Sono passati solo pochi anni da quando nell’Unione Europea sembrava che si respirasse aria nuova; la pandemia l’aveva obbligata ad assumere responsabilità collettive per la prima volta in termini solidaristici. Anche sul terreno economico si era arrivati, con il Next Generation EU, a una misura da tanti anni prima chiesta poi vagheggiata, quella della emissione di bond di debito comune. Se a questo si aggiunge la sospensione del Patto di stabilità e del Fiscal Compact, l’accelerazione impressa al Green Deal Europeo, all’Agenda Digitale Europea e al “Pilastro sociale”, ma anche la Conferenza sul Futuro dell’Europa, si può capire perché molti, anche a sinistra, vedevano in tutto ciò una svolta della politica e della natura dell’UE. Un Unione più sociale, più verde, che abbandona definitivamente l’ordoliberalismo, e che promette di diventare più democratica, soprattutto un’Unione più unita. Altri, però, mettevano in guardia da tanto eurottimismo, innanzitutto perché le misure economiche erano temporanee e non strutturali, e poi perché, in generale, consideravano quelle politiche semplici misure di aggiustamento del capitalismo europeo di fronte alla crisi globale.
Poi è arrivata la guerra in Ucraina e ci si è dovuti risvegliare dal sogno; quelli che sembravano soltanto fantasmi del passato si sono nuovamente materializzati. In particolare, quello della governance economica che non era per niente andata in soffitta – il semestre europeo e i suoi “bracci correttivi” hanno continuato a “sorvegliare” le economie degli Stati membri – ma di cui erano stati messi in stand by il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) e il Patto di Stabilità e Crescita (PSE). Del MES c’è stata la riesumazione, in piena pandemia, con una riforma non ancora in vigore perché bloccata dalla mancata ratifica dell’Italia1. Il Patto di Stabilità – ormai tutti lo chiamano così perché da quando è stato inventato nel 1997, della crescita non si è vista nemmeno l’ombra – nel 2020, all’inizio della pandemia, è stato sospeso per tre anni; sospensione poi prorogata fino a tutto il 2023.
Nel frattempo, i Governi dell’UE, più per pudore che per resipiscenza, hanno pensato che non potessero ripristinare sic et simpliciter il vecchio Patto ed hanno incaricato la Commissione di predisporne una revisione. Nel novembre 2022 la Commissione ha pubblicato i suoi Orientamenti2 e nell’aprile 2023 ha presentato le Proposte legislative per la revisione3.
Criticità nella proposta della Commissione
È molto diffusa l’opinione che il dispositivo proposto per un nuovo Patto di Stabilità rappresenti un miglioramento rispetto al vecchio Patto, superando alcuni degli aspetti più coercitivi che tanto hanno pesato nella fase di austerità regressiva conosciuta nello scorso decennio da alcuni Paesi della Zona Euro. C’è chi l’ha addirittura definita una “proposta rivoluzionaria”4, non solo perché con l’introduzione dei Piani nazionali strutturali di bilancio a medio termine, gli Stati membri non debbono più essere sottoposti all’applicazione meccanica di parametri uguali per tutti, ma anche perché, assumendo gli obiettivi di spesa pluriennali (quindi variabili meno cicliche) quali unico indicatore operativo per la sorveglianza, si evita la pro-ciclicità delle vecchie regole che imponevano misure di austerità anche a Paesi in piena recessione.
Certo, il giudizio di chi mette in evidenza questi aspetti innovativi della proposta, sarebbe ancora più entusiastico se essa avesse finalmente cancellato i feticci dell’ordoliberalismo che da un trentennio gli Stati Membri sono costretti a venerare: i criteri di Maastricht, i tristemente famosi “numerini” da non superare – il 3% per il rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto interno lordo e il 60% per quello tra debito pubblico e prodotto interno lordo. Purtroppo, le due cifre figurano nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea5 e non possono essere eliminate o modificate da semplici Regolamenti del Parlamento Europeo e del Consiglio.
Le regole precedenti vengono (almeno apparentemente) ammorbidite. Non ci sarà più l’obbligo di ridurre il debito nella misura annua pari a un ventesimo della quota di debito eccedente il 60% del PIL. Il Fiscal Compact viene in gran parte incorporato del nuovo Patto. Gli Stati membri dovranno presentare un piano strutturale nazionale di bilancio a medio termine con un percorso di bilancio nazionale definito in termini di spesa primaria netta. Agli Stati membri che non superano le soglie del 3% e del 60%, la Commissione darà dei semplici orientamenti per la definizione dei loro piani, mentre a ogni Stato che superi anche uno solo dei due parametri, sarà impartita una “traiettoria tecnica” della durata di quattro anni (estensibile a sette), in cui sarà definito un percorso per orientare il debito verso una “riduzione plausibile” e/o portare e mantenere il deficit sotto il 3% del PIL a medio termine.
Insomma, non solo maggiore flessibilità e allungamento dei tempi di rientro ma anche maggiore “titolarità” nazionale, cioè gli Stati membri conteranno di più. Per alcuni osservatori questi aggiustamenti non sono sufficienti a mettere i Paesi più esposti al riparo dai rischi del passato.
L’evoluzione della Proposta della Commissione, dagli orientamenti contenuti nella Comunicazione di novembre 2022 alle proposte legislative di aprile 2023, ha, infatti, messo in evidenza numerose criticità. Gli orientamenti di novembre basavano i percorsi di aggiustamento fiscale sulla analisi di sostenibilità del debito (DSA-Debt Sustainability Analysis), da anni usata dalla Commissione sia per classificare gli Stati membri secondo il livello di rischio del debito che per monitorare la sostenibilità del debito di ciascun Paese. La metodologia della DSA è, però, da varie parti, criticata. Le critiche scientifiche e le preoccupazioni politiche si sono, a maggior ragione, intensificate quando essa è assurta a perno delle proposte di novembre. “Le DSA non sono algoritmi apolitici che calcolano la politica fiscale ottimale. Le DSA possono mostrare cosa potrebbe accadere sulla base di determinati presupposti (…) il risultato delle DSA è altamente sensibile a piccoli cambiamenti nelle ipotesi”6. Sono le ipotesi di crescita, nonché di altre variabili (come inflazione e tassi d’interesse) che condizionano i risultati delle DSA. A seguito delle numerose critiche ricevute, la Commissione ha, nelle proposte di aprile 2023, abbandonato il ricorso alla DSA nella fase di input, cioè il criterio di impartire percorsi di aggiustamento più o meno onerosi a seconda della collocazione dello Stato membro in una delle tre fasce di rischio risultanti dalla DSA: sostanziale, moderato e modesto, a seconda che il rapporto debito/PIL tendenziale sia rispettivamente superiore al 90%, tra il 60 e il 90 % e inferiore al 60 %. Questo avrebbe significato influenzare a priori la valutazione del rischio da parte dei mercati, dando segnali controproducenti soprattutto per i Paesi classificati ad alto rischio, innescandovi un circolo vizioso, con la conseguenza di aumentare la segmentazione del mercato dei titoli di Stato, creando quindi ulteriore instabilità nella Zona euro.
Per rispondere a queste critiche, la Commissione ha sostituito la suddivisione per fasce di rischio con quella più rudimentale dei “buoni” e dei “cattivi”: i buoni sono gli Stati membri che rispettano i parametri di Maastricht, i “cattivi” sono gli altri, quelli che superano il 3% nel rapporto deficit/PIL o il 60% nel rapporto debito/PIL. Solo questi dovranno rispettare le “traiettorie tecniche” predisposte dalla Commissione. Non sono mancate, ovviamente, le critiche anche a questa impostazione. Innanzitutto, di carattere tecnico ma con risvolti politici. La rozza semplificazione del ricorso ai parametri di Maastricht può entrare in contraddizione con il criterio della “sostenibilità” del debito che rimane, anche nelle proposte legislative di aprile, la stella polare, in generale, dell’intero impianto del Patto e, in particolare dei percorsi di aggiustamento contenuti nei Piani nazionali. Infatti, non rispettare i parametri non significa necessariamente avere un profilo di rischio della sostenibilità del debito. E’, per esempio, il caso dell’Austria, che per il fatto di avere un rapporto debito/Pil superiore al 60% sarebbe sottoposto a una “traiettoria tecnica”, senza che, secondo la DSA (che rimane la metodologia per valutare la sostenibilità), vi siano preoccupazioni per la tenuta del suo debito. Al contrario, alla Repubblica Ceca e alla Bulgaria non verranno assegnate “traiettorie tecniche” – poiché attualmente il loro debito è inferiore al 60% del PIL e il loro deficit al di sotto del 3% del PIL – ma le loro prospettive di sostenibilità a medio termine sono dubbie a causa dell’aumento della spesa per le pensioni. C’è poi il caso dell’insensatezza economica che riguarda l’Estonia, il Paese con il più basso rapporto debito/PIL nell’UE, che dovrebbe sottostare a una traiettoria tecnica perché ha un deficit superiore al 3% del PIL7. Su un terreno più politico, il passaggio della selezione iniziale dalla valutazione del livello di rischio agli scarni parametri di Maastricht non elimina le preoccupazioni sullo stigma e il danno reputazionale nei confronti dei mercati.
Tutto ciò, per quanto riguarda la fase di input; ma anche la definizione dei percorsi di aggiustamento, le “traiettorie tecniche” non sfuggono alla preoccupazione che possano comportare il rischio di finire nelle secche dell’austerità che si vorrebbe evitare. Infatti, la metodologia principale con cui esse saranno determinate rimane quella della DSA; l’Allegato V della Proposta del Regolamento principale8, indicando il metodo con cui valutare la “plausibilità” del debito di uno Stato membro, fa riferimento al Debt Sustainability Monitor 20229.
Ma a guardar bene le norme relative all’aggiustamento contenute nelle proposte legislative, i rischi d’erraticità della DSA rappresentano il male minore. Nella definizione ex ante e negli esiti ex post dei percorsi di aggiustamento, la stessa metodologia DSA viene e distorta da un certo numero di “salvaguardie” aggiuntive contro il debito eccessivo. L’assunzione della “sostenibilità” del debito, anziché il suo ammontare in percentuale al PIL, come bussola dei Piani nazionali e dell’aggiustamento – sbandierata come una scelta in favore della flessibilità – viene, pertanto, palesemente contraddetta da queste salvaguardie che reintroducono regole e benchmark numerici; una serie di requisiti di riduzione del debito e del disavanzo, invarianti per paese e nel tempo, che minano l’enunciato principale della proposta: percorsi differenziati di riduzione del debito basati su analisi specifiche per Paese.
L’inserimento di queste salvaguardie – che non erano presenti negli orientamenti di novembre – è certamente una mediazione (decisamente al ribasso) compiuta dalla Commissione rispetto alle obiezioni e alle richieste dei Governi più rigoristi, in primo luogo la Germania. Mediazioni che, caso mai, avrebbero dovuto essere affrontate sul terreno politico e istituzionale, piuttosto che con l’aggiunta di nuove regole.
Sono quattro le “salvaguardie” che peggiorano le proposte di novembre 2022. La prima impone che lo sforzo di aggiustamento sia redistribuito in modo uniforme su tutti gli anni di durata del piano nazionale. Questo confligge con l’esigenza che hanno gli Stati di aumentare gli investimenti pubblici a breve e medio termine. La seconda: il rapporto debito pubblico/PIL al termine del piano deve essere inferiore rispetto a quello dell’anno precedente l’inizio del piano. Per alcuni Paesi, ciò imporrebbe restrizioni ben più gravose di quelle prevedibili con un aggiustamento basato sulla DSA e il parametro del 3% per il deficit/PIL. La terza: per tutta la durata del piano, la crescita della spesa netta nazionale deve rimanere mediamente inferiore alla crescita del PIL a medio termine. Anche in questo caso, si imporrebbe un onere maggiore ed eccessivo; per alcuni Paesi, come Grecia e Cipro, ciò significherebbe non poter ridurre i propri saldi primari strutturali nonostante i risultati ottenuti nella riduzione del debito e del deficit, che potrebbero scendere ancora più rapidamente di quanto richiesto da aggiustamenti basati sulla DSA.
Quarta “salvaguardia”: “per gli anni in cui si prevede che il disavanzo pubblico superi il 3%, il percorso correttivo di spesa netta è coerente con un aggiustamento annuo minimo pari almeno allo 0,5 % del PIL come parametro di riferimento”10 (a prescindere dall’apertura di una procedura per disavanzo eccessivo). Un vincolo oneroso per un gran numero di Paesi, che si concentrerà nei primi quattro anni, inficiando uno degli obiettivi della proposta, quello che riguarda le riforme e gli investimenti da farsi nel prolungamento triennale dei piani di aggiustamento. Una misura che con il vecchio Patto si prevedeva di applicare solo quando la Commissione dichiarava un Paese in Procedura di Disavanzo Eccessivo (EDP); ora invece si applicherebbe per tutti quelli che superano il 3%. In più, poiché la proposta della Commissione di modifica del Regolamento sui disavanzi eccessivi, il cosiddetto “braccio correttivo” del Patto di Stabilità, lascia invariata l’EDP basata sul deficit (attivazione dopo il superamento del 3%), l’interazione tra questa EDP e la salvaguardia dello 0,5% annuo, appare problematica e fa prevedere importanti restrizioni di bilancio ai non pochi Paesi che superano il 3% del rapporto deficit PIL. Nel 2024 dovrebbero essere: Belgio, Bulgaria, Francia, Italia, Malta, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Ungheria. Per questi Paesi si profila, quindi, non solo il danno reputazionale con le inevitabili conseguenze sul versante dei mercati, ma anche il rischio di finire in una spirale pro-ciclica che è proprio ciò che la proposta della Commissione si prefigge di evitare.
Queste sono soltanto alcune delle critiche alle “salvaguardie” avanzate da osservatori e think tank internazionali11, alcuni dei quali ne chiedono l’abolizione o una radicale modifica. In uno studio di settembre 2023, predisposto dai Servizi del Parlamento Europeo su richiesta della Commissione per i problemi economici e monetari (ECON)12, si calcola che c’è un nutrito numero di Stati membri che, applicando le proposte della Commissione, comprese le “salvaguardie”, sarebbero sottoposti, dal 2025 al 2027, a pesanti restrizioni di bilancio. I Paesi più danneggiati sarebbero la Bulgaria e la Francia, che dovrebbero provvedere ad un aggiustamento di bilancio annuale, rispettivamente, dell’1,6% e 1,1% del PIL, sia nel caso di un percorso di quattro anni che di sette. Per la Francia questo significherebbe essere obbligata a risparmiare ogni anno circa 30 miliardi di euro. Per il Belgio e la Slovacchia l’aggiustamento annuo previsto sarebbe dell’1,1% se il percorso di aggiustamento sarà di quattro anni, ma poco più favorevole se di sette. Leggermente migliore la previsione per l’Italia, 0,9% (circa 17 miliardi di euro ogni anno) con un aggiustamento di quattro anni, ma che si dimezza quasi, 0,5%, se l’aggiustamento si prolunga fino a sette anni. Ad eccezione che per la Bulgaria, gli aggiustamenti previsti per 2025-2028 con la riforma proposta sono, più favorevoli di quelle prevedibili se fosse ripristinato il vecchio Patto. Relativamente a questo periodo, il Belgio e l’Italia sarebbero i Paesi più beneficiati dal nuovo Patto. Per l’Italia lo scarto sarebbe tra lo 0,9 % contro l’1,4% previsto con il vecchio Patto.
Dalle considerazioni sin qui fatte, si può senz’altro concludere che, a differenza degli entusiasmi di alcuni osservatori italiani, le proposte di revisione del Patto di stabilità avanzate nell’aprile 2023, ancorché meno ottuse e vessatorie del Patto sospeso nel 2020, smentiscono i due intendimenti proclamati quali assi principali della proposta: “titolarità” e “flessibilità”. È vero che la definizione delle “traiettorie tecniche” sarà preceduta da una fase di dialogo con i Governi nazionali, ma sarà sempre la Commissione a dire l’ultima parola sulle “traiettorie”, e il Consiglio sui Piani nazionali; il che riduce decisamente gli spazi di negoziazione e agibilità degli Stati membri. Analogamente, un percorso di aggiustamento pesantemente condizionato dalle “salvaguardie” riduce la flessibilità a un concetto privo di concreta effettività, e, per alcuni Stati, esso si può trasformare in una camicia di forza, se non addirittura in una Camicia di Nesso (ricordiamoci sempre della Grecia).
L’obiettivo generale dichiarato della proposta è “rafforzare la sostenibilità del debito pubblico e promuovere una crescita sostenibile e inclusiva in tutti gli Stati membri attraverso le riforme e gli investimenti”13. Un obiettivo che non dovrebbe lasciare spazio a nessun aggiustamento pro-ciclico, ma… “Poiché la proposta richiederà un importante aggiustamento fiscale da parte della maggior parte dei Paesi entro il 2028, la pro-ciclicità non può essere completamente evitata: parte di questo aggiustamento potrebbe coincidere con una recessione”14.
La battaglia sulle regole
Come si è capito, dopo la presentazione prima degli orientamenti e poi delle proposte della Commissione, il dibattito tra gli economisti – su cui si è in gran parte appoggiato il dibattito politico – si è incentrato prevalentemente sulle regole di governance per garantire la sostenibilità del debito. Così, la discussione “tecnica” sulla validità della DSA come base dei percorsi di aggiustamento – che sul piano tecnico ha avuto una mediazione nella proposta di rinviare di un anno la riforma per avere il tempo di mettere a punto una revisione della metodologia – ha trovato il suo pendant politico nello scontro tra fautori della flessibilità e della titolarità degli Stati membri e i difensori a oltranza di benchmark numerici uguali per tutti. Una contrapposizione che attualizza la dialettica pluridecennale tra due modi di concepire il capitalismo in Europa e che la pubblicistica ha banalizzato in scontro tra falchi e colombe o tra frugali e mediterranei o ancora tra formiche e cicale.
Come si sa, la Germania, con il suo ultraliberale Ministro delle Finanze Christian Lindner, è la capofila dei Paesi che si oppongono a una riforma basata sulla flessibilità e un aggiustamento attagliato alla situazione specifica di ogni Stato membro. Poco dopo la riunione ECOFIN (Ministri di Economia e Finanze dell’UE) del 14 marzo 202315 – che aveva accontentato la Germania con grandi enunciazioni di principio ma sostanzialmente approvava l’approccio degli orientamenti della Commissione del novembre 2022, rinviando la discussione sui punti controversi a dopo la presentazione delle proposte legislative – il Governo tedesco inviò informalmente un non paper16 in cui precisava critiche e richieste di cambiamento. Innanzitutto, “una regola di spesa come “benchmark quantitativo comune”. Per i Paesi con debito/PIL elevato: incremento annuo di almeno 1 punto percentuale della differenza tra crescita potenziale e crescita della spesa primaria netta. Bocciatura della DSA e introduzione di “salvaguardie comuni”, ben più pesanti di quelle introdotte poi dalla Commissione nelle proposte legislative: riduzione annua dello stock del debito dell’1%, per i Paesi con rischio elevato e dello 0,50% per quelli con rischio medio. Si ribadisce poi di rimanere ancorati a un “carattere multilaterale delle nostre regole di bilancio”, limitando solo a fattori eccezionali l’adattamento alle situazioni nazionali17.
Le posizioni di Lindner hanno trovato supporto scientifico in un saggio dell’Istituto di ricerca economica della Confindustria tedesca – pubblicato il 25 aprile 2023, un giorno prima della presentazione delle proposte della Commissione – la cui tesi è che esse non nuocerebbero ai Paesi con alto debito perché già impegnati in percorsi di aggiustamento comparabili se non più gravosi18.
Nonostante le proposte legislative del 26 aprile abbiano, con le “salvaguardie”, accolto gran parte delle richieste tedesche, Lindner manifesta immediatamente il suo disaccordo: “La Germania non sosterrebbe un allentamento del Patto di stabilità e crescita. In futuro, le regole fiscali dovranno costituire ancora più fortemente la base per la stabilità economica e la crescita”19. Concetti e posizioni ribadite successivamente in varie dichiarazioni ed interviste del Ministro Lindner20. In una di queste gli viene chiesto se la Germania è sola in questa battaglia; la risposta appare qualche giorno dopo in un editoriale pubblicato il 15 giugno su Die Welt e altri giornali europei, firmato dai Ministri delle Finanze di 11 Paesi (Germania, Repubblica Ceca, Austria, Bulgaria Danimarca, Croazia, Slovenia, Lituania, Lettonia, Estonia, Lussemburgo21) in cui – oltre all’apologia, se non rimpianto, del vecchio Patto e una filippica contro i tempi troppo lunghi dell’aggiustamento previsti dalla Commissione – rilanciano sostanzialmente le posizioni tedesche22. Nella riunione ECOFIN del 16 giugno 2023, il Ministro Lindner ribadisce le proprie posizioni, adducendo una motivazione in più: il rialzo dei tassi d’interessi che hanno ridotto lo spazio di ricorso al debito23.
La Corte dei Conti tedesca, in un rapporto inviato alle Camere il 29 giugno 2023, esprime una ferma critica della proposta della Commissione, riecheggiando quella del Ministro Lindner; ma se ne discosta su un punto: anziché una riduzione annua del debito (minimo da 0,50 a 1%), propone di fissare un numero massimo di anni entro il quale il parametro del 60% debba essere raggiunto24.
Il Governo che si è decisamente contrapposto alla linea della Germania è, senza dubbio, quello francese. In una Dichiarazione alla stampa, resa all’ingresso del Consiglio ECOFIN del 16 giugno 2023, il Ministro delle Finanze Bruno Le Maire ha innanzitutto ricordato i tre punti della posizione francese: sì alla differenziazione (“Noi partiamo tutti da situazioni di finanza pubblica differenti”), sì alla appropriazione25 (“E’ molto importante che gli Stati si approprino delle loro traiettorie di finanze pubbliche e che esse non siano imposte dall’esterno”; sì alle riforme e agli investimenti (“Noi, sotto l’autorità del Presidente della Repubblica, abbiamo intrapreso due riforme molto difficili e molto coraggiose: la riforma del mercato del lavoro e la riforma delle pensioni. Ci auguriamo evidentemente che ne sia tenuto conto nel Patto di Stabilità e Crescita”). Ma ha anche espresso un deciso no a “regole automatiche e uniformi” che sarebbero un errore economico (“Abbiamo già provato in passato ad avere regole automatiche e uniformi, questo ci ha condotto alla recessione”) ma sarebbero anche un errore politico (“sarebbe misconoscere la necessità di rispettare la sovranità degli Stati”).
Posizioni ripetute nel suo intervento nella riunione ECOFIN, e sostenute qualche giorno dopo dalla Primo Ministro Elisabeth Borne26. Peraltro, è illuminante l’affermazione fatta da Pierre Moscovici (“socialista, ex Commissario europeo all’Economia, ex Ministro francese delle Finanze, oggi presidente della Corte dei Conti,”) in una intervista del 3 luglio 2023, in cui auspica una accelerazione della riduzione del debito della Francia: “Prevedere una riduzione del debito di un punto del PIL per anno per i Paesi più indebitati, come chiede la Germania, non è insormontabile. Tuttavia, non è indispensabile inscriverlo nei testi; si tratta innanzitutto di una volontà politica” 27. In sostanza, il Governo francese si dice d’accordo con l’impostazione liberista delle proposte della Commissione, ma rivendica a sé il potere di decidere a suo piacimento le misure di “lacrime e sangue” da adottare, evocando la “sovranità nazionale”.
È interessante notare che tra i Governi che non hanno sottoscritto la dichiarazione insieme alla Germania, nessuno si è schierato in modo così netto come la Francia contro gli automatismi e i benchmark quantitativi uniformi chiesti da Lindner. A eccezione della Grecia – l’unico Paese, peraltro, a prendere posizione contro l’introduzione delle salvaguardie – i Governi dei principali Stati membri più indebitati (Italia, Spagna, Portogallo, Belgio) esprimono un consenso generale sulle regole della Commissione, insieme a fumosi cenni su qualche aspetto ancora da chiarire o spostando sugli investimenti e la crescita l’oggetto della loro attenzione28.
Per quanto riguarda l’Italia, non può passare inosservato il punto di vista dell’ex Ministro dell’Economia Giovanni Tria che vede come pericolo maggiore proprio la flessibilità che si tradurrebbe nel rimanere intrappolati in gabbie da cui non si potrà più sfuggire, proprio perché “concordate” con la Commissione. In sostanza, lo stesso meccanismo del PNRR, ma con la differenza che per quello i soldi ce li dà (o ce li procura) l’UE. Ecco cosa dice Tria: “La partita da giocare è quella di arrivare a una riforma che non lasci troppo spazio alla discrezionalità della Commissione europea. La proposta attuale viene “venduta” come una linea di maggiore flessibilità per i Paesi membri. In realtà, questo darebbe un potere enorme alla Commissione rischiando di condizionare gli Stati membri nel rapporto con i mercati finanziari (…) Per cui, la soluzione migliore, sarebbe quella di arrivare a un piano che dia garanzie su un percorso di aggiustamento debito-Pil. Ed ecco perché secondo il mio punto di vista è meglio “l’ipotesi tedesca”29. Posizione non lontana da quella dell’ex consigliere della BCE Lorenzo Bini Smaghi che, ha sostenuto, a proposito della proposta della Commissione, che: “si tratta di un commissariamento della politica di bilancio dei Paesi ad alto debito, in particolare dell’Italia”30.
Come si sono posizionate le forze politiche europee sulla questione delle regole? L’unica posizione resa pubblica sulla revisione del Patto di Stabilità è del Gruppo della Sinistra Europea al Parlamento Europeo, in cui, tra i motivi per i quali la proposta della Commissione deve essere respinta, c’è la critica alle “salvaguardie” e in particolare all’obbligo di aggiustamento minimo annuo31. Anche il Gruppo Renew Europe (liberali) ha assunto una posizione comune ma non l’ha resa pubblica, una sorta di codice di comportamento in dieci punti per orientare gli interventi in aula. Dalle indiscrezioni di stampa sul documento segreto si intuisce lo sforzo di equilibrismo per tener conto della presenza nello stesso Gruppo di esponenti dei partiti di Lindner e di Le Maire/Macron. Infatti, a fronte di un consenso generale nei confronti della proposta della Commissione e della necessità di regole anticicliche, si dice che vanno bene traiettorie di riduzione flessibili ma ogni anno ci deve essere una riduzione effettiva. Tutto ciò non ha impedito alla deputata Stéphanie Yon-Courtin, francese, intervenuta a nome del Gruppo nel dibattito del 9 maggio 2023 al Parlamento Europeo32, di pronunciarsi contro regole uniformi per la riduzione del debito e del deficit e contro un ritorno all’austerità33.
È solo dagli interventi nella stessa plenaria del Parlamento Europeo che si possono capire gli orientamenti delle altre forze politiche. Se si sta agli interventi svolti a nome dei Gruppi – a parte i Socialisti sostanzialmente d’accordo con la proposta della Commissione – le critiche sono generali. Naturalmente con motivazioni diverse: i Popolari e i Conservatori ripropongono gli argomenti del liberale Lindnen, reclamando regole più severe; Verdi, ID e Sinistra respingono l’intero impianto della proposta che ripropone gli antichi vizi del Patto sospeso.
Si sono, sin qui, analizzati la proposta della Commissione e il dibattito che ne è scaturito, sotto il profilo delle regole dei percorsi di aggiustamento; ne emerge la notevole problematicità della relazione tra sostenibilità del debito e crescita. Ma questo ci ricorda che i parametri di Maastricht, sono dei rapporti in cui c’è un numeratore (debito o deficit) e un denominatore rappresentato dal PIL; e, quindi, il rispetto o meno dei parametri non dipende solo dal numeratore ma anche dall’entità del denominatore.
I numeratori sotto accusa
Le criticità principali relative ai numeratori, messe in evidenza dal dibattito politico e scientifico, riguardano sia il disavanzo che il debito.
L’inutilità del 3%
Il numeratore che ha attirato su di sé le critiche più aspre è certamente il 3% del disavanzo. Più che “stupido” – secondo la ormai famosa definizione di Romano Prodi – sarebbe più appropriato chiamarlo “ottuso e cieco”, per usare un’altra definizione importante, quella del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Ottuso e cieco” perché non riesce a rendersi conto di ciò che ha intorno ovvero, per usare il linguaggio degli economisti, è indifferente al fatto che la situazione di bilancio pubblico corrisponda o meno all’utilizzo del potenziale economico. ”Se l’economia va oltre il potenziale o si avvicina ad esso, un ampio deficit è difficile da giustificare. Ma se l’economia è al di sotto del potenziale, potrebbe esserci una buona ragione per un deficit sostanziale, poiché l’inasprimento della politica di bilancio potrebbe portare restrizioni e austerità”34.
D’altra parte, è proprio il Trattato sul Funzionamento dell’UE che fa proprio questo approccio, quando dice che nel caso i parametri siano superati la “Commissione tiene conto anche dell’eventuale differenza tra il disavanzo pubblico e la spesa pubblica per gli investimenti e tiene conto di tutti gli altri fattori significativi, compresa la posizione economica e di bilancio a medio termine dello Stato membro”35. Tre considerazioni al riguardo. La prima: è lo stesso Trattato che relativizza il parametro del disavanzo; il fatto di non averne tenuto conto e dato da sempre una interpretazione pedissequa, con i paraocchi dell’ideologia, non è dovuto a mancanza di sagacia ma è il risultato di una ben precisa scelta politica. La seconda: alcuni economisti sostengono che tra i “fattori significativi” evocati dal Trattato debba avere un posto rilevante il disavanzo primario, cioè quello calcolato al netto degli interessi sul debito. “L’attuale criterio del deficit non solo è inadatto a controllare un consolidamento favorevole alla crescita, ma prende di mira anche una variabile che non è sotto il controllo dei singoli Governi. I Governi controllano solo il deficit primario. I costi di finanziamento dipendono fortemente da altri fattori, comprese le decisioni degli attori europei di garantire i titoli di Stato, limitare i premi di rischio o aumentare/abbassare i tassi di interesse.
Pertanto, se si vuole rendere il Patto di Stabilità e Crescita più favorevole alla crescita e più efficace, il deficit primario dovrebbe essere preso in considerazione per il criterio del disavanzo”36.
La terza: è ancora il Trattato a introdurre la questione degli investimenti e del contenuto di quel 3%. Come è stato più volte sottolineato quel numeratore è del tutto indifferente alla sua composizione, al fatto che si può rispettare il 3% con un disavanzo fatto solo di spesa corrente e zero investimenti o viceversa. Ma non distinguere la spesa corrente dalla spesa per investimenti può avere esiti opposti sulla crescita e anche sul debito37. Per questo motivo da anni e da più parti è stata prospettata l’esigenza di escludere gli investimenti dal calcolo del rapporto deficit/PI; con diverse proposte. Quella più massimalista è l’introduzione della golden rule: solo gli investimenti possono essere finanziati in disavanzo mentre il saldo corrente del bilancio pubblico deve essere sempre in pareggio. In questo modo non ci sarebbe più bisogno della soglia del 3%, perché un deficit originato solo da investimenti, che fosse anche del 4 o 5% del PIL ha un ritorno positivo in termini di crescita e quindi di riduzione del rapporto debito/PIL. In qualche modo, è la vulgata di Draghi sulla differenza tra debito buono e debito cattivo. È sorprendente constatare che alcuni sostenitori della golden rule sono gli stessi che in questi ultimi tempi hanno lanciato anatemi contro il superbonus nell’edilizia alimentando uno scontro politico tra fazioni di chi attribuisce tutti i guai del bilancio 2024 all’entità della spesa pubblica per questo provvedimento e chi invece ne mette in luce il contributo decisivo per l’incremento del PIL, oltre al merito di aver realizzato l’efficientamento energetico di una quota, seppur ancora modesta, del nostro patrimonio edilizio. Con il risultato che i cittadini italiani non hanno ancora capito se in quel caso si sia trattato di debito buono o cattivo.
A parte l’elementare considerazione che non tutti gli investimenti pubblici sono positivi, il corollario della golden rule è che nella situazione attuale dell’Italia, questo significherebbe una compressione ulteriore della spesa pubblica, un colpo mortale a quel po’ di stato sociale che è rimasto. A questa preoccupazione di solito si risponde che non si dovrebbero ridurre le spese per istruzione, ricerca, sanità, e in generale welfare, ma basterebbe eliminare sprechi, malversazioni, provvidenze a pioggia. La spending review, insomma. Non è difficile obiettare che quanto si potrebbe ricavarne non solo non basterebbe a finanziare spesa sociale e servizi pubblici comparabili con quelli di Paesi come Francia, Germania, Belgio – senza andare ai Paesi scandinavi – ma non sarebbe nemmeno sufficiente a ripianare i tagli subiti in questi ultimi lustri.
Una richiesta più limitata rispetto alla golden rule – che i media però continuano a chiamare così – è quella avanzata dal Governo italiano, ma anche da Francia e Spagna, nel negoziato sulla revisione del Patto di Stabilità, richiesta che ha una sua logica, quella di escludere dalle regole del Patto gli investimenti che gli Stati membri debbono fare per mettere in atto Programmi e politiche europee: oltre al cofinanziamento degli interventi dei vari Fondi europei, si tratterebbe del PNRR (per la parte finanziata da prestiti), degli investimenti per le transizioni ecologica e digitale, della difesa (in conseguenza dell’aiuto bellico all’Ucraina).
In conclusione, da qualunque lato lo si voglia esaminare, quel 3% per il disavanzo è un indicatore inutile e anche pernicioso. Per questo, da più parti se n’è chiesto l’abolizione.
L’obsolescenza del 60%
Sono ormai entrati nell’aneddotica dell’Unione Europea i criteri con cui sono stati scelti i parametri di Maastricht. La scelta del 60% del rapporto debito PIL, fu abbastanza banale: era la media nell’allora Comunità Europea. Oggi questo stesso rapporto nella Zona euro supera il 90% e in Italia supera il 140%. Già solo per questo quella soglia dovrebbe essere considerata inattuale. L’obiettivo di porre quel limite è sempre stato quello di ridurre il debito. Da tempo, in molti si è osservata la contraddizione interna al Trattato che da un lato dice: “Gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi” e che lo scopo della sorveglianza da parte della Commissione è “individuare errori rilevanti”38. Questo significa evitare l’esplosione del debito e, quindi, adoperarsi per la sua “sostenibilità”. Per converso, lo stesso Trattato nel momento in cui fissa il limite del 60% si pone l’obiettivo della riduzione. Ora “sostenibilità” e “riduzione” sono due nozioni non sovrapponibili. Vi può essere sostenibilità anche in presenza di un aumento del debito e di un superamento del limite del 60%. E, come ha recentemente detto l’economista Olivier Blanchard, la sostenibilità del debito è più importante della sua riduzione39; mentre, ancora una volta, la proposta della Commissione di revisione del Patto di Stabilità è ancorata alla logica della riduzione.
Ma in che misura sarà possibile ridurre il debito con l’aumento dei tassi d’interesse? E, ancora, visto che nell’UE siamo obbligati a fare investimenti sia per la transizione ecologica che per la difesa è realistico porsi l’obiettivo della riduzione del debito? Secondo le proiezioni al 2031 degli economisti dell’Istituto Dezernat Zukunft di Berlino40, soltanto a causa dell’aumento della spesa di finanziamento del debito e dell’invecchiamento della popolazione (per le pensioni da pagare) il debito nell’UE salirà al livello del 2021; se si aggiungono anche un aumento dei costi per la difesa nella misura del 2% del PIL e un incremento degli investimenti per la transizione ecologica pari all’1% del PIL, si arriverebbe a un livello di debito pubblico che supererebbe il picco del 92% raggiunto nel 2020 (vedi grafico).
D’altra parte, come sostiene Giovanni Giavazzi, nel quadro di regole che si va profilando, anche lo scorporo degli investimenti richiesto dal Governo italiano, potendosi applicare solo ai finanziamenti in essere e a quelli futuri, “non modificherebbe, se non marginalmente, il livello iniziale del nostro debito e quindi non renderebbe comunque possibile raggiungere il 60%”41.
Non si può che far propria questa conclusione: “Infine, il tentativo di ridurre il rapporto debito/Pil al 60% andrà a scapito della crescita a breve e lungo termine nei prossimi anni. Nel breve termine, perché la politica di bilancio restrittiva deprimerà ulteriormente un’economia stagnante, colpita dai rialzi dei tassi di interesse più rapidi nella storia della BCE. A lungo termine, perché le pressioni di bilancio ostacoleranno gli investimenti urgentemente necessari nella trasformazione. Mentre i paesi con un basso rapporto debito/PIL saranno in grado di sostenere le loro economie, i paesi con un rapporto debito/Pil elevato non lo faranno. Ciò non solo promuove la divergenza, ma rischia anche di portare a un’allocazione inefficiente del capitale”42.
Gli alfieri del denominatore
Da che esiste il Patto di Stabilità in tanti hanno spostato l’attenzione sul denominatore, esortando a pensare alla crescita che poi il resto si accomoda. Peraltro, pesa l’esperienza del periodo della crisi finanziaria e del debito sovrano (2008-2013), in cui tutto ciò che nei Paesi fortemente indebitati si è fatto per ridurre il debito è stato vanificato dalla caduta del PIL. In Italia, i richiami a puntare sul denominatore si sono intensificati dinanzi a una legge di bilancio in cui non si prospetta una riduzione del debito e sconta un consistente sforamento della soglia del 3% del rapporto deficit/PIL. D’altra parte, si dice, la Spagna riesce a tenere i conti in ordine perché la sua economia cresce di più. Quindi, solo un forte aumento del denominatore può far fronte a un numeratore destinato a crescere, in un contesto economico sfavorevole e aggravato dall’aumento dei costi di finanziamento.
Un’impresa che non sembra avere molte probabilità di successo. Qualcuno fa riferimento all’unica occasione che l’Italia può avere, e cioè al PNRR. Ma le modalità con cui si sta realizzando fanno presagire che non sarà affatto facile mantenere la previsione iniziale di un impatto pari a 3 punti percentuali di incremento del PIL al 2026. E comunque si tratta di una misura temporanea. Romano Prodi non vede altra strada che le riforme. “Lo schierarci verso una maggiore flessibilità fiscale per un lungo periodo di tempo ci obbliga quindi ad operare nella direzione delle ormai ben note riforme necessarie alla crescita”43. Le riforme dovrebbero riguardare Pubblica Amministrazione, Giustizia, Concorrenza, Lavoro, Ricerca, Scuola ecc.44. Pur prescindendo dal diverso segno politico e sociale (per esempio liberista o socialista) con cui si può fare ognuna di queste riforme, è indubitabile che le ricadute sul PIL non sarebbero certo a breve termine e, in parte, nemmeno a medio termine.
C’è anche chi, sempre a proposito della legge di bilancio italiana, ritiene “che non vi sono i margini per inseguire la crescita con manovre espansive ma che, nelle condizioni date, si ottiene di più, anche in termini di crescita, stabilizzando le aspettative dei mercati”45. Insomma, non muoversi troppo, magari poi questo può servire alla crescita.
Insomma, per trovare risposte all’esigenza di incrementare il denominatore occorre andare oltre il recinto di un sistema economico europeo caratterizzato dai vincoli di una moneta unica e, allo stesso tempo, dall’assenza di una politica di bilancio comune, ma anche da un’economia che avendo sacrificato la domanda interna in favore di un modello export led non riesce che a leccarsi le ferite ricevute dalla guerra e dalla riglobalizzazione. Ma uscire fuori da questo recinto significa uscire dal Trattato di Maastricht e dai suoi parametri; significa sancire l’inutilità e la nocività della governance economica, a cominciare dal MES e dallo stesso Patto di Stabilità.
Conclusioni
Da quanto detto sinora, si capisce che l’Unione Europea può decisamente fare a meno di un nuovo Patto di stabilità che, alla fine, è poco più di un maquillage del vecchio, e che sarebbe suo interesse abolire i parametri e mettere fine alla stagione ordoliberalista che con Maastricht ha stravolto il processo d’integrazione europea. Con l’intergovernativismo imperante nell’UE, non sembra che questa prospettiva abbia molte probabilità di realizzarsi.
Nel momento in cui si mette fine a questo scritto, non si sa se entro il 2023 i Governi dell’UE troveranno un accordo sul Patto. Se non dovessero riuscirci, il vecchio Patto rientrerebbe in vigore. Una prospettiva da molti esorcizzata, ma da qualcuno auspicata, anche con argomentazioni non superficiali: una gestione più intelligente, più anticiclica e più conforme ai Trattati sarebbe possibile e da preferire alle trappole del nuovo Patto46. Una posizione che sembrerebbe essere stata condivisa, sebbene non manifestamente, dai governanti italiani47.
In caso di mancato accordo e di provvidenziale resipiscenza, i Governi potrebbero però adottare soluzioni alternative. Si possono qui prospettare due possibili sbocchi “minimalistici” – nel senso che non implicano rivolgimenti del quadro istituzionale ed economico dell’Unione. Il primo: si potrebbe rinviare ancora di un anno ogni decisione sul Patto e sul MES, in modo da avere il tempo per cambiare il Protocollo n.12 del Trattato sul Funzionamento dell’UE48 – quello che contiene i malfamati parametri – e tutta la normativa derivata, a cominciare dalla Risoluzione del Consiglio Europeo del 199749, che per prima ha fissato norme vincolanti e sanzioni per il rispetto dei parametri. Un cambiamento che non richiederebbe modifiche del Trattato di Funzionamento dell’UE, che prevede già la possibilità di sostituire il Protocollo con una decisione del Consiglio secondo “una procedura legislativa speciale”, cioè di non codecisione con il Parlamento Europeo50. Una soluzione resa difficile dal vincolo dell’unanimità; non a caso il Progetto di Relazione per la modifica dei Trattati, presentato alla Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo, propone l’eliminazione dell’unanimità e il passaggio alla codecisione 51.
Un’altra possibile soluzione, peraltro non nuova e ancor più minimalista, potrebbe essere quella di abolire del tutto il Patto, anche sulla base della constatazione che in questi quattro anni di sospensione non è successo nessun cataclisma nella tenuta dei conti degli Stati membri. All’obiezione che così si lascerebbero le loro finanze pubbliche alla mercè dei mercati, si potrebbe rispondere che il sistema di sorveglianza legato al Semestre europeo continuerebbe a funzionare e a proteggere gli Stati dai mercati, meglio di quanto non lo farebbe il Patto quand’anche riformato. Ma è abbastanza improbabile che i Governi dell’UE adottino qualcuna di queste soluzioni, non foss’altro che per i problemi politici che in questo momento li assillano: la tenuta delle coalizioni governative, l’ascesa dei partiti di estrema destra, l’approssimarsi delle elezioni europee.
Non sappiamo nemmeno se un eventuale compromesso tra i Governi seguirà la strada indicata dalla Presidenza spagnola – cioè uno scambio tra lo scorporo degli investimenti e l’introduzione di una percentuale annua fissa di riduzione del debito – né come esso passerà al vaglio del Parlamento Europeo. Qualunque sia il Patto che ne risulterà, esso dovrà fare i conti con una serie di questioni di non poco conto. A partire da quelle di funzionamento -interazioni con gli altri strumenti di governance economica e con la BCE – a quelli di governo del bilancio europeo – “capacità fiscale europea” o “unione fiscale europea” da più parti invocate – ai comportamenti nei confronti dei mercati, alle conseguenze economiche della guerra in Ucraina, alla crisi energetica, ai mutamenti della geoeconomia. E poi, c’è il problema dei problemi: il nuovo Patto accrescerà il livello della democrazia nell’Unione Europea o la avvilirà più di prima? Di tutto questo converrà continuare a parlare.
Andrea Amato
L’articolo è la riproduzione di quello pubblicato nel n. 70 di Alternative per il socialismo (vedi l’indice)
- Cfr. Andrea Amato, Il MES e la questione democratica nell’Unione Europea, Alternative per il Socialismo, 66-67, 2023.[↩]
- Comunicazione della Commissione sugli orientamenti per una riforma del quadro di governance economica dell’UE, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52022DC0583.[↩]
- Commissione Europea, La Commissione propone nuove regole di governance economica adeguate alle sfide future. Comunicato stampa, 26 aprile 2023, https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/ip_23_2393.[↩]
- Intervento di Francesco Giavazzi al Forum Il nuovo Patto di Stabilità europeo: più vincoli o più opportunità per le politiche fiscali nazionali? – 4 giugno 2023, Festival Internazionale dell’Economia, Torino, https://www.festivalinternazionaledelleconomia.com/programma/il-nuovo-patto-di-stabilita-europeo-piu-vincoli-o-piu-opportunita-per-le-politiche-fiscali-nazionali/.[↩]
- Protocollo n.12 sulla Procedura per i disavanzi eccessivi, in riferimento all’art. 126, paragrafo 2 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, https://eur-lex.europa.eu/legal content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:12016E/PRO/12.[↩]
- AAVV, Building on the proposal by the EU-Commission for reforming the Stability and Growth Pact. Dezernat Zukunft – Institute for Macrofinance, Berlin, December 2022, https://www.dezernatzukunft.org/wp-content/uploads/2022/12/Building-on-the-proposal-by-the-EU-Commission-for-reforming-the-Stability-and-Growth-Pact.pdf.[↩]
- Cfr. Lucio Pench, Making sense of the European Commission’s fiscal governance reform plan, Policy brief, Bruegel, 04 September 2023, https://www.bruegel.org/policy-brief/making-sense-european-commissions-fiscal-governance-reform-plan.[↩]
- Si veda la nota n. 3.[↩]
- European Commission, Debt Sustainability Monitor 2022, European Economy Institutional Paper 199, April 2023, https://economy-finance.ec.europa.eu/system/files/2023-06/ip199_en_UPD.pdf.[↩]
- Art. 5 del Regolamento n.1467/97 così come modificato all’art. 4 della proposta della Commissione. Vedi nota n.3.[↩]
- Cfr: Darvas, Z., L. Welslau and J. Zettelmeyer, A quantitative evaluation of the European Commission ́s fiscal governance proposal, Working Paper 16, 18 September2023, Bruegel, https://www.bruegel.org/sites/default/files/2023-09/WP%2016_3.pdf; AAVV, The economic governance review and its impact on monetary- fiscal coordination. Economic Governance and EMU Scrutiny Unit, September 2023, European Parliament, https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/IDAN/2023/747863/IPOL(2023)747863_EN.pdf; Lucrezia Reichlin, The fight over EU fiscal reform, Project Syndicate, Jun 5, 2023, https://www.project-syndicate.org/commentary/european-commission-flawed-reform-of-stability-and-growth-pact-by-lucrezia-reichlin-2023-06?barrier=accesspaylog.[↩]
- EGOV-European Parliament, The economic governance review and its impact on monetary-fiscal coordination. In-depth Analysis requested by the ECON committee. Monetary Dialogue Papers, September 2023, https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/IDAN/2023/747863/IPOL(2023)747863_EN.pdf.[↩]
- Si veda la nota n.3.[↩]
- Darvas, Z., L. Welslau and J. Zettelmeyer, A quantitative evaluation…..op.cit.[↩]
- https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2023/03/14/economic-governance-framework-council-agrees-its-orientations-for-a-reform/.[↩]
- German technical non-paper following up on selected issues identified by the ECOFIN conclusions.[↩]
- Si veda anche l’articolo pubblicato un giorno prima della presentazione delle proposte della Commissione: Christian Lindner, We need to strengthen EU fiscal rules, not dilute them, Financial Times, April 25 2023, https://www.ft.com/content/8ec1d936-aabb-4f8a-b8db-ed45430888ab.[↩]
- Jürgen Matthes / Samina Sultan, Reform of EU-fiscal rules: Lindner iideas have merit. IW-Kurzbericht No. 29/2023, Institut der deutschen Wirtschaft, https://www.iwkoeln.de/fileadmin/user_upload/Studien/Kurzberichte/PDF/2023/IW-Kurzbericht_2023-Reform-EU-Fiskalregeln-englisch.pdf.[↩]
- EU proposal on fiscal rules falls short of German requirements, finance minister says. Reuters, April 26 2023, https://www.reuters.com/markets/europe/eu-proposal-fiscal-rules-falls-short-german-requirements-lindner-2023-04-26/.[↩]
- Germany warns of stalemate on EU fiscal rules reform. Financial Times, June 9 2023, https://www.ft.com/content/80292dc0-e538-48ef-a282-2c16686533b7; Finance Minister Christian Lindner in an interview with dpa and other European news agencies. Federal Ministry of Finance, 12 June 2023, https://www.bundesfinanzministerium.de/Content/EN/Interviews/2023/2023-06-12-dpa-and-other-news-agencies.html.[↩]
- Paesi Bassi, Finlandia e Svezia non hanno sottoscritto la dichiarazione per i cambi di Governo, ma possono essere assimilati alle posizioni tedesche.[↩]
- Op-ed by German Finance Minister Christian Lindner and other European finance ministers on the reform of Europe’s fiscal rules. Federal Ministry of Finance, 15 june 2023, https://www.bundesfinanzministerium.de/Content/EN/Standardartikel/Press_Room/Namensartikel/2023-06-15-reform-of-europes-fiscal-rules.html.[↩]
- Si veda l’intervento di Christian Lindner al Consiglio ECOFIN del 16 giugno 2023, https://video.consilium.europa.eu/event/it/26900.[↩]
- Cfr. Jonathan Packroff, German court slams EU idea on debt ‘flexibility’. Euractiv, 30 June 2023, https://www.euractiv.com/section/politics/news/german-court-slams-eu-idea-on-debt-flexibility/.[↩]
- Interessante l’adozione del termine appropriation per tradurre quello originale ownership, che le traduzioni ufficiali della Commissione ha reso negli anodini francese adhesion e italiano “titolarità”.[↩]
- Si veda il discorso di Elisabeth Borne alle Assises des Finances Publiques, il 19 giugno 2023 a Biercy, https://www.gouvernement.fr/discours/conclusion-des-assises-des-finances-publiques.[↩]
- https://www.euractiv.fr/section/economie/interview/pierre-moscovici-leffort-de-desendettement-de-la-france-se-fait-attendre/.[↩]
- Si vedano a questo proposito gli interventi nella riunione dei Ministri ECOFIN del 16 giugno 2023, https://video.consilium.europa.eu/event/it/26900.[↩]
- F. Di Bisceglie, Patto di stabilità, Mes e Finanziaria. Tria indica la direzione al governo. Formiche 31 agosto 2023, https://formiche.net/2023/08/patto-stabilita-mes-finanziaria-tria-meloni/.[↩]
- Intervista a “la Repubblica” del 27 aprile 2023, https://www.repubblica.it/economia/2023/04/27/news/bini_smaghi_patto_di_stabilita_regole_ue_intervista-397754909/.[↩]
- Five reasons why the EU Stability and Growth Pact needs a reset, not a make-over. The Left in EP, May 9 2023, https://left.eu/austerity-is-dead-long-live-austerity/.[↩]
- Cfr. Parlamento Europeo, Resoconto integrale della discussione nella plenaria del 9 maggio 2023 sulla revisione del Patto di Stabilità e Crescita, https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/CRE-9-2023-05-09-ITM-004_IT.html.[↩]
- Si veda anche: Alberto Cuena Vilches, Stability and Growth Pact: greater flexibility towards fiscal stability while securing efficient public spending. Renew Europe, April 26 2023, https://www.reneweuropegroup.eu/news/2023-04-26/stability-and-growth-pact-greater-flexibility-towards-fiscal-stability-while-securing-efficient-public-spending.[↩]
- AAVV, Building on the proposal…. Op.cit.[↩]
- Art. 126, paragrafo 3 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:2bf140bf-a3f8-4ab2-b506-fd71826e6da6.0017.02/DOC_2&format=PDF.[↩]
- Philippa Sigl-Glöckner, Max Krahé, Florian Kern, Florian Schuster, A proposal for reforming the Stability and Growth Pact. Dezernat Zukunft – Institut für makrofinanzen, Policy Paper, 15.06.2022, https://www.dezernatzukunft.org/wp-content/uploads/2022/06/Sigl-Gloeckner-et-al.-2022-A-proposal-for-reforming-the-Stability-and-Growth-pact.pdf.[↩]
- Cfr. Mario Baldassarri, Tornare ai parametri ci condannerà a crescere poco e male. Il Sole 24 ore, 9 maggio 2023, https://www.ilsole24ore.com/art/tornare-parametri-ci-condannera-crescere-poco-e-male-AE61kgPD?refresh_ce.[↩]
- Paragrafi 1 e 2 dell’art. 126 del Trattato…Cit.[↩]
- Intervento di Olivier Blanchard, il 20 settembre 2023, alla Commissione ECON del Parlamento Europeo nella audizione sulla Revisione della Governance economica, https://multimedia.europarl.europa.eu/it/webstreaming/committee-on-economic-and-monetary-affairs_20230920-1430-COMMITTEE-ECON.[↩]
- AAVV, Building on the proposal…Op.cit.[↩]
- Francesco Giavazzi, La regola sbagliata sul debito. Corriere della sera, 5 ottobre 2023.[↩]
- Philippa Sigl-Glöckner, ECON Committee Hearing Economic governance review 20. September 2023, https://www.europarl.europa.eu/cmsdata/275093/ECON%20hearing%20introductory%20statement._Ms%20Sigl-Gloeckner.pdf.[↩]
- Romano Prodi, La via stretta per conciliare le regole UE con le riforme. Il Messaggero, 30 settembre 2023, http://www.romanoprodi.it/strillo/patto-di-stabilita-la-via-stretta-per-conciliare-le-regole-ue-con-le-riforme_20321.html.[↩]
- Cfr. Romano Prodi, Il peggioramento dell’economia e le riforme non rinviabili. Il Messaggero, 16 settembre 2023, https://www.romanoprodi.it/articoli/il-peggioramento-delleconomia-non-e-una-scusa-per-rinviare-le-riforme_20289.html.[↩]
- Giovanni Tria, Nadef: stabilizzare le aspettative dei mercati. Il Sole 24 ore, 30 settembre 2023, https://24plus.ilsole24ore.com/art/nadef-stabilizzare-aspettative-mercati-AFZkeb2.[↩]
- Cfr. Lorenzo Bini Smaghi, La Riforma del Patto di Stabilità e Crescita: ce n’è veramente bisogno? Policy Bief 9/2022, Luiss School of European Political Economy, https://leap.luiss.it/wp-content/uploads/2022/06/PB9.22-La-Riforma-del-Patto-di-Stabilità-e-Crescita.pdf.[↩]
- Cfr. Lucrezia Reichlin, The fight…Op. cit.[↩]
- Si veda la nota n.5.[↩]
- Risoluzione del Consiglio Europeo relativa al Patto di Stabilità, del 17 giugno 1997, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:31997Y0802(01).[↩]
- Art. 126, paragrafo 14 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:2bf140bf-a3f8-4ab2-b506-fd71826e6da6.0017.02/DOC_2&format=PDF.[↩]
- Cfr. Parlamento Europeo-Commissione per gli affari costituzionali. Progetto di relazione sulle proposte del Parlamento europeo per quanto riguarda la modifica dei trattati, https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/AFCO-PR-746741_IT.pdf.[↩]