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Una fondazione di diritto italiano

di Stefano
Galieni

«Siamo una fondazione di diritto italiano e un fondo femminista, siamo indipendenti da qualsiasi ideologia politica, interesse economico o credo religioso. La nostra missione è offrire supporto al movimento per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere in Italia. Crediamo nella parità tra i generi in ottica di femminismo intersezionale dove genere, orientamento sessuale e relazionale etnia, classe, religione, disabilità, istruzione e territorio sono le direttrici del nostro sguardo. Pensiamo che un’Italia femminista e intersezionale non sia solo una dimensione possibile, ma il tempo presente». Con queste parole forti e cariche di politica, nel senso alto del termine si presenta la Fondazione SAMIA, che giovedì 14 dicembre presenta, alla Casa internazionale delle donne, a Roma, una prima indagine / monitoraggio, sul movimento femminista italiano. Abbiamo incontrato Miriam Mastria, direttrice di questa vera e propria “Fondazione di diritto italiana” che in quanto tale è divenuta ente erogativo e che ha redatto questo primo rapporto. «Siamo una fondazione particolare – spiega pesando bene le parole – non abbiamo “capitali di famiglia” ma siamo attiviste e professioniste del terzo settore la cui missione principale è quella di raccogliere fondi e canalizzare risorse per fornire capacità strategiche al movimento femminista anche aiutando, in particolare le organizzazioni più piccole, ad affrontare le difficoltà». Mastria parla di “movimento femminista” ma è ben consapevole delle innumerevoli pluralità presenti in tale contesto, dovute al territorio, alle tematiche in cui le singole realtà sono impegnate, a ragioni anche generazionali. Chi ha un po’ provato a guardare sotto la superfice, questa grande e complessa realtà che da anni pare essere la sola in grado di ridare senso all’azione sociale e alle mobilitazioni, coglie anche in quelle che possono apparire contraddizioni se non contrapposizioni, una ricchezza e una potenzialità estrema ed interessante per il presente e, soprattutto, per il futuro.

«Abbiamo lavorato per un anno con lo scopo di avere una mappatura anagrafica delle organizzazioni del movimento – riprende la direttrice. Quali sono, dove operano, che forma hanno e da quante persone sono composte. Ne abbiamo individuate 1047 – sicuramente non sarà completo – che sono in gran parte operanti al Nord. Nel Centro Italia molte sono attive nella capitale mentre c’è carenza a Sud e nelle aree rurali. Il 60% sono registrate come associazioni, il 21% come collettivi (noi le chiamiamo collettive), le restanti sono reti. Le collettive si occupano soprattutto di temi specifici, sono insomma gruppi accomunati dalla massima informalità. La maggior parte, soprattutto per questioni economiche, non si sono potute adeguare alla riforma del terzo settore, quindi, non possono partecipare a bandi. Le collettive in particolare non hanno accesso a finanziamenti». Un altro dato importante che emerge dall’indagine è che oltre il 50% delle realtà monitorate hanno come ragione sociale principale, il contrasto alla violenza di genere. Le ragioni, a detta delle autrici, vanno ricercate anche nel fatto che molti fondi pubblici e privati vengono erogati per affrontare tale problematica. «Ma il nostro sondaggio è stato anche qualitativo – dice Mastria – e abbiamo notato come insieme al contrasto alla violenza, molte realtà operino nella lotta al razzismo, al cambiamento climatico, per i diritti Lgbtqi+, rispecchiando molto l’intersezionalità del mondo femminista contemporaneo. Poche sono invece, il 2,2% le organizzazioni che si occupano del lavoro e soprattutto degli interventi da mettere in atto per affrontare o prevenire la fragilità economica delle donne. C’è un dato che dovrebbe preoccupare chiunque. Secondo gli indici europei, l’Italia, per quanto riguarda il tema della violenza è, comunque drammaticamente, nella media europea, mentre è ultima rispetto al lavoro (disoccupazione e gender gap, precariato, esclusione dalla possibilità di garantirsi una propria indipendenza economica al di fuori dal nucleo familiare. Ci sono supposizioni storico – politiche che non possiamo ovviamente considerare fattuali ma che indicano come precariato e informalità occupazionale facciano poi crescere altri indicatori come la violenza intrafamiliare che non viene spesso denunciata». Nell’analisi fatta da SAMIA, si evidenzia come molte delle realtà incontrate lavorino con meno di 25 mila euro l’anno, soprattutto le Collettive possono basarsi solo su autofinanziamento (tessere e crowdfunding) e impegno volontario. «Il fondo femminista che abbiamo creato – affermano da SAMIA – cerca di essere alleato del movimento. Non vuole dettarne l’agenda ma ascoltarlo, capirne le necessità per poi poter sostenere economicamente le singole realtà. Agiamo in base alle priorità che ci vengono indicate. Anche per questa ragione, una delle nostre attività è quella di elaborare studi di fattibilità basati sul monitoraggio. La nostra è stata la prima attività di studio per poter progettare le strategie interne di SAMIA. Per questo il questionario che abbiamo presentato ha una forte impronta qualitativa». Il lavoro realizzato coinvolge tanto il femminismo storico quanto il transfemminismo intersezionale di terza e quarta ondata che riguarda molto anche il pensiero e il mondo non binario in cui sono tante le anime che si ritrovano. Ed è interessante come l’ottica femminista permei i diversi temi, dalla lotta per la casa alla situazione delle detenute, al razzismo alle questioni ambientali, con una prospettiva che è diversa da quella imperante, spesso tradotta quasi unicamente al maschile. «C’è una ricchezza fuori che è incredibile. Tante sono le organizzazioni sui diversi territori che hanno una conoscenza del contesto, sanno cosa debbono fare. Con loro si stabilisce un rapporto di fiducia sociale nel movimento. Si può lavorare insieme senza imporre una dinamica del controllo derivante dal potere dei soldi. – è ancora la direttrice a parlare – In molte purtroppo si lavora ancora quasi esclusivamente sull’assistenzialismo, poche si occupano di fare advocacy o di provare ad influenzare le politiche pubbliche. Questo deriva anche dal fatto che nelle stesse organizzazioni c’è tanto precariato e tante operatrici che lavorano gratis. Accade, come già dicevo, per mancanza di risorse. Solo il 15% delle organizzazioni interpellate ricevono risorse da fondazioni italiane. Noi proviamo a modificare questa condizione con una “filantropia femminista” basata sulla fiducia. E vorrei chiarire che il fondo femminista non lo abbiamo certo inventato noi. Noi proviamo a dare una metodologia al finanziamento irrorando in maniera flessibile e facendoci guidare dal contesto di cui fa parte chi ne beneficia. Proviamo poi a svolgere un ruolo più attivo non soltanto finanziando ma aiutando a riconnettere i movimenti femministi che a volte non comunicano, magari perché partono da posizioni diverse. Spesso manca la spinta per elaborare un’agenda comune che definisca spazi di dialogo e permetta di acquisire forza. Anche il nostro contesto è frammentato e un piano comune potrebbe anche riuscire ad influire in maniera significativa. Ma occorrono fondi ed è necessario non solo l’impegno ma anche una solida base economica. Certo siamo all’inizio: a rispondere completamente al questionario, inviato alle realtà che conoscevamo e a quelle trovate attraverso un lavoro di desk search, sono state poco più di 200 realtà. Lo ripeto, di forma e peso molto diverso fra loro, alcune intergenerazionali altre composte in gran parte da under 30. Pur avendo chiesto a tutte l’anno di fondazione poi abbiamo avviato la mappatura su quelle che ci risultano attive negli ultimi due anni, quelle che magari hanno un sito fermo a 6 o 7 anni fa non le abbiamo nemmeno mappate». La ricerca è avvenuta su tutte le realtà incontrate che si occupano di diritti delle donne, quelle dichiaratamente femministe, le comunità trans e non binarie. Il lancio del rapporto e della Fondazione segna anche l’avvio di una strategia di finanziamento che è ritenuta fondamentale. «Non è possibile che si continui a potersi impegnare in questa attività complessa solo nel tempo libero né avere un budget annuale inferiore ai 25 mila euro come avviene alla maggior parte. Si devono costruire realtà solide che abbiano maggiori capacità progettuali da offrire all’intero movimento. Penso ad una cosa apparentemente banale – conclude Mastria – al Sud solo il 50% delle realtà censite ha un sito web. La mancanza di fondi è l’ostacolo principale a garantire la crescita e in tali condizioni, se mancano competenze e risorse umane, le attiviste si stancano e a volte lasciano l’impegno. Per noi vale il titolo di un libro molto importante “Non possiamo fare la rivoluzione se non balliamo”, vuol dire che dobbiamo disporre del tempo necessario per prenderci cura delle attiviste con l’obiettivo che si limiti quello che è il lavoro unicamente volontario».

Stefano Galieni

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