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Uomo e ambiente nella storia di Roma antica

di Maria
Pellegrini

Da numerosi anni, per sete di ricchezza, gli uomini intervengono sull’ambiente senza più rispetto per esso. Molte voci illuminate mostrano la necessità di instaurare un nuovo rapporto con l’ambiente del pianeta che abitiamo, il loro grido accorato insiste sull’ammonimento a non abusare delle sue risorse, perché se l’uomo continuerà con questo suo atteggiamento irrispettoso, la Natura diventerà sempre più aggressiva e imprevedibile, ma è più forte la logica del massimo profitto, tipica del capitalismo. C’è da chiedersi se progresso e sviluppo debbano per forza convivere con l’inquinamento e lo sconvolgimento dell’ecosistema del nostro pianeta.

L’argomento non è nuovo, già nella storia di Roma antica c’erano gravi problemi di sfruttamento delle risorse naturali e drammatiche condizioni di qualità del lavoro, della vita nelle città, di inquinamento. Lo sfruttamento della natura a fini economici ha dunque radici molto antiche.

Durante l’impero romano, subito dopo l’età repubblicana, assistiamo a un lungo periodo di avventato “sviluppo insostenibile” che determinerà la scomparsa di molte specie animali e vegetali e la distruzione degli ambienti naturali, con danno incalcolabile per le future generazioni. Nel rapporto tra uomo e ambiente, il mondo antico privilegia il problema dell’influenza dell’uomo sull’ambiente con scarsa sensibilità a proposito di quanto le attività umane siano controproducenti per l’ambiente. Diffusa è la concezione che la natura sia finalizzata all’uomo, espressa assai bene da filosofo greco Aristotele: «Le piante esistono in vista degli animali e gli altri animali in vista dell’uomo, […] se la natura non fa nulla di inutile né di imperfetto, è chiaro che essa abbia fatto tutte queste cose in vista dell’uomo».

Lucrezio, grandissimo poeta dell’età di Cesare, nel ricostruire la storia dell’umanità smentisce ogni interpretazione finalistica e provvidenzialista: il lento e graduale sviluppo dell’umanità dalla condizione ferina originaria a forme evolute di civiltà è frutto dell’intelligenza e dell’iniziativa dell’uomo stimolato dal bisogno e guidato dalla ragione attraverso tentativi, sperimentazioni e soprattutto dal perfezionamento delle tecniche. La scienza è dunque per Lucrezio frutto di una conquista pragmatica, ma le più evolute condizioni materiali (il cosiddetto progresso) non portano alla felicità: l’evoluzione della tecnica libera l’uomo da alcuni bisogni, ma, pur essendo utile, non è necessaria al conseguimento della felicità, è anzi spesso strumento di sterminio nei periodi di guerra. Lucrezio scrive versi mirabili capaci di offrirci un quadro agghiacciante del progresso applicato agli scontri bellici. L’uso di carri falcati, baliste, catapulte e numerose altre macchine da guerra sono ricordati dal poeta come esempio dell’intelligenza umana stoltamente e barbaramente impiegata per distruggere anziché costruire una società più giusta. E con il progredire delle scoperte, si afferma l’esasperato piacere di ricchezza e potere, che genera invidia, odio, violenza. Ma leggiamo i versi del poeta: «E dunque il genere umano senza frutto ed invano si affanna / in perpetuo, e consuma la vita in inutili pene, / né fa meraviglia, perché non conosce misura al possesso». (De rerum natura, V, 1430-32)

Le guerre di conquista hanno fatto affluire in Roma straordinarie ricchezze. Orazio, poeta d’età augustea, impreca contro il lusso sfrenato dei nuovi ricchi e la loro mania di costruire ville sempre più grandi e sfarzose e di abbellirle con piscine, piante ornamentali spesso esotiche togliendo spazio alle colture agricole e stravolgendo la natura dei luoghi, ma la sua denuncia non ha l’acredine del moralista, è piuttosto una pacata riflessione sulla natura umana mai contenta del proprio stato, e un richiamo alle tradizioni degli antichi:

«Ormai le sfarzose ville lasceranno / ben pochi iugeri all’aratro; / da ogni parte si vedranno piscine più vaste / del lago Lucrino e lo sterile platano / vincerà gli olmi. E allora le viole / e il mirto e tutti i fiori che effondono / profumi staranno in luogo dei fertili /oliveti dell’antico padrone […] non questa fu la norma dei padri!» (Odi, II, 15, 1-7; 11).

Nonostante si respiri un’aria di maggiore benessere economico, non si sono attenuate sotto i Flavi (Vespasiano, Tito, Domiziano, 69-96 d. C.) le gravi ingiustizie sociali. Di fronte al moltiplicarsi delle ricchezze e del lusso, lo sdegno di Plinio il Vecchio – autore della Storia naturale, una grande enciclopedia con preziose notizie sui prodotti della natura e sulle numerose falsificazioni e frodi – è incontenibile; egli attribuisce la degenerazione dei costumi al contatto dei romani con l’Oriente. Con grande preveggenza, mettendo in guardia dai pericoli provocati dall’eccessivo sfruttamento delle miniere, lancia anatemi contro la sconsideratezza dell’uomo il quale, non contento della immensa ricchezza situata sulla superficie del nostro pianeta, scende con  febbrile aggressione nelle sue viscere per estrarre oro o minerali preziosi sfidando le leggi della Natura che li teneva nascosti proprio per proteggere l’umanità dalla sua brama di possesso: «le cose che ci rovinano sono quelle che la natura ha nascosto nel suo seno». (Storia Naturale, XXXIII, 3).

In giorni come i nostri, nei quali si fa un gran parlare di cibi transgenici, stupisce il sarcasmo di questo autore contro i prodotti creati artificialmente, come per esempio gli asparagi: la natura ha creato gli asparagi di bosco, in modo che chiunque possa raccoglierli dove spuntano, ma «ecco che compaiono gli asparagi coltivati, e Ravenna ne produce di tali che raggiungono il peso di una libbra. Che prodigi operano i buongustai!» (Storia Naturale, XIX, 54).  Parlando poi della differenza di sapore tra i frutti o gli ortaggi selvatici e quelli coltivati, egli anticipando le nostre convinzioni, nota che i primi hanno sempre un sapore più intenso e gradevole.

È soprattutto la constatazione della decadenza morale, delle sperequazioni economiche, della corruzione, dell’ipocrisia dilagante a provocare lo sdegno del poeta Giovenale, il più acre poeta satirico latino che non è riuscito a integrarsi nella società romana del suo tempo: quella prevalentemente mercantile, burocratica e, in un certo senso, cosmopolita della seconda metà del I secolo d.C.  Suo punto di riferimento è la vecchia Roma, quella degli agricoltori e dei soldati delle guerre italiche nel tempo in cui la povertà non procura affanni e non toglie serenità e dignità alla vita. Nei suoi versi la sua attenzione si concentra esclusivamente sulla parte negativa dell’agire umano, e sul dilagare dei vizi affrontando polemicamente i più scottanti problemi della vita quotidiana nella capitale dell’Impero che sono il risvolto negativo inevitabile dello sviluppo economico e del mutamento dei costumi. Le sue satire – quasi capitoli di uno stesso poemetto apocalittico – sulla invivibilità di Roma, sembrano anticipare le vistose storture di molte metropoli moderne e i caratteri sociologici di qualsiasi agglomerato urbano in confusa, febbrile espansione.

Da queste poche citazioni letterarie di autori latini, che con le loro visioni apocalittiche di fronte allo scempio delle tradizioni dei padri rispettosi della Natura il cui ordine, finalizzato al bene dell’uomo, non può essere alterato senza grave danno per l’uomo stesso, possiamo dedurre che fin dall’antichità la crisi ecologica ha fondato le sue radici nella crescente avidità di potere e di denaro di ciascuna generazione con effetti dannosi per chi verrà dopo.

di Maria Pellegrini

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