittura più colpevoli. Ma nonostante ciò, forse, ancora utili a dare materiali. Nelle cose che ho ricordato, dalla critica dello stalinismo alla ricerca di come stare nell’era della globalizzazione, ci sono questi materiali. Anche perché i nodi restano irrisolti.

Il tema governo, che fu per noi drammatico, si è riproposto ancora più drammaticamente nella esperienza greca. C’è chi prova a dare nuove risposte sul terreno di una nuova dimensione statuale da riconquistare come disarticolazione dell’Europa reale e deglobalizzazione. E c’è chi intreccia ciò con una riproposizione della sovranità come espressione della riacquisizione da parte dei popoli di ciò che è stato loro sottratto. E si fa ricorso al populismo come nuovo cemento di fronte allo sgretolarsi delle costruzioni storiche. E c’è chi lo pensa del tutto impraticabile, inutile e devastante ritenendo che solo il vivere di una società altra, dal basso, potrà, rovesciando l’alto, risolvere il problema governo sciogliendone il senso come si scioglie un nodo.

Accenno qui solo ad alcune risposte a domande che sento ancora inevase. E torno a ripercorrere la ricerca dei nostri materiali. Appunto, la centralità del movimento, anzi dei movimenti, come chiave della primazia del fare società rispetto alla conquista del potere. Su questo provammo almeno a ricercare e a lavorare. Sia sullo scompaginamento operato dalla globalizzazionne sugli assetti del capitalismo e sulla necessità dunque di reinventare un “nuovo movimento operaio” che si fondi su una visione plurale e sessuata dei soggetti, sulla loro consapevolezza di specie e sulla loro capacità di vivere il locale e il globale. Reddito di cittadinanza, libertà  del soggetto migrante, ripensamento di genere ed ambientale furono terreni concreti di lavoro.

Così come la nonviolenza fu la risposta che cercammo di dare alla guerra permanente della nuova dimensione imperiale. E che scavo’ nelle nostre viscere. Ricordo le discussioni sulla nonviolenza che attraversarono il movimento o quelle sulle foibe che impegnarono  anche le mie notti friulane mentre ero candidato al Parlamento Europeo per quel territorio

Rifondazione si provò sul serio a misurarsi con tutto ciò. Ma non fummo comunque all’altezza. Perché? Torno ancora sul concetto di sconfitta. D’altronde fondamentale per riflettere sul futuro. Uso un linguaggio antico, dei classici: la situazione non era matura.

Non era matura l’Italia, Paese complesso, intreccio di arretratezza e modernità, particolarmente attraversato dai mali ben descritti da Gramsci come il trasformismo ed il sovversivismo dall’alto delle classi dirigenti. Paese chiave nell’edificazione dell’Europa reale ma non abbastanza forte da poter provare a scartare

Non eravamo maturi noi. In realtà il nuovo movimento operaio, il nuovo soggetto di trasformazione è ancora in uno stato latente anche se allora la definizione di “seconda potenza mondiale” che fu data al movimento alterglobalista poteva illudere mentre oggi dobbiamo guardare con più profondità a ciò che si muove nel, questo si, campo largo della società, dalle forme diffuse di resistenza e di autogestione al papato di Francesco ( un “alto” che colloco  nel “basso”)

E noi, il soggetto politico Rifondazione, che era un  impasto di storie antiche, quelle del Pci e quelle della nuova sinistra, ancora capaci di scatti di pensiero e di azione, rivivificate dal rapporto con i nuovi movimenti e spronate da una leadership, quella di Bertinotti che, rispetto agli stessi fondatori, in primis Cossutta, Garavini e Magri, aveva quasi come loro radici profonde ma anche una eccentricità preziosa. Fu, la nostra, una convivenza anche aspra, dura in molti momenti, ma resse a lungo nonostante gli abbandoni che si susseguirono, ciascuno dei quali penso ci impoverisse ma non distolse chi rimaneva dal cercare ancora.

Mancò pero il salto a divenire un vero soggetto storico perché  capace di incarnarsi nel farsi della storia stessa. Cosa assai difficile vista la difficoltà a realizzare quello che appunto chiamammo un nuovo movimento operaio capace di ripensarsi e ricomporsi laddove il capitalismo globalizzato ti toglie coscienza ed azione. Ma la non maturità non significa assoluzione. Anche la nostra storia è piena di se che avrebbero potuto almeno in parte cambiarla.

La Rifondazione poteva essere spinta più a fondo. Verso i movimenti e verso la dimensione europea, cambiando veramente pelle. Due scelte possibili che riguardavano il soggetto, il partito, ma che alludevano e comportavano il pieno dispiegarsi di una ipotesi di rifondazione che cambiava agenda, priorità, senso di sé. Lo “sciogliersi” nel movimento per reimpostare con esso la dimensione politica. Il dar vita ad un soggetto di natura europea, il partito della Sinistra Europea in Italia, che facesse del liberare l’Europa  (cosa che in verità allora non appariva ancora così chiara ed evidente come può essere oggi)  la nuova ragione storica per un nuovo soggetto storico.

Naturalmente a fronte di queste scelte c’era la questione comunista. L’identità comunista, il dirsi comunisti. Che non sono poi precisamente la stessa cosa, anzi. “Liberamente comunisti” era stato uno degli slogan fondanti la Rifondazione che rifiutava lo scioglimento del PCI. Non fu neanche scontato chiamarsi Rifondazione perché all’inizio in molti volevano essere “solo” comunisti e proseguire la storia del Pci addirittura nelle numerazioni dei congressi. Prevalse la scelta di Rifondazione e la ripartenza da un primo congresso.

Bertinotti approfondisce il tema Rifondazione, nei contenuti, financo nel restyling del simbolo che vede divenire più grande la parola. La sua riflessione sul dirsi soggetto comunista si sviluppa in un’epoca già diversa da quella dell’immediato dopo ’89 quando le immagini erano quelle delle bandiere col buco al centro per estirpare i segni dei “regimi”. A quella volontà del potere di cogliere l’occasione della crisi epocale del socialismo reale per estirpare la storia del comunismo, e non solo, come movimento di liberazione, Rifondazione aveva reagito con l’atto temerario della sua esistenza. Ma proprio questo atto temerario non escludeva, anzi richiamava, una capacità soggettiva di fare i conti in proprio con la Storia ed anche con la nuova dimensione del presente e la visione del futuro che si andava palesando.

La domanda su che cosa dica, non a se stessi o ad una comunità, ma al Mondo, cui ci si rivolge, la parola comunista riferita ad un soggetto politico non può apparire, proprio a chi si pensa comunista, blasfema. Quando Bertinotti pone il tema della lotta allo stalinismo sembra quasi un muoversi fuori tempo. E invece pensa non solo a quella parte di compagne e compagni che ancora hanno la foto di Stalin ma al modo di essere dei soggetti comunisti rispetto ai quali lo stalinismo è stato si una degenerazione delle cellule ma che non è esclusa dal DNA. E il DNA è una idea del soggetto di trasformazione, del potere, della concezione sociale che si è andata consolidando in forme diverse da quel “Movimento che cambia lo stato di cose presenti” che richiamammo in una tessera di quegli anni.

Anni in cui facemmo la scelta di impegnarci con tutte le nostre forze nel Movimento dei movimenti, cosa per altro anche contestata da alcuni, con una accusa di movimentismo e critiche che arrivarono anche alla vigilia di Genova. Di fatto nel movimento siamo stati fino in fondo ed anche contribuendo a farlo. Ragionammo di “progettare il conflitto”. Ci muovemmo con curiosità e a tutto campo come negli incontri di Bertinotti con il subcomandante Marcos.  I social forum erano la nostra casa, unico soggetto politico italiano ammesso, e la gran parte dei militanti li frequentava.

Paradossalmente la domanda poteva essere: “Se vuoi tornare a Marx, e continuare ad essere comunista, puoi continuare a chiamarti tale?”. Se pensiamo che questa domanda ora è rivolta anche verso la parola “sinistra” possiamo convenire che non si trattava proprio di una eresia indicibile. Certo è che “sinistra” è  parola diversa da “comunista” non fosse altro perché allude ad una collocazione parlamentare mentre l’altra evoca massimamente un’identità. Ma se guardiamo all’oggi, all’interrogarsi di Podemos sulla identità del soggetto di trasformazione o se guardiamo alla campagna elettorale di Melenchon con tutte bandiere francesi possiamo ben dirci che proprio il tema dell’identità è precisamente aperto nella coscienza del Mondo.

Abbiamo di fronte un fenomeno politico italiano, i Cinquestelle, che hanno colto lo spazio creato dalle crisi identitarie e politiche riempiendolo di una sorta di “identità individualizzata” che allo stesso tempo confligge ed aderisce ad un sistema modulato sulla diade “stabile/instabilità” che connota l’attuale Potere ed è perfetta negazione della democrazia del conflitto tra alternative organizzate di società.

Soprattutto abbiamo l’esempio della Chiesa di Francesco che rifonda identità e missione insieme. Parlo della Chiesa perché io certezze su come sciogliere il nodo dell’essere e/o del dirsi comunisti non ne ho né riflettendo su allora né pensando all’oggi. E dunque un grande esempio storico come la Chiesa mi fa pensare che si possa rifondare e rilegittimare anche senza rinominare. Ma certo anche per Francesco il rapporto con la politica non può che essere del tutto altro dal passato collateralismo tale è la radicalità della sua parola e l’impossibilità  per la politica di accoglierla.

E ho anche l’esempio non solo di chi ha continuato a dirsi comunista senza  più esserlo ma anche di chi ha cessato di dirsi tale proprio per cessare di esserlo.

Certo è che quella inquietudine scegliemmo di viverla e ci aiuta oggi a capire chi si definisce in altro modo avendo una voglia di cambiamento che ci assomiglia.

Si parla oggi molto di populismo. Ma c’è una storia, quella della America Latina che ci può aiutare. E lo stesso movimento dei movimenti si pensò come popolo, moltitudine, maggioranza del 99% contro gli “8 grandi” di Genova. Il potere contemporaneo  annichilisce, spezzetta, ma anche, a volte, semplifica. E, a proposito di nuove riflessioni sulla dimensione nazionale e dello stesso Melenchon, ricordo che incontrammo coll’appena  nato Partito della Sinistra Europea Chevenmant, socialista francese uscito dal Psf su posizioni di sinistra e “nazionaliste democratiche”.

Materiali, appunto della e dalla nostra storia. Che allora non “cambiò pelle”. La leadership di Bertinotti volgeva al termine. Il ricambio non fu all’altezza né nei più grandi né nei più giovani. E fu Arcobaleno. Perchè?

Ho già detto che Rifondazione era una miscellanea di storie precedenti che trovarono il coraggio di resistere e la forza di guardare avanti. Ma il mondo da cui provenivano quelle storie non c’era più. Per altro Rifondazione non era nemmeno la continuità del vecchio Pci, come si può dire ad esempio per il Pcf. E la nuova sinistra aveva già dato il suo meglio. E una nuova dimensione storica non si inventa facilmente.

Lo stesso movimento dei movimenti non produceva quadri così come accadeva nel ’68. O meglio: il percorso classico per cui dal movimento, o dal sociale, si passava al politico e al Partito non era più virtuoso. La crisi del soggetto politico era già in divenire e sarebbe proceduta in modi accelerati. Per giunta si andava determinando una ipertrofia del momento istituzionale che avrebbe portato ad una distorsione profonda del senso della militanza, della direzione e del “mestiere” stesso della politica

In Rifondazione è cresciuta una generazione giovanile importante e giustamente promiscua con il movimento. Probabilmente però sarebbe stato meglio per loro stessi un percorso “dal movimento al movimento” dentro una nuova dimensione generale fondata precisamente su questo nuovo ordine che però come ho detto non realizzammo. Ma tocca a loro dire di sé.

Io posso riflettere sulla mia generazione che non riuscì ad uscire in avanti dalla sconfitta e dall’esaurirsi della leadership storica di Bertinotti. Che ha certo le “sue colpe” di cui spetta a lui parlare. Io, come anticipato, posso dire per me. Il gruppo che tenne il periodo bertinottiano, che fu duro, era stato tutto sommato all’altezza ed aveva retto le prove. Ma non resse al combinato della sconfitta dell’Arcobaleno e dell’allontanarsi di Fausto. A me pare che fummo risucchiati in logiche in parte di origine e in parte di posizionamento. Non ci siamo concessi neanche ciò che ci meritavamo e che potevamo realizzare e cioè una discussione vera ma serena. Compreso sul senso dell’Arcobaleno che, come ho già  scritto una volta, diventò una sorta di innominabile “incidente del carrello da the” dell’impiegato Bristow nelle strisce di Linus. Anche qui ognuno potrà dire dei suoi errori. Io per me ho già detto che se tornassi indietro non rifarei la scelta di separarmi da Rifondazione. Vale per me e non chiama in causa nessun altro e nessuna storia collettiva seguente. Aggiungo che non credo che ciò avrebbe risolto i problemi in cui ci troviamo. E il senso di questo articolo è proprio di come affrontare i problemi di oggi facendo della nostra storia non una condanna ma qualcosa da ricordare con affetto e, perché no, da usare ancora.

E torniamo ad oggi. Alle elezioni francesi seguiranno quelle inglesi e poi quelle tedesche e prima o poi quelle italiane, incredibilmente negate dopo il voto referendario del 4 dicembre. Un voto importante in cui una Costituzione, preziosa come quella italiana, è stata difesa vittoriosamente anche da quella globalizzazione e da quella Europa reale che considera questi “sacri testi” incompatibili col mondo nuovo.

Naturalmente non sarà un giro di elezioni a cambiare le sorti del Mondo e dell’Europa anche se un Potere che da tempo vive e si perpetua nella diade stabile/instabilità di cui dicevo sembra a volte sfiorare sempre più il baratro.

Comunque è importante acquisire la consapevolezza che c’è questa interconnessione tra i vari voti e che è in campo, sul rinnovato asse Merkel-Macron, un ulteriore salto nella governance monetaristica con la proposta di introduzione del ministro europeo delle finanze. Come è stato per il Fiscal Compact servono governi pronti a sottoscriverlo e sono questo tipo di governi che si vuole che escano dal tour elettorale. Anche in Italia.

Ma qualcosa può cambiare se il gioco di ruolo tra establishment e destre reazionarie e capitalistiche viene invaso da un nuovo protagonismo che almeno allude a quel nuovo movimento operaio per la liberazione dell’Europa che abbiamo cominciato a immaginare in quegli anni. La lotta di Tsipras in ciò conta più del suo governo. Così come le piazze di Melenchon contano più del suo stesso risultato. Soprattutto conterà se sapremo fare qualcosa tutti insieme per e con i migranti, contro l’austerità, per la pace.

Ma naturalmente questo non scioglie quei nodi che ci portiamo da allora e sui quali, proprio per questo, è utile tornare. Insisto con lo sguardo sul rapporto governo/società.

Per altro la novità è che anche a destra si ripropone con i nuovi nazionalismi sorti nella globalizzazione e che ci consegnano un nuovo ossimoro del capitalismo e cioè un “neonazionalismo globalizzato”. Da Trump a Putin a Erdogan. C’è poi il sovranismo di sinistra cui ho già accennato.

Ma voglio guardare principalmente a ciò che sento più vicino. Tsipras è l’unico che, da sinistra radicale, ha conquistato una maggioranza di governo. Ad esempio Melenchon non è riuscito a fare il Presidente e io credo che non ne escludesse la possibilità. In realtà una maggioranza di sinistra radicale è ancora uno scandalo mentre lo è meno una di destra radicale e questa è cosa di cui tener conto per stare alla realtà.  “Non si può consentire al governo greco un risultato perché lo presiede un comunista” è stato detto di recente da un uomo degli establishment.

Tsipras si muove su un doppio binario. Da un lato la ricerca di un gioco a scacchiera, con altri governi che esistono o, si spera, esisteranno. Promuove l’alleanza dei mediterranei. Il binario sociale corre sulla questione del debito e, più propriamente, su quella del ripristino della contrattazione collettiv e delle compensazioni sociali. L’idea della scacchiera allude molto a ciò che accadde in America Latina.

Ma, purtoppo, proprio in America Latina molti pezzi importanti sono caduti in questi ultimi anni. E non solo per le manovre reazionarie che pure pesano, dal Brasile al Venezuela. È stato Boff a dire a Lula che si rischiava il cambio genetico. E daltronde anche le difficoltà del social forum mondiale ci parlano di un passaggio dalla lotta al liberismo a quella al capitalismo che non si è riusciti a fare.

In Europa è  il Portogallo che vive una esperienza particolare anche se più “classica” e “nazionale”. Un partito socialista prevalente e ricollocato a sinistra che governa appoggiato da due sinistre radicali, il Bloco e il Pcp. Fa buone cose ma non “guida”.

Difficile pensare ad evoluzioni positive in altri Paesi. In Germania, come dicevo,  Schulz, rischia di andare a sbattere ancora sulla Merkel e sulle proprie indecisioni e ambiguità. La Merkel potrebbe capitalizzare sia il voto anti destra che quello anti Linke, fare il pieno e tornare a presiedere una grande coalizione o magari tornare a servirsi del forno liberale che si sta rilanciando.

Situazioni mosse e interessanti ci sono in Irlanda, grazie al Sinn Fein, e in Scozia. Si intrecciano con la brexit e hanno il pregio di abbinare almeno una crescente questione sociale a quella geopolitica.

In Inghilterra Corbyn ha il coraggio di sfidare i pronostici contrari con un programma fortemente di sinistra.

Il Partito della Sinistra Europea prova a fare un salto di qualità e a costruire una dinamica sociale oltreché politica. Sta sperimentando la formula dei forum sociali per l’alternativa e a novembre l’appuntamento è a Marsiglia, città dove Melenchon è arrivato primo. Il forum vuole essere di tutti e viene proposto ai movimenti che agiscono in Europa. Per altro le giornate indette per i 60 anni del Trattato di Roma sono state un piccolo ma significativo risultato che può riavviare un processo dopo la crisi del forum sociale europeo.

Sono così tornato in Italia dove non può che prevalere la consapevolezza della situazione difficile ma pure qualche considerazione di ottimismo della volontà voglio farla. Riguarda da ultimo la vittoria avuta con l’abolizione dei vaucher. Molto fragile e favorita da una situazione creatasi con il referendum sulla Costituzione. Ma precisamente quel referendum ci parla di una battaglia data in campo aperto. Non per il governo ma per la democrazia di tutti. E vinta agendo anche buoni materiali. Il fatto che a una vittoria democratica sia seguita una sociale è un secondo indizio.

Per fare una prova ne occorre un terzo. E io penso che sia la lotta contro le politiche e le “culture” che ormai sul terreno di migranti, “decoro” e “sicurezza” imperversano, dai decreti Minniti-Orlando, agli attacchi alle Ong, al testo sulla “leggittima difesa”. Avere il coraggio, come sembra si stia cominciando ad avere, di fare su tutto questo uno scontro aperto, di valori e di civiltà può essere un passaggio chiave. Perché assomiglia allo strappo con Prodi, naturalmente in modi del tutto diversi. Ma, come quello strappo, va controcorrente. Sa che questa dinamica infame è data anche dalla competizione per il governo ma invece di farsi paralizzare da ciò sceglie di combattere per un modello di società.

E deve attrezzarsi per questo. Anche contro la cultura del meno peggio in cui purtroppo dovremmo ormai aver constatato che l’accento è sempre più sul peggio e non sul meno. Lo testimonia che se un tempo, e fummo anche per questo criticati, sullo spunto che veniva da Revelli, parlammo di due destre ora potremmo ben dire che di destre ce ne sono tre (con una divisa tra Berlusconi e Salvini). Che competono per il governo.

Per questo non è “ragionevole” aggiungere un quarto polo che competa con gli altri considerando centrale il governo ma serve un grande movimento di liberazione. Quando dici: “Nessuno è illegale ” rompi la narrazione orribile. E stai con Barcellona, dove un governo che prova a governare col basso esiste, mentre Podemos invece non è riuscita, almeno per ora a scalare quello nazionale (dovendo ridiscutere nel profondo il nesso tra “maree” e “cambio” e ripartendo con la “trama”).

Ma stai anche con chi nella società esiste e resiste nelle mille esperienze pratiche (e qui rincontro la nostra Altramente  che sta sul campo a aiutare la scuola pubblica e chi la vive). Soprattutto, sai che devi contare sulle tue forze. Cosa che, come diceva un grande vecchio, è fondamentale.

Contare sulle proprie forze, su quelle della società, sulla memoria e sulla voglia di futuro. Nel recente voto olandese il risultato migliore è stato a sorpresa di chi ha detto viva gli immigrati. Una forza di civiltà è ciò di cui abbiamo bisogno. Che viva la vita quotidiana. Magari poi va anche alle elezioni e un giorno sarai governo, ma quasi senza pensarci ed anzi pensando ad altro.

 

Un grazie a Graziella Mascia e a Patrizia Sentinelli per le conversazioni fatte e i consigli avuti.

 

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