di Alfonso Gianni
Il Coordinamento per la democrazia costituzionale in un suo comunicato ha immediatamente espresso soddisfazione per il raggiungimento delle firme necessarie, un quinto dei membri del Senato, per la convocazione del referendum sulla modifica costituzionale concernente la riduzione del numero dei parlamentari di oltre il 37% in entrambe le camere. Ed ha contemporaneamente annunciato di costituire un suo comitato per il No al quesito referendario. In questo modo la parola torna ai cittadini come è sempre auspicabile che accada a fronte di una modifica costituzionale che riguarda la composizione e il funzionamento delle istituzioni, in questo caso del Parlamento.
La consultazione che non prevede un quorum di partecipanti per stabilirne la validità, a differenza dei referendum abrogativi di leggi ordinarie, dovrebbe perciò tenersi nella prossima primavera. Nel frattempo la legge costituzionale votata senza avere raggiunto la maggioranza dei due terzi nel passaggio parlamentare al Senato – cosa che altrimenti avrebbe reso impossibile il referendum – rimane congelata in attesa del responso popolare. Ma tutto ciò che sembra semplice e lineare in punta di diritto non si prospetta allo stesso modo in punto di fatto.
Le ragioni sono molteplici ed è bene considerarle con attenzione. Anzitutto lo spazio temporale per la raccolta delle firme necessarie, previsto dall’articolo 138, secondo comma, della nostra Costituzione, non è ancora esaurito. Scadrà il 12 gennaio. Questo significa che si possono eventualmente aggiungere altre firme a quelle finora raccolte, ma potrebbe accadere anche il contrario. Ovvero che pressioni che già si manifestano convincano qualcuno dei senatori a ritirare la propria adesione.
I 65 firmatari sono così suddivisi, per quanto riguarda la collocazione dei gruppi parlamentari: la maggioranza (41) appartengono a Forza Italia; 10 al gruppo Misto; 7 al Pd; 3 al M5stelle; 2 a Italia Viva e sempre 2 alla Lega. Come si vede siamo di fronte ad uno schieramento trasversale, pur essendo evidente la prevalenza dei senatori di Forza Italia. Vari giochi politici che possono intrecciarsi fin dai prossimi giorni potrebbero scatenare, a seconda delle convenienze, forzature di ogni tipo per impedire la convocazione del referendum. Sarà quindi bene in queste ore, specialmente nei territori di elezioni dei senatori firmatari, manifestare sostegno alla loro decisione.
Non c’è dubbio infatti che la convocazione del referendum introduce un ulteriore e non secondario elemento nella complicata partita politica che si gioca attorno alla stabilità del governo e alla durata stessa della legislatura. Chi infatti punta alla tenuta di entrambi e soprattutto di quest’ultima, dovrebbe avere tutto l’interesse affinché il referendum si possa fare nella prossima primavera. Qualunque sia l’esito del medesimo diventerebbe assai più difficile immaginare la convocazione di elezioni anticipate, specialmente se il responso popolare confermasse la riduzione dei parlamentari. Il che imporrebbe il ridisegno dei collegi elettorali e con ogni probabilità il cambiamento della legge elettorale – di cui già ora si discute, ma senza accordo – per evitare eccessive distorsioni nella rappresentanza delle scelte politiche degli elettori.
Chi al contrario ha interesse politico a fare crollare governo e legislatura, dovrebbe affrettarsi a determinare la caduta del Conte due facendo in modo che le elezioni anticipate spostino al poi la convocazione della consultazione referendaria. Il che potrebbe essere non solo nell’interesse delle destre, ma anche della formazione di Renzi (e non solo) che potrebbe così andare a nuove elezioni con le vecchie regole sia per quanto riguarda il numero degli eleggibili, sia per quanto riguarda la legge elettorale, ovvero il Rosatellum con una soglia di sbarramento, l’attuale 3% inferiore a quelle di cui si è sentito parlare in questi giorni.
Ma una soluzione di questo genere presenta diversi lati contradditori. Intanto non necessariamente la convocazione di elezioni anticipate imporrebbe lo scivolamento del referendum di un anno. Questo è previsto per i referendum abrogativi, ma non per quelli cosiddetti confermativi che concernono revisioni costituzionali. Quindi potrebbero verificarsi situazioni illogiche o addirittura assurde, come quella di un Parlamento che, da poco eletto, viene delegittimato dai possibili esiti di un referendum popolare. Se poi elezioni anticipate e referendum si tenessero in un unico election day la cosa assumerebbe toni tra il surreale e il comico.
Naturalmente non manca chi si arrovella attorno a questi marchingeni, cercando di utilizzare il referendum non per quello che è, cioè uno strumento prezioso quanto delicato di espressione della democrazia diretta, ma una specie di clava da usare per piegare la situazione a proprio vantaggio. Tra questi sicuramente Salvini e il suo ispiratore Calderoli. Infatti il 15 gennaio la Consulta dovrà pronunciarsi in merito alla proposta referendaria avanzata da questi ultimi per rendere integralmente maggioritario il nostro sistema elettorale. Più o meno sul modello inglese, proprio quello che ha dato pessima prova di sé nelle recentissime elezioni in Gran Bretagna, ove la distorsione del voto popolare è stata evidentissima. Basta pensare che per eleggere ogni deputato ad esempio dei Liberaldemocratici c’è voluto un numero di voti quasi dieci volte superiore a quello richiesto per eleggere un deputato tra i Conservatori!
E’ altamente improbabile, almeno sulla base della giurisprudenza fin qui consolidata, che la Corte Costituzionale possa ammettere un simile referendum, dal momento che non lascerebbe in piedi una legge elettorale immediatamente applicabile. Per questo Calderoli ha pensato di agganciare una delega al governo per ridisegnare i collegi e pensa che la convocazione del referendum sul taglio dei parlamentari potrebbe fornire lo spazio temporale necessario. Ma, come ben si vede, non solo sono calcoli da azzeccagarbugli, ma evidenziano anche la scarsa convinzione degli stessi proponenti sulla legittimità costituzionale del quesito referendario da essi avanzato.
In ogni caso la proclamazione del referendum sul taglio dei parlamentari va difesa da ogni miserabile calcolo politico. Si tratta di fare tornare in campo la volontà dei cittadini e di affrontare a viso aperto la demagogia populista. Il taglio dei parlamentari li allontanerebbe sempre più dagli elettori e accentuerebbe il controllo su di essi da parte delle segreterie dei partiti o dei vari centri di interesse. Oltretutto la motivazione del risparmio economico non sta in piedi, non solo perché sulla democrazia non si dovrebbero fare calcoli di questo genere, ma anche perché inevitabilmente aumenterebbe il numero degli assistenti dei parlamentari, vista l’impossibilità fisica di questi ultimi in numero ridotto di seguire tutte le attività, come quelle delle commissioni parlamentari decisive per il buon funzionamento dell’istituzione.
Ben altra cosa sarebbe stata una vera riforma istituzionale, come è stato suggerito lungo gli anni da tanti valenti costituzionalisti, che rinunciasse a un bicameralismo perfetto e puntasse ad un’unica Camera per l’esercizio del vitale potere legislativo, rendendola per ciò stesso più autorevole di fronte al paese da un lato e al governo dall’altro. Ma l’intento dei proponenti il taglio degli eletti non avevano al centro delle loro preoccupazioni il miglioramento del funzionamento parlamentare della nostra democrazia, ma il suo opposto, ovvero lo strapotere dell’esecutivo sul legislativo nonché la drastica limitazione e lo stravolgimento delle possibilità di espressione e di scelta politica dei cittadini. Per queste ragioni sarà importante battersi per il No in questo referendum, in ideale continuità con quanto si fece, vincendo, contro la controriforma Renzi-Boschi, aprendo senza paura un dibattito nel paese sull’importanza e sul significato della democrazia per la soddisfazione delle esigenze della società.