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Una storia veritiera e sorprendente del Treno del Sole e di alcuni nettuniani

Riprendiamo da PNN (Pisane nettuniane narrazioni) il contributo di Rocco Martino –

Quando ero ragazzo (prima media), un giorno della prima decade di maggio ero su un campo di 3 ettari con file regolare di piantine di angurie; era bellissimo all’alba, guardare quelle file di foglioline verde intervallate da striscia di terra finissima e nutriente, arata così già 3 mesi prima.

La strada che costeggiava il campo era cis-tacina (sulla riva occidentale del fiume Tacina, prima che esso si inoltrasse nel mare) e da questa riva, guardando oltre, avevamo il Sole nascente alle spalle. Per questa ragione quel campo di angurie, all’alba, era bellissimo, alleggeriva il cuore e apriva la mente e il corpo si svegliava dal sonno e dai sogni della notte trascorsa a casa, lassù sulla collina di Cutro; la adrenalina e le endorfine inondavano inzuppando ogni organo e tessuto e cellula.

Mio nonno materno, accanto a me a “mirare e rimirare” quello spettacolo della Natura, si accorse delle mie espressioni mimiche, cinesiche e prossemiche: jamm quadzarì, ca pua u Sulu quadía. (Su ragazzo, sbrighiamoci, perché poi il Sole riscalderà troppo… per continuare a lavorare al meglio).

Mio nonno conosceva gli “idòla sermonis” e non lo sapeva di sapere (!); lo capivo perché avevo scoperto il Novum Organum che Francesco Bacone scrisse nell’anno 1620 e.v.; avevo ascoltato, per caso, qualche settimana prima, una conferenza nella biblioteca popolare di Crotone, tenuta da una filomaoista della Rivoluzione Culturale cinese, mentre presentava, appunto, un’edizione del 1968, di Novum Organum 1620. E pensare che ero lì per studiare un capitolo di Osservazioni Scientifiche, libro di testo per le scuole medie inferiori!; i casi della vita!

Sistemammo la “cipolla” (della pompa idraulica aspirante) nel fiume; sempre acque del nostro mitico fiume Tacina, proprio quello che più volte attraversavamo per recarci sui campi, per andare a lavorarci come “braccianti senza terra”.

I campi erano proprietà dei Barracco e Berlingieri, che con una politica truffaldina, coperti e difesi dal partito della Democrazia Cristiana, con il silenzio del PCI, falsi comunisti, erano riusciti, monopolizzando i Consorzi Agrari, e così vanificare la Riforma Agraria che, dopo le lotte contadine, avrebbe distribuite “la terra a chi lavora”, con le famose Quote famigliari (il contadino, per ricevere la quota di terra da lavorare, doveva essere pater familias, “proprietario” di moglie e figli). Noi dicevamo “jamu a faticari a la Cota”. Solamente dopo qualche anno riuscii a capire che la “Cota” altro non era che la Quota.

Grazie al controllo sulla amministrazione e gestione del Consorzio (sovente essi stessi amministratori e gestori, nominati dai sindaci democristiani) i Barracco e i Berlingieri e i loro massari, caporali e lacchè e ‘ndraghitosi, monopolizzavano le sementi, la loro immissione sul mercato ed il loro prezzo (grano, fave, avena, barbabietole da zucchero, ortofrutta, boschi, sfalci per il carbone e carbonella e legnami per falegnameria di carpenterie per i carri e mobilie di arredamenti).

Per questo motivo i contadini che, grazie alle lotte e al sudore e sangue versato, avevano conquistato Quota (la Cota, termine ormai nooa) di 12 “tumini” (tre ettari), non avendo sementi non potevano coltivare e quindi niente integrazione statale e perdita della Cota che veniva ri-accattata, praticamente a gratis, dai latifondisti Barracco e Berlingieri. Fu così che nel 1967, a novembre, il giorno 7, mi ritrovai latitante, all’età di 11 anni, ricercato dai carabinieri.

Ero andato al negozio di Sale e Tabacchi, in piazza del Municipio, per comprare, appunto, il sale per mia madre che impastava e informava il “pane di grano cappelli”; una specialità, DOP, nota come “Pane di Cutro”, pane ad alto contenuto proteico perché grazie alle scoperte di Norman Borlaug, premiato per la “seconda rivoluzione verde”, le spighe crescono più ricche di chicchi mentre gli steli bassissimi e il pane resta fresco anche per una settimana, oltre che fa da companatico a fette cosparse da olio di oliva e peperoncini o zucchero per i bambini.

Uscito dal negozio, con 4 pacchi di sale grosso, mi ritrovai nella piazza del Municipio, “arribbiddzata” dai contadini in rivolta, per non perdere la propria Cota.

Il sindaco, nonché anche amministratore di quel famigerato Consorzio Agrario ormai in mano ai latifondisti Barracco e Berlingieri, era riuscito a scappare, con tutti gli assessori, dal retro del Municipio, che dava nel giardino della Chiesa delle Monachelle e nel magazzino del pignataru, l’artigiano della creta, di cui Cutro era anche famosa per le ceramiche: piatti, gumbuli (brocche), carusiddzu (salvadanai come camere d’aria per i muri delle case), pignate (contenitori cilindrici per i sottoli, sottaceti, frittole, lenticchie, salsicce, soppressate…) e ciaramidi (tegole).

Cutresi, durante una manifestazione subito prima del famoso Sessantotto.

Dalla folla arribbiddzata dei contadini qualcuno gridò che bisogna entrare e distruggere tutti gli archivi dove risultavano le false attribuzioni delle Cote ai latifondisti e i furti legali a scapito dei braccianti… Per entrare senza sfondare il portone seicentesco bisognava far salire qualcuno fino a un finestrino semiaperto, al primo piano, ma esso era piccolo per un uomo. Ci vuole ‘u quadzariddzu (il ragazzino), gridò un bracciante, che conoscevo perché abitava nella stessa via di mio nonno materno e che in quel momento indicava proprio me con le mani occupate da due pacchi di sale ciascuno. Va bbuò, ma ‘u guagliunu deve essere d’accordo, disse un altro contadino famoso, promuovendomi all’istante e solennemente da quadzariddzu a guagliunu; contadino famoso perché era l’unico cutrese che aveva fatto la guerra partigiana e famoso perché era l’unico che ci aveva spiegato che il PCI non era veramente comunista, né in Russia, né in Italia e neppure a Cutro e famoso perché era l’unico che si dichiarava pubblicamente, senza paura alcuna, militante del vero Partito Comunista di Italia marxista-leninista.

E così, dopo che un giovane mi aveva spiegato la ragione della rivolta (e mio nonno e mio padre erano “cotisti”), accettai di essere issato, con una carrucola, fino a quella piccola finestra; entrai, scesi le scale al buio totale e, con grande fatica, ma con determinazione e rabbia e orgoglio perché anch’io ero, ora, un arribbiddzatu contro gli sfruttatori dei contadini (!), riuscì ad aprire il pesantissimo portone (avevo solo undici anni, ero troppo piccolo, benché alto di statura per la mia età), per far entrare i compagni in rivolta per la “Giustizia Proletaria”.

Nel giro di quindici minuti scoppiò un incendio negli uffici degli archivi; rapidamente l’incendio si estese all’archivio dei carabinieri lì accanto, al temutissimo Catasto e alla chiesa delle Monachelle.

L’incendio divampò per tutta la notte stellata di quel sette novembre di freddo e fame; i pompieri provenienti da Crotone non riuscirono a superare il ponte stradale rotto a picconate, da anonimi braccianti, a metà dell’unica strada per raggiungere Cutro. Infine arrivarono i pompieri dalla lontano Catanzaro. Ma ormai tutto era cenere e fumi: il municipio, la chiesa, la caserma dei carabinieri (i luoghi del potere dei potenti) e, in quella notte si arribbiddzarono, anche i popoli di Caporizzuto, Rocca di Neto (il fiume Neto, fiume noto fin dai tempi degli invasori e schiavizzatori greci magnogreci); si rivoltarono anche a Melissa e Cariati, Cirò, pure gli arbesch, albanesi, di San Nicola dell’Alto si rivoltarono, Rocca Bernarda e Cotronei, Santa Severina e Cerenzia, Scandale e Papanice… tutti i braccianti e contadini, derubati dalle terra per lavorare e dare da mangiare ai figli, quella notte del marchesato, dalla provincia di Cosenza fino alle Serre nella provincia di Reggio Calabria, quella Notte, si ribellarono; quella lunga notte invernale fu illuminata dai fuochi potenti della Giustizia e che bruciavano le “carte” dei latifondisti e degli azzeccagarbugli.

Fu così che mi ritrovai fuggiasco assieme ai ribelli; prendevamo a volo i vagoni dei treni-merci, viaggiavamo in lungo e in largo per la Calabria e nelle varie stazioni c’erano sempre gruppetti di contadine (anziane e ragazze, “schette”, nubile, e maritate) che, nascoste fra i panni delle lavandaie e i cesti delle spigolatrici, ci porgevano rapidamente pane e companatico e, a volte, pignate di cibo caldo e nutriente e coperte per la notte e poi cantilenavano come se fossero di ritorno dalla fiumara.

La stazione ferroviaria di Crotone agli inizi del Novecento, con il treno a vapore in arrivo da Taranto.

Una sera, semi-sdraiati nel vagone, con il treno merci fermo in un angolo morto della ferrovia che va da Crotone a Catanzaro, nei pressi della lunga galleria di oltre due chilometri, interamente scavata proprio sotto la collina di Cutro, fra sacchi di cemento e strani grandissimi e pesantissimi fogli di plastica, il nostro partigiano si tolse uno scarpone, ne sollevò lo strato di interno e estrasse un foglio scritto, con scrittura stampatello piccola piccola e fitta fitta, tutto spiegazzato e sporco di ditate; lo aprì delicatamente ed interamente ed era grande quanto i fogli del registro della mia professoressa di italiano.

“Sá’ lijiri buunu?”, sai leggere bene?, disse piano rivolgendosi a me e guardandomi dritto negli occhi avvicinando il suo enorme viso al mio piccolo di ragazzino. “Ehh, sugnu a li mediie!”, sono iscritto alle scuole medie e per forza so leggere. Fui applaudito e sorprendentemente contento: ero fra i “randi”, i grandi, gli adulti, che mi ascoltavano in silenzio, incantati da quanto nasceva dalle parole scritte e si materializzava, uscendo dalla mia bocca, lì nel vagone del treno, davanti ai loro occhi, proprio come al cinema all’aperto.

Una volta alla settimana, un tizio veniva in piazza, montava un telo sul tetto della sua automobile e vi proiettava dei film, Amedeo Nazzari in “il Lupo della Sila”, “il Brigante Musolino”, “Donne e Briganti”, “i Figli di nessuno” e Sophia Loren in “I girasoli”, appena uscito (era il film adottato dai cutresi, perché molti giovani contadini cutresi furono arruolati per forza come soldati nella fascista Armir e non tornarono, vivi o morti, furono dichiarati dispersi in Russia, invano attesi da madri e mogli, proprio come nel film… e poi Silvana Mangano e Vittorio Gassman in “Riso Amaro”, le mondine in lotta per i diritti delle lavoratrici, a mollo nelle risaie, intrecciate con amori e gelosie e il fantastico film nello scatenato “Twist” di Chubby Checker, da poco giunto dalla lontanissima Merica, l’America… il cinema all’aperto, appunto.

Quella sera ai “randi” arribbidzati fujiendu (gli adulti rivoltosi in fuga), lessi brani del primo libro de “il Capitale” di Carlo Marx, “le Tesi di aprile” di Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin, “Stato e Anarchia” di Michail Bakunin, un di lui genero, il matematico napoletano Renato Caccioppoli (“Gli insiemi di Caccioppoli”), sposò la figlia Sofia Bakunin e divenne così cognato della chimica napoletana Maria Bakunin, la prima donna professora; c’erano de “La Costituzione montagnarda” del 1792, vi erano brani dei discorsi di Luise Michel sulla “Comune di Parigi” del 1871, proprio quella Luisa Michel, l’anarchica, cui si ispirò colui che disegnò la bandiera francese del “La Marianne che guida il popolo”, e la Babette del film “il Pranzo di Babette”, l’anarchica esiliata nella lontana Australia; vi erano parte de la “Decisione in sedici punti” della rivoluzione culturale di Mao Tse-tung, della Comune operai di Shangai, alcuni brani dei discorsi di Camillo Berneri, anarchico volontario in Spagna contro i franchisti, ammazzato dai traditori delle Brigate internazionali, stalinisti comandati dal triestino Vittorio Vidali del PCI, e discorsi di Francesco Barbieri, il calabrese di Vibo Valentia, anarchico, ammazzato pure lui, a Barcellona, assieme al Berneri, dagli assassini stalinisti del PCI, citati, quasi trent’anni dopo quel viaggio in fuga sui treni a vapore, dopo la Notte della Giustizia, nel film di Ken Loach, “¡Tierra y Libertad!” (Terra e Libertà!).

Tuttavia seppi solo molti anni dopo chi erano tutte queste persone di cui lessi i brani. Quella sera, quattro giorni dopo quella Notte di Giustizia, su quel vagone, all’occaso, mentre il Sole era appena tramontato dietro la montagna di Mesoraca e Petronà, il mio cuore e la mia mente mi trasformarono e mi sentivo “anarchico”. Quasi due anni dopo Quella Notte Degli Arribbiddzati, ero su quel campo di piantine di angurie, assieme al mio nonno materno.

Dopo aver sistemato la cipolla della pompa, immersa nelle acque cristalline del fiume Tacina, cominciammo a sollevare i lunghi tubi di dodici metri ciascuno, che i miei zii avevano disposto lungo il percorso di un chilometro buono, attraverso i campi di altre Cote, e noi li collegavamo, uno alla volta, a catena, a partire dalla cipolla nel fiume, fino al margine più distante del campo di angurie. Ad ogni giuntura dei tubi, nel campo “nostro”, montammo le farfalle (piccoli ugelli battenti che disperdono l’acqua a pioggia e girano, a destra e a sinistra a scatti, grazie alla forza dell’acqua che giunge sotto pressione dal fiume lungo i tubi).

Quindi ritornai al fiume ed accesi la pompa. Raggiunsi di corsa il nonno, in tempo per vedere l’acqua zampillare dagli ugelli e innaffiare a pioggia ogni piantina di anguria nel raggio di 6 metri da ogni ugello. Nel tornare dal fiume, correndo, arrivai prima dell’acqua, fui velocissimo, “più veloce della luce” no, ma dell’acqua del Tacina sì, in quell’occasione solamente. Dopo un’ora di innaffiatura a pioggia bisogna smontare i tubi e spostarli in riga altri sei metri più vicino. Camminando verso i tubi, mio nonno cominciò a ridere e ne capii, subito dopo neppure un minuto, il perché. Il terreno era ora zuppo di acqua e si affondava fino alle ginocchia e poiché non lo sapevo mi spaventai pensando alle sabbie mobili!

Tranquillo, è normale, ora sgancio da un capo del tubo e tu dall’altro, solleveremo il tubo sulle spalle e cammineremo affondati nella terra per almeno mezzo metro, li riposizioneremo sei metri più in là, riagganceremo e dopo un’altra ora di innaffiamento, ripeteremo queste azioni, fino a che tutta la Cota sarà inzuppata (ovviamente lui lo disse in lingua cutrese, era analfabeta e non conosceva la lingua italiana). Con un capo del tubo su una spalla in un punto particolarmente molle affondai fino ai cabasisi e per il freddo repentino rabbrividii, il nonno lasciò cadere il tubo e venne a tirarmi fuori dal fango, prendendomi dalle ascelle. Mi strofinò energicamente con il suo “manto”, il mantello nero senza bottoni che i nonni si avvolgono sulle spalle per difendersi dal freddo, quando al mattino presto si muovono con lo “sciaraballu” (carro con due grandi ruote e le stanghe legate sui finimenti di un mulo), per scendere dal paese fino alle Cote.

Intanto che il mio corpo, avvolto totalmente nel grande manto odoroso di tabacco trinciato del mio nonno, smettesse di rabbrividire, lui scavò una piccola buca nella parte asciutta del terreno e accese un fuoco e con una squeddza (ciotola di alluminio zincato) fece bollire acqua con infuso di erbe medicinali che bevvi con goduria. Una volta che i miei muscoli cominciarono a funzionare mi diede un pezzo di pane di grano cutrese, quello ormai a voi noto e famoso, un pezzo di formaggio stagionato, non era parmigiano reggiano, ma di Taverna, in Sila, dove ruminavano buona erba di montagna le mansuete mucche generose di buon latte per il formaggio tavernese silano, appuntò non parmigiano, e arrostì con uno spiedino, quattro lumachine, lì per lì raccolte e calde calde li adagiava su foglie di borragine.

E fu così, mangiando lentamente, per calmare la fatica e la fame, con il Sole alto a “quadiari” (riscaldarci, “nesci Sulu a caddiari”, citando l’antimilitarista, antifascista, scrittore, sceneggiatore… Corrado Alvaro in “Gente d’Aspromonte” ) che il mio nonno mi disse: crescendo, facendo esperienza, diventerai “spertu”, intelligente, per prevedere ciò che ancora neppure sai, per esempio affondare fino ai cabasisi in un terreno bagnato. E saprai prevedere in anticipo ciò che ancora non è accaduto e quindi saprai trovare soluzioni creative ai problemi presenti e futuri. Tutti noi abbiamo due cervelli, “destru e manca”, uno è veloce e serve per i sentimenti, l’altro è lento e serve per i ragionamenti, citando con oltre cinquanta anni di anticipo lo psicologo, premio Nobel per l’Economia, Daniel Kahnemann di “Pensieri Lenti Pensieri Veloci” e “Rumore” (bias, errori sistematici e rumore, errori casuali, nelle decisioni); crescendo e facendo “spirienza”, esperienza con riflessione, se ce la farai a superare i 60 anni, i due cervelli cominceranno a funzionare alla stessa velocità, e questo è un vantaggio per pensare quello che nessuno ha pensato perché ancora dovrà accadere.

Potresti diventare un “Acrobata del Tempo”, direbbe oggi se fosse vivo, citando in anticipo di molti decenni, il filosofo Günther Anders, e gli scienziati guidati dal professor Monchi Uri, della Università canadese di Montreal (nella provincia del Quebec), che nel mese di marzo dell’anno 2022 e.v., scriveranno proprio questo: dopo i sessanta anni i due cervelli saranno allineati e creativi, saggi, giusti e buoni, se rifletteranno sulle esperienze, altrimenti diventeranno bisbetici, arteriosclerotici, rancorosi, cattivi. Rosario Petrozza, il mio mitico nonno materno, se ne andò fra le stelle nel mese di maggio dell’anno 1971 e.v., se ne andò appoggiato ad una pala da muratori; stavamo impastando, a mano senza betoniera, quattro sacchi di cemento mescolandolo con la sabbia e l’acqua per creare il primo strato di intonaco delle pareti interne di una casa.

“Pinicì”, Pinuccio in lingua cutrese, vezzeggiativo affettuoso abbreviato dal diminutivo Giuseppino, Giuseppe, “Pinicì, riposiamoci cinque minuti” si appoggiò al manico della pala e si arrotolò una sigaretta di tabacco trinciato, l’accese, fece una tirata, mi guardò, mi sorrise e si fermò e morì. Lui aveva sessantatré anni ed io quindici.

Mio padre, mia madre, con una parte dei miei fratelli e sorelle, da solo un mese erano emigrati in Germania, nella città di Augsburg, fondata quasi due mila anni prima, da Cesare Augusto, il primo imperatore; erano partiti con il Treno del Sole, che si costituiva via via che raggiungeva le stazioni ferroviarie dei Paesi degli emigranti; la sera, al tramonto, da Crotone a Lamezia le prime due carrozze, dove, a notte fonda, venivano agganciate a quelle provenienti dalla Sicilia e dai paesini dell’Aspromonte tirrenico calabrese; a Paola altre due carrozze, a Salerno e Napoli ancora altre fino a Roma, al mattino dopo; qui la lunga fila delle carrozze, veniva agganciato ad una motrice ed altre carrozze fino a Firenze, Bologna, Verona, e lungo il possente fiume Adige, fino a Bolzano e poi con una motrice tedesca, fino Innsbruck, Rosenheim, Monaco di Baviera, München, ed infine Augsburg, ma il Treno del Sole continua veloce la sua corsa, trasportando lavoratori emigranti, fino ad Ulm Donau, cittadina sulla riva est del fiume (il lunghissimo Danubio che dalla Germania attraversa Vienna, Budapest, la Romania fino alla foce nel mar Nero, proprio vicino a dove nacque il generale Ezio Flavio, il barbaro che salvò l’impero, e che i nettuniani hanno imparato a conoscere grazie al romanzo omonimo del nettuniano Mario Tosoni) e, da Ulm Donau, il Treno del Sole andava deciso e sbuffando e correndo, sempre più su, attraversando, notti e giorni, lungo tutta la Germania, da sud a nord, fino giungere fra le miniere e le fabbriche metallurgiche della Ruhr, Dortmund, Essen, Düsseldorf, Bielefeld, Hannover, Berna e Amburgo, città brulicanti di operai multinazionali, emigranti e qui, agganciato ad altra motrice, andava in Danimarca a Kiel, Flensburgo, Koldinghus, Odense, Nyborg e capolinea a Copenhagen. Ecco, questo era il Treno del Sole, il treno degli emigranti che correva nelle notti infinite e nei lunghi giorni lungo l’Europa, dal nostro Sud, da Palermo, al nord, per quasi tre mila chilometri. Trasportava lavoratori emigranti, stranieri in terre straniere lontani dalle proprie famiglie e affetti e radici, per produrre ricchezze e progressi e lotte degli operai multinazionali.

Ecco, questi fatti, notevoli e veritieri, mi vennero in mente leggendo il report degli esperti della Banca d’Italia, pubblicato ieri, 8 gennaio 2024 e.v., sulla distribuzione della ricchezza delle famiglie italiane, per il 50% al 5% delle famiglie ricche e appena l’8% al 50% delle famiglie povere e leggendo, in successione, la notizia postata dal medico nettuniano Antonio Miglietta, sul gruppo whatsapp “Amici Nettuno 75 85”, relativa alla scoperta del professor Monchi Uri, sull’eccellenza del cervello umano all’età di sessant’anni, con il picco meraviglioso raggiunto a settant’anni. Sto scrivendo di questi fatti, veritieri e sorprendenti per le coincidenze, oggi, 9 gennaio dell’anno 2024 e.v., avendo raggiunto i sessantasette anni di età da appena tre mesi. Grazie anche ai consigli di mio nonno materno che, da qualche anno, spesso viene a trovarmi nei miei sogni assieme ai miei genitori, a un mio fratello morto, da neonato, ucciso dalla poliomielite, ai miei suoceri e alla loro unica figlia, cioè mia moglie Valeria Giaquinto (che da studentessa frequentava il Nettuno a Pisa). Un suo zio era una del gruppo letterario “i Romanisti” e in fondo a via dei Romanisti, vi è via A. Giaquinto. Lei non ha fatto in tempo a far parte del nostro gruppo whatsapp perché un tumore polmonare se l’è portata via fra le stelle, il giorno prima che andasse in pensione, ma aveva superato i famosi sessanta anni citati dal professor Monchi Uri. Per trent’anni aveva lavorato come paleografa proprio alla Banca d’Italia, e preparò alcuni dei documenti per gli specialisti autori del citato report odierno sulla ricchezza delle famiglie.

“Il caso non esiste, perché le cose più incredibili accadono tutti i giorni”. È anche il titolo di un serioso, sorprendente e divertente libro di statistica nella vita quotidiana; scritto dal matematico britannico David J. Hand, pubblicato in Italia nell’anno 2014 e.v. David non è nel “caso” dei nettuniani.

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