Danila Comastri Montanari è stata una scrittrice bolognese che ci ha lasciato alla fine di questo luglio. Una storica, che si è dedicata al mistery e che ha ambientato la maggior parte dei suoi romanzi di successo nella Roma del I secolo DC, raccontata in maniera puntigliosa, scanzonata, piena di riferimenti che sanno di presenti. Una Roma in cui la presenza di cittadini provenienti da diversi continenti, di schiavi e di “liberi”, di uomini e di donne che svolgevano diversi ruoli sociali e in cui il colore della pelle non era un ostacolo. Nelle sue storie, che vedono come protagonista un “senatore con il vizio dell’investigazione”, Publio Aurelio Stazio, si respira un’aria incredibilmente diversa da quella che viene imposta come pensiero collettivo, non solo da fenomeni da baraccone come il generale Roberto Vannacci, salito agli onori della cronaca per un libro autoprodotto, divenuto best seller grazie al clamore mediatico suscitato. Il generale è solo uno dei tanti e delle tante che ha contribuito, con la propria colpevole ignoranza della storia a sdoganare, ormai da oltre un secolo, il mito del white power italiano. Ce n’è per tutti i gusti: ministri allarmati per una presunta “sostituzione etnica”, sedicenti intellettuali o uomini di cultura che invitano a comprendere come una persona i cui caratteri somatici manifestano differenze da quelli caucasici, siano inevitabilmente condannati ad essere considerati come “meno italiani” (quando va bene), storici, politici, giornalisti, non solo dichiaratamente di destra, che considerano la storia italica come fondata sul cristianesimo e su un’identità costruita artificialmente e finanziariamente nel 1861 e che a volte ancora fatica a manifestarsi come tale se non nelle competizioni sportive o nei raptus nazionalisti.
Delle tante corbellerie dette dal generale, come da improvvisati esponenti di tale italica tradizione, una è stata, ad avviso di chi scrive, abbondantemente sottovalutata e considerata, tutto sommato, poco grave. Nonostante le dominazioni arabe, le commistioni che si sono nei secoli determinate mediante trasmigrazioni biunivoche, nel Mediterraneo, con l’Oriente, con il continente asiatico e con l’Africa sub-sahariana, l’idea dominante per cui il fenotipo italiano è inevitabilmente bianco di carnagione non è stata mai sradicata. Le diverse forme e tipologie di suprematismo, il razzismo endemico di palazzo e di popolo che si respirano da anni in questo Paese, hanno trovato terreno fertile in una rimozione strutturale del passato, forse realizzata compiutamente nel ventennio ma che già da prima aveva solide radici. In pochi secoli si è rimosso, anche con la costruzione di un passato fittizio, la presenza di santi, imperatori, militari, uomini e donne figli di contaminazioni, soprattutto dell’area mediterranea, in un contesto che non considerava fondamentale il colore della pelle, la provenienza quanto lo status sociale, il ruolo ricoperto. Da queste pagine abbiamo ampiamente già illustrato le fobie neoidentitarie che hanno attraversato tanto il Novecento quanto il secolo attuale, dall’inesistente “piano Kalergi” alla mitizzazione della popolazione europea intera come maschia e bianca, sentirsi dire che da almeno 8000 anni questa è l’Italia è una di quelle fandonie che purtroppo, per buona parte della popolazione, anche grazie ad una storiografia fallace e ad una reiterazione fondata soprattutto sull’immagine proposta, nasce ben prima sia del periodo coloniale europeo che delle fasi di migrazione più attuali nella storia continentale. L’iconografia religiosa, la narrativa popolare, la stessa costruzione dello Stato nazionale di impronta risorgimentale, non hanno fatto altro che cancellare in maniera arbitraria millenni di storia. Bisognava costruire un’identità quasi monolitica, tanto dal punto di vista linguistico che somatico. L’italiano (la scelta del maschile è voluta) doveva essere caucasico e possibilmente con caratteristiche tipicamente centrosettentrionali, anche le carnagioni più scure di una parte della popolazione, soprattutto nel Sud, dovevano restare in secondo piano. Una tipologia che trova affermazione anche in eventi come la “Esposizione Generale Italiana” che si tenne a Torino fra aprile e novembre del 1884. Il nuovo Regno aveva da poco acquistato la baia di Assab, nel Corno d’Africa e un piccolo gruppo di persone, composto da uomini, donne e bambini, venne letteralmente esposto alla Mostra suscitando la curiosità dei visitatori. La misera fase coloniale italiana inizia simbolicamente con questa esposizione attraverso cui si propaga l’idea del “buon selvaggio” a cui poter portare la “nostra” cultura, la “nostra” civiltà, la “nostra” religione. Ed è curiosa la contemporaneità ignorata, non solo dal suddetto generale, ma anche da tanta intellighenzia nostrana, che uomini e donne italiani emigravano in Usa, passavano sotto le forche caudine di Ellis Island, mentre nella pubblicistica statunitense si sosteneva che negli italiani scorresse in fondo “sangue negro” mentre nella madre patria ci si fregiava già del ruolo di portatori della civiltà.
L’esperienza coloniale da Dogali alla guerra liberale in Libia e poi al fascismo, non fecero altro che accentuare tale tentativo di separare le tipologie umane. Se la riforma della legge sulla cittadinanza del 1912, in cui si afferma il potere totale del maschio padrone è, per quanto riguarda i diritti di chi proviene da altri paesi, più inclusiva di quella oggi in vigore e non fa menzione di alcun tipo di differenziazione, l’espansione coloniale creò, immediatamente, anche barriere legislative verso i colonizzati. Prima ancora delle leggi razziali antisemite entrarono infatti in vigore norme che impedivano di fatto il riconoscimento di figlie/i nati da “coppie miste” anzi, con l’invasione in Etiopia si istituì il reato di “madamato” che rendeva punibile la convivenza fra coloni e colonizzati. La stessa canzonaccia “faccetta nera”, nata per stimolare il “maschio italico” a partire per l’Africa dove avrebbe incontrato esotiche fanciulle da sottomettere, venne proibita dal regime in quanto favoriva la mescolanza razziale. Tutto questo contribuì a rendere ancora più distanti fra loro mondi che nei secoli passati avevano, con tutte le contraddizioni di classe e genere immaginabili, convissuto. Il nazionalismo dominante aveva bisogno anche di un immaginario suprematista capace di cancellare il passato e di creare una “nuova tradizione” (non è un ossimoro), rappresentata appunto dall’equazione Italia = bianchi (soprattutto maschi). Ma le guerre coloniali producono anche inevitabilmente non solo mescolanze ma il fatto che quelli che per un determinato periodo sono considerati “sudditi dell’impero”, alla distruzione di questo si ritrovino a non poter restare nel Paese in cui avevano combattuto con l’occupante e a non essere considerati degni di quello per cui avevano combattuto, si pensi agli ascari. Un magnifico libro della storica Valeria Deplano La madrepatria è una terra straniera: libici, eritrei, somali nell’Italia del dopoguerra (1945-1960). Nel volume si racconta tanto dei figli naturali (si diceva illegittimi), di italiani in Africa quanto di coloro che furono presenti nel nostro territorio tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta e poi a seguire. Per molti la vita fu difficile. Si pensi agli eritrei, somali ed etiopi mandati in Italia per la mostra triennale 1938-1940 e impossibilitati a rientrare a casa dallo scoppio della guerra. Alcuni furono accolti e sorvegliati in un collegio di Napoli, poi trasferiti a Villa Spada, nei pressi di Macerata, e qui liberati nel 1943 dalla banda Mario della brigata Garibaldi, che ebbe così nei propri ranghi i primi partigiani “neri”.
La cittadinanza italiana venne riconosciuta a chi era nato prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, circa 3.000 su 15.000 nati da matrimoni misti nella sola Eritrea. I non riconosciuti restarono per anni anche in Africa cittadini di rango inferiore e a poco servì la legge del 1947 con cui si riconosceva la cittadinanza italiana a chi poteva dimostrare di avere un genitore che la possedeva.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, furono molte le persone, soprattutto studenti, provenienti dalle ex colonie, che venivano a studiare nelle scuole italiane, avvantaggiati dall’avere già una discreta conoscenza della lingua. La loro presenza era tollerata – se si eccettuano le scaramucce dei nostalgici fascisti – e serviva ad alimentare il falso mito degli “italiani brava gente” con cui si tentavano di differenziare le vicende coloniali nostrane da quelle degli altri Paesi. Negati i crimini atroci di cui si macchiarono esercito, milizie fasciste, coloni, si continuò a rivendicare una presunta missione civilizzatrice “abbiamo costruito strade, pozzi e ospedali”.
Paradossalmente tale rivendicazione insieme al falso mito “buonista” contribuirono ad alimentare la distanza fra mondi, a rallentare i processi di comprensione e quindi di costruzione della società attuale.
L’Italia già dagli anni Sessanta era divenuta Paese di immigrazione, il percorso si è accentuato con le tante vicende delle fine del ventesimo secolo e dell’inizio del successivo, ma il dato era già sancito. La pelle di un colore diverso, i tratti somatici, la religione, sanciscono il fatto che, cittadinanza o meno, non si è italiani a denominazione d’origine controllata. Senza dover tornare alla storia antica e ai godibilissimi gialli di Danila Comastri Montanari, le tre o quattro generazioni, cresciute in Italia, ormai interne a tutte le nicchie economiche, sociali e culturali del Paese, celebrate negli eventi sportivi, acclamati quando eccellono in particolari ambiti, restano italiani con un asterisco. Quell’asterisco che permettono al generale scrittore di parlare impunemente di Paola Egonu senza scandalizzare più di tanto, quell’asterisco che anche in chi è animato da apparenti buone intenzioni porta a dire “però vedi come si è integrat*? Da come parla in dialetto sembra quasi italian*”. Il generale da questo punto di vista rappresenta una visione condivisa da rovesciare. Ci stanno provando con determinazione le nuove generazioni, ci sta provando chi considera questo un limite pesantissimo per l’intero sistema paese. Ma il percorso è ancora lungo.
Stefano Galieni