Quante volte ci siamo sentiti ripetere che nel 2000, al vertice di Camp David, Arafat rifiutò la “generosa offerta” del Presidente Israeliano Ehud Barak di ottenere uno Stato Palestinese su oltre il 90% della Cisgiordania, Gaza, e Gerusalemme est come Capitale, e che l’ostinazione di Arafat, nel pretendere il diritto al ritorno della diaspora palestinese, aveva portato quel negoziato al fallimento?
Nulla di tutto questo è vero e non vi è bisogno di attendere che gli storici ristabiliscano la verità: in primo luogo perché quest’ultima non costituirebbe un risarcimento per un popolo che ancora attende giustizia e inoltre perché, grazie al lavoro di Charles Enderlin1 (corrispondente permanente di France 2 a Gerusalemme dal 1981), rilanciato da Alain Gresh2 (caporedattore di Monde diplomatique), tutto ciò è stato già ampiamente smentito. Purtroppo, da quel fallimento è iniziata quella che lo stesso Gresh definisce la “discesa agli inferi”.
L’elezione del laburista Barak aveva acceso speranze nel mondo palestinese, anche se “il più decorato soldato di Israele, allora capo di stato maggiore, si era opposto agli accordi di Oslo (settembre 1993); divenuto ministro degli interni, aveva votato contro gli accordi di Oslo II (settembre 1995), che prevedevano il ritiro dell’esercito israeliano dalle grandi città palestinesi”3. Appena eletto Primo Ministro, nel maggio 1999 (quattro anni dopo l’assassinio di Rabin), non aveva fatto mancare la sua solidarietà ai coloni più estremisti visitando di persona Ofra e Beit-El incoraggiando i coloni di Hebron a vivere nella “Città dei Patriarchi”. Durante il suo mandato, durato fino al 2001, la colonizzazione della Cisgiordania aumentò esponenzialmente, più di quanto non avessero fatto fino ad allora i governi di destra.
Tutto ciò induce a pensare che l’espansione coloniale non costituisse una “tattica” a fini negoziali ma una vera e propria strategia, adottata anche dai governi successivi, e che il governo Netanyahu ha portato, poi,fino alle estreme conseguenze.
In un clima di estrema sfiducia, soprattutto da parte palestinese, a causa del paradosso per cui la qualità della vita della popolazione, dopo gli accordi di Oslo, era notevolmente peggiorata, Ehud Barak, nel 2000, fece pressione sul Presidente Americano Clinton fino a convincerlo che il suo secondo mandato (con scadenza gennaio 2001) , si sarebbe potuto concludere con un atto che sarebbe passato alla storia, e cioè la pace in Medio Oriente.
Prima di arrivare ai 15 giorni fatidici di Camp David, Barak perse quasi un anno a negoziare con i siriani con l’obiettivo, perseguito ancora ai giorni nostri con gli accordi di Abramo, di normalizzare le relazioni con i Paesi arabi dell’area a prescindere dalla soluzione della “questione palestinese”.
Quando i negoziati finalmente si avviarono il governo di Barak aveva perso la maggioranza nella Knesset e anche l’OLP si era indebolita agli occhi della sua popolazione.
C’è da precisare, innanzitutto, che di questo vertice non esiste alcuna documentazione poiché la regola era quella di mettere per iscritto solo testi frutto di accordi tra le parti, da qui anche l’arbitrarietà delle interpretazioni e la difficoltà a ricostruire con precisione ciò che realmente avvenne.
Le cronache di Camp David, ricostruite da Enderlin (attraverso uno studio scrupoloso di appunti e di interviste messe a confronto) ci confermano, tuttavia, che mai ad Arafat fu presentata una proposta che potesse somigliare anche lontanamente ad uno Stato, anche se alcuni tabù furono infranti, quali Gerusalemme e alcune ipotesi di compensazioni territoriali in Cisgiordania. A quel punto, invece di continuare quel processo, Barak interruppe i colloqui con una conferenza stampa in cui denunciò l’intransigenza di Arafat come causa di quel fallimento mettendo al centro del dissidio lo status di Gerusalemme.
In seguito, lo stesso Barak cambierà versione e sosterrà che fu la questione del ritorno dei rifugiati ad impedire l’accordo. Falso, perché vi sono prove del fatto che gli stessi palestinesi si rendessero conto che la questione si sarebbe potuta risolvere con atti simbolici che, salvaguardando il principio, nella pratica avrebbero riguardato una cifra di rifugiati oscillante da qualche centinaia a qualche migliaia di persone.
Da lì iniziò una campagna di discredito nei confronti di Arafat con l’obiettivo di dimostrare al mondo come Israele non avesse interlocutori affidabili nel campo palestinese . Stessi argomenti delle destre, dopo che, per tutto il periodo di Camp David, il Primo ministro Barak aveva rifiutato di incontrare direttamente Arafat.
Una trappola ai danni di quest’ultimo?
Di sicuro le intenzioni non erano costruttive e, gli eventi che seguirono fino all’epilogo odierno dimostrano come quel fallimento abbia prodotto tragedie, diversamente proporzionate, per entrambi i popoli, tanto che già all’epoca il politico pacifista israeliano Uri Avnery definì Barak “un criminale di pace”4.
Pasqualina Napoletano
- Charles Enderlin , Le rêve brisé. Histoire de l’échec du processus de paix au Proche-Orient 1995-2002. Fayard, 2002.[↩]
- cfr. Alain Gresh, Israël Palestine. Vérités sur un conflit.Fayard, 2002.[↩]
- Alain Gresh, Le “veritable visage” de M. Ehoud Barak, Le Monde diplomatique, julliet 2002.[↩]
- Alain Gresh, Le “veritable visage”…op.cit.[↩]