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“Unità e riscossa proletaria”: la bussola di Guido Picelli

di Franco
Ferrari

Nel 2022 ricorre il centenario delle Barricate di Parma e questo appuntamento sarà l’occasione per una riflessione su un momento importante dell’azione con cui le forze operaie e popolari della città emiliana cercarono di rallentare se non bloccare l’ascesa del fascismo. La mobilitazione dell’agosto del 1922 riuscì ad impedire l’occupazione dei quartieri popolari della città (in particolare l’Oltretorrente) da parte delle squadracce fasciste giunte in forze e guidate da Italo Balbo, ma fu un episodio troppo isolato per fermare ed invertire il processo che porterà all’installazione del regime mussoliniano.

Un ruolo decisivo nella difesa della città lo ebbero gli Arditi del Popolo e colui che li aveva fondati e guidati nello scontro con le camicie nere: Guido Picelli. Non si può ripercorrere il peso e le peculiarità che ebbero le giornate di Parma, senza interrogarsi su questa figura di dirigente politico, dotato di indubbio fascino, di una biografia per più versi peculiare e per questi motivi tale da suscitare miti e leggende e a volte letture politiche faziose. Il libro da poco pubblicato, a cura di William Gambetta, intitolato “La mia divisa. Scritti e discorsi politici” per le Edizioni BFS (Biblioteca Franco Serantini) in collaborazione con il Centro Studi Movimenti di Parma e il Comitato Agosto 1922, consente di tornare a guardare a Picelli partendo innanzitutto dalle sue parole, così come si ritrovano in alcuni interventi e scritti che ha lasciato come testimonianza della sua vicenda politica interrottasi prematuramente il 5 gennaio del 1937 nel corso di un’azione militare che lo vedeva in prima fila nella guerra civile spagnola.

I testi raccolti da Gambetta vanno dal dicembre 1919, con il saluto alla bandiera della federazione provinciale della Lega proletaria fra mutilati, invalidi, reduci, orfani e vedove di guerra, di cui Picelli era segretario, fino alla lettera dell’agosto del 1936 inviata agli operai parmensi emigrati in Francia. Molti sono interventi e brevi articoli d’occasione stimolati dalla battaglia politica, altri sono discorsi tenuti in Parlamento, dove Picelli era stato eletto prima dal Partito Socialista e poi dal Partito Comunista, in una condizione di costante aggressione fisica alla quale erano sottoposti i deputati antifascisti da parte della destra nazionalista e fascista. D’altra parte il coraggio fisico, come ricorda Gambetta nella sua attenta presentazione, non è mai mancato all’animatore degli Arditi del Popolo. Due testi più articolati di cui Picelli è autore e che il libro ci ripropone, sono un pamphlet pubblicato qualche tempo prima delle Barricate e intitolato “Unità e riscossa proletaria” un articolo pubblicato nell’ottobre del 1934 su “Lo Stato Operaio”, la rivista del PCI che usciva a Parigi a cura del centro estero del partito.

Nell’opuscolo del ’22 oltre a denunciare il fascismo come strumento della borghesia faceva appello alla costituzione del “fronte unico proletario”. L’unità era la sua principale preoccupazione ma essa andava cercata sul terreno economico perché su quello più strettamente politico ognuno avrebbe dovuto restare fedele alle proprie idee. Quando nasce il Partito Comunista d’Italia, nel gennaio del 1921, Picelli non aderisce alla scissione. Nel maggio successivo è candidato al Parlamento dal Partito Socialista Italiano, che era ancora guidato dalla corrente massimalista di Serrati, e grazie alla popolarità conquistata nei “borghi” di Parma riesce ad essere eletto.

Quando a Roma verrà in contatto con la formazione degli Arditi del Popolo, vedrà in quello strumento di organizzazione, anche di tipo militare, dei ceti popolari, il mezzo attraverso il quale poter combattere la violenza squadristica che in molte parti d’Italia (e in particolare in Val Padana) sta portando alla distruzione delle strutture costruite nei decenni dal movimento socialista (sindacati, cooperative, leghe, amministrazioni comunali). Di fronte all’incapacità del Partito Socialista, nonostante la retorica rivoluzionaria che lo contraddistingue, di uscire dalla passività e di avviare una vera azione di lotta antifascista, Picelli rompe con il suo partito e si avvicina ai comunisti. Tra i passaggi della biografia di Picelli che sollecitano interrogativi, a cui spesso non si può dare una risposta certa in mancanza di adeguata documentazione, vi è quello della sua mancata adesione al PCd’I al momento della sua nascita. Ma credo che la formazione intellettuale e politica di Picelli lo rendesse più affine al mondo del massimalismo, con la sua netta visione della società divisa irrevocabilmente tra borghesia sfruttatrice e proletari oppressi. L’evoluzione della situazione politica lo porta ad avvicinarsi ai comunisti malgrado in quei primi anni fossero caratterizzati da un indirizzo settario, animato in particolare da Bordiga, ma nel quale, con qualche esitazione qua e là si riconoscevano anche altri che poi avranno un ruolo della direzione che si affermerà con il successivo Congresso di Lione. Immaginiamo un Picelli che se da un lato poteva essere scettico di fronte a una scissione che si scontrava con la sua propensione unitaria ma dall’altro vedeva nei comunisti una forza più determinata nel portare avanti l’azione antifascista.

Esiste qualche incertezza sulla data della sua effettiva adesione al Partito Comunista. Nella sua nota autobiografica riportata nel libro curato da Gambetta (scritta nel marzo 1936 quando era in esilio a Mosca) la fa risalire al settembre 1922, ma nel 1924 quando verrà nuovamente ricandidato al Parlamento dal PCdI nelle liste di “unità proletaria” sarà schierato come indipendente.

Quando Picelli guida gli Arditi del Popolo nelle barricate dell’agosto 1922 non è certamente iscritto a nessuno dei partiti operai. La sua profonda sensibilità dei sentimenti popolari gli fa capire che gli Arditi possono essere uno strumento fondamentale per capovolgere una situazione che vede le forze popolari e democratiche paralizzate dalle divisioni e dalle incertezze, nonché spesso da una incomprensione di fondo della reale portata del fenomeno fascista.

In sede di riflessione storiografica Paolo Spriano (nella sua monumentale Storia del PCI) ha rilevato “l’errore straordinario che i partiti proletari commettono nei suoi confronti (ndr il movimento degli Arditi del Popolo), accecati dal settarismo, da pregiudiziali dottrinarie, da piccoli calcoli politici, da diffidenza sospettosa per tutto ciò che non proviene direttamente dalle organizzazioni istituzionalizzate nello schieramento operaio.” La direzione bordighiana del PCdI contrapponeva squadre d’azione formate da soli comunisti ad un movimento plurale ed eterogeneo come erano gli Arditi, giustificandosi in parte con qualche elemento di ambiguità presente nella formazione dell’organizzazione e nel suo ruolo del suo “capo” Argo Secondari. Fu la stessa Internazionale Comunista, per voce di un suo dirigente a criticare l’atteggiamento del PCdI. Quando si formavano gli Arditi “dove erano in quel momento i comunisti? Erano occupati ad esaminare con una lente d’ingrandimento il movimento per decidere se era sufficientemente marxista e conforme al programma?”

Nelle scelte di Picelli in questi anni si possono cogliere alcuni degli elementi del suo profilo politico. Non era certo un teorico e non emergono dai suoi interventi contributi sui temi più astratti nei quali è impegnata la sinistra operaia nelle sue varie e conflittuali tendenze ma una forte identificazione politica e sentimentale con i ceti popolari parmensi. Anche quando si deve trasferire a Roma la sua attenzione e la sua volontà d’azione hanno come ambito prioritario la città di provenienza. Per questo non sarei così certo che si possa davvero “sparmigianizzare” Picelli (come ha scritto Marco Severo) senza rischiare di toglierlo da un contesto storico e sociale senza il quale difficilmente una figura come la sua avrebbe potuto emergere e affermarsi, se non nel senso di spolverarlo un po’ dal rischio di trasformazione in una icona folkloristica locale. Uno dei paradossi del suo “mito” è proprio quello di essere insieme irriducibilmente ancorato ad un tempo e ad un luogo ben precisi eppure indicatore di valori e idealità che hanno una risonanza universale.

Dopo la rottura con il PSI e l’azione svolta a Parma nell’estate del ’22, Picelli continua l’avvicinamento al Partito Comunista seguendo un percorso in larga parte individuale. Nel 1924, quando si rielegge il Parlamento in condizioni sempre più difficili per la crescente violenza fascista, il PCdI porta a compimento il difficile processo di unificazione con i cosiddetti “terzini” ovvero quella componente socialista che resta favorevole all’adesione alla Terza Internazionale Comunista. Un incontro per il quale preme l’organizzazione internazionale ma che trova molti ostacoli sia tra i comunisti (che vi vedono un ritorno al passato) che tra i socialisti (che terranno in vita per lungo tempo un partito socialista “massimalista” separato dai riformisti).

Picelli viene candidato ma non è fra quelli per i quali il partito indica l’elezione. Sarà ancora una volta la sua popolarità tra i proletari e gli antifascisti di Parma a riportarlo in Parlamento, dove si occuperà soprattutto di questioni militari. Alla fine del ’26 viene arrestato con gran parte del gruppo dirigente comunista. Da quel momento inizierà la trafila del carcere del confine e dell’esilio. Emigrerà illegalmente in Francia nel ’32 e da lì dovrà trasferirsi a Mosca dove arriverà, grazie al sostegno del Soccorso Rosso Internazionale, nell’agosto dello stesso anno. Nella capitale sovietica lavora in una fabbrica di cuscinetti a sfera, ma per un periodo tiene lezioni di strategia e tattica militare presso la Scuola leninista internazionale. Nel ’36 viene accusato di “frazionismo” ma la sua autodifesa fa cadere ogni sospetto.

Quando scoppia la guerra in Spagna chiede di poter lasciare l’URSS per poter andare a combattere col fronte repubblicano. In ottobre a Parigi prende contatto con alcuni militanti del POUM dando la propria disponibilità di formare una squadra di combattenti nelle loro fila (queste e molte altre informazioni si possono estrarre dall’ottima cronologia della vita di Picelli riportata nel libro “La mia divisa”). Il POUM è stato spesso indicato come una formazione “trotskista”, in realtà era nato dall’unificazione del Blocco Operaio e Contadino, che era un’organizzazione che aveva rotto “da destra” col Partito Comunista Spagnolo, nel momento in cui nell’Internazionale prevaleva la linea settaria del “social-fascismo”. Il BOC che aveva una forte impronta catalanista si era poi unificato con l’Izquierda Comunista guidata da Andreu Nin, che aveva a sua volta rotto con Trotsky sul comportamento da tenere nei confronti del Fronte Popolare. Il leader russo in esilio era decisamente ostile, mentre la gran maggioranza dei suoi seguaci spagnoli decisero di aderirvi. Nell’ottobre del 1936, il POUM faceva parte del governo di sinistra in Catalogna e se anche i rapporti con i comunisti erano tutt’altro che buoni non si era ancora arrivati al conflitto dei mesi successivi (che portò ad una durissima repressione del POUM con la partecipazione diretta di esponenti dei servizi segreti sovietici).

Al di là del peso che si può attribuire ai contatti avuti a Parigi, in Spagna Picelli partecipò alla formazione delle Brigate Internazionali e muore, colpito da un colpo di mitragliatrice mentre guida l’assalto ad una postazione fascista nei pressi di Mirabueno, ai primi di gennaio del 1937. Attorno alla sua morte sono poi state costruite una serie di ipotesi tese a sostenere la sua “uccisione a tradimento da sicari dello stalinismo”, come ricorda Gambetta, il quale precisa poi che “nessun ricercatore di storia ha finora avvalorato la tesi dell’assassinio per ‘mano amica’, dato che, nonostante le numerose e approfondite ricerche, non sono emerse fonti rilevanti che la possano confermare”.

D’altra parte come ricorda lo stesso storico “la figura di Picelli è stata deformata dalle mutevoli necessità dell’uso politico, diventando una sorta di ologramma a più facce, utile sia per enfatizzare le democrazie liberali che per esaltare il socialismo reale”. Letture ideologiche che non tengono conto dell’esito a cui sono giunte le ricerche storiche.

Il significato profondo della scelta di Picelli è quello racchiuso nella già richiamata lettera agli operai parmensi emigrati in Francia nella quale rivendicava la “passione del vecchio soldato (vecchio di milizia non di età) che ha fatto della lotta la sua divisa e che gran parte della sua vita ha trascorso sui campi di battaglia insieme a voi in difesa della pace, del pane, della libertà”.

Franco Ferrari

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2 Commenti. Nuovo commento

  • Giuseppe Bellina
    04/12/2022 20:50

    Leggendo le varie tesi proposte sulla morte di Picelli non posso non costruire una mia tesi personale sui fatti. Non esistono a tutt’oggi prove, testimonianze o documentazioni che accertino con sicurezza che Picelli sia stato ucciso da mani amiche o da sicari mandati espressamente da Mosca per compiere l’atto. Bisogna pero’ tenere in considerazione anche altri fattori, fattori legati alla concretezza e alla realta’ di quei giorni. La moglie di Picelli, che pote’ osservare le spoglie del marito, disse che nel corpo di Picelli si poteva notare un solo foro di proiettile. Questo e’ sufficiente a smentire che Picelli fu ucciso dal nemico con una mitragliatrice durante un attacco frontale, difficilmente sarebbe stato centrato da un solo colpo. Ancora: una perizia sul corpo di Picelli avrebbe consentito di affermare se il foro di ingresso del proiettile fosse il torace anteriore o posteriore. Insomma la direzione del colpo basandosi sul foro di entrata e di uscita del proiettile. Se il proiettile era in entrata sul torace si potrebbe pensare ad un colpo frontale nemico. Al contrario un foro di entrata sulla schiena ad un colpo amico causato da un errore o procurato volontariamente. Ancora, se Picelli avesse mostrato la schiena al nemico ritirandosi allora quel colpo potrebbe essere considerato nemico oppure ancora un colpo amico frontale per errore o sparato volontariamente. Da ricordare che Picelli era in quell’azione l’uomo piu’ avanzato du tutti. Ripeto, Alcune testimonianze affermano che Picelli sia morto all’attacco falciato da una mitragliatrice franchista ma resta la testimonianza della moglie riguardo al corpo di suo marito. In alcune deposizioni lo stesso Pesce si e’ trovato in difficolta’ nello spiegare lo svolgimento dei fatti. Insomma una piu’ attenta osservazione del corpo di Picelli, come venne fatta nel caso di Guevara, sarebbe stata sufficiente per capire lo svolgimento dei fatti, di cosa sia morto e come sia morto. Probabilmente non a tutti sarebbe stata utile una simile perizia. Possiamo considerare, per come era la mentalita’ comunista dei tempi, che il Picelli fosse un comunista eretico, oggi diremmo meglio indipendente. Sicuramente la sua posizione ideologica era molto rischiosa, anche se onesta.

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  • Franco Ferrari
    12/01/2024 14:03

    Leggo con molto ritardo questo commento e me ne scuso. Ho dedicato all’ultima giornata di Picelli un lungo saggio di oltre 20 pagine nel mio libro “Indagine su Picelli” e rimando a quello per un esame dettagliato di tutte le testimonianze. Se Picelli sia stato colpito di fronte o alla schiena, da un colpo solo o da più di uno, di fucile o di mitragliatrice non non lo sappiamo con certezza. Il contesto della guerra non era certo tale da pensare di mettersi a fare l’autopsia di uno dei tanti caduti. La vedova parla (nel 1953) di un colpo solo alla schiena ma dubito che abbia potuto verificare direttamente sul cadavere in quanto arrivò in Spagna qualche giorno dopo e lo vide quando era già esposto nella bara alla casa dei sindacati di Madrid, ricomposto e coperto da una bandiera. Probabile che abbia raccolto voci sul momento o anche successivamente. Abbiamo testimonianze diverse di non comunisti che dicono che si era girata verso gli altri garibaldini quando fu colpito. Il che spiegherebbe il o i colpi alla schiena. Sulla definizione di eretico ci sarebbe da discutere perché quello che dichiara e scrive tende a dimostrare il contrario. L’unico comportamento in contrasto col PCI fu la decisione di andare a combattere col POUM su cui cambiò idea dopo pochi giorni, Ritengo, sulla base dei documenti di cui disponiamo che sono convergenti anche se di fonte molto diverse, possa essere stata motivata dal suo impulso di entrare subito in battaglia più che da una qualche adesione ideologica alle idee poumiste.
    Per il resto possiamo dire che nessuno degli oltre 200 uomini che si trovavano sul Matoral il giorno della morte ha mai avanzato dubbi sul fatto che sia caduto per mano dei franchisti.

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