Il 20 settembre si è svolto il convegno intitolato ‘Il collasso della biosfera ed i compiti della politica’1, un convegno nel quale si è preso atto che la catastrofe è già in atto ed è in pieno svolgimento. Nel titolo si riassumono nella locuzione ‘i compiti della politica’ tutte le problematiche, le difficoltà, i progetti, le pratiche con cui si cerca di invertire il processo in atto. Le pratiche più innovative e radicali sono state testimoniate dai rappresentanti dei Fridays for Future e di Ultima Generazione, mentre Pero Bevilacqua nelle sue brevi conclusioni ha proposto un grande picnic collettivo sulla verde collina dove si vorrebbe costruire il nuovo stadio di Roma. La discussione si è sviluppata tra analisi, proposte e progetti che oscillavano tra il locale e il globale e non potrebbe che essere così a fronte della complessità e del carattere totalizzante del tema della crisi climatica del conseguente collasso della biosfera. A fronte della proposta puntuale del picnic romano, delle azioni di illegalità non violenta di Ultima Generazione, Ferrajoli, con la competenza ed il rigore che lo contraddistingue, ha proposto un ‘demanio globale’, una costituzione della terra poiché l’enunciazione di principi e diritti universali non ha nessun valore senza istituzioni di garanzia, quindi afferma la necessità di un demanio globale nel quale siano iscritti i beni da tutelare, iscritti in un catalogo ‘infinito’, poiché non finito e non limitato è il complesso degli ecosistemi, delle dinamiche climatiche, quindi non un catalogo di proprietà, di oggetti, ma un sistema prodotto dall’evoluzione delle forme di vita, delle soggettività come si sono venute costituendo dalla nascita della vita su questo pianeta ad oggi, al momento in cui questa soggettività globale, questa rete globale di soggettività, è messa radicalmente a rischio di estinzione. Una nuova costituzione nasce dalla rottura di un ordine o meglio di uno stato di cose, che può consistere anche in conflitto globale, per l’affermazione di nuovi principi di organizzazione della società, di coesistenza a livello globale. Dalla Resistenza è nata la Costituzione Italiana, dalla conclusione della Seconda Guerra Mondiale, con i suoi nuovi equilibri, è nata la carta delle Nazioni Unite, con i suoi meccanismi istituzionali a partire dal Consiglio di Sicurezza e dal Diritto di veto delle cinque ‘potenze vincitrici’.
A proposito del carattere cogente che secondo Ferrajoli dovrebbero avere a livello globale le istituzioni di garanzia, l’ONU mostra in tutta evidenza la sua sostanziale inutilità, l’incapacità sostanziale di governare in modo efficace qualsiasi conflitto regionale o globale, di essere il luogo dove si realizza una capacità di coordinamento e collaborazione, fondata sul compromesso tra interessi particolari, sulla loro subordinazione a ‘interessi’ generali. Lo sviluppo del cambiamento climatico, il progredire conseguente del collasso della biosfera, non è senza conseguenze sui modelli di riproduzione sociale, sulla formazione sociale globale; la trasformazione in corso attraverso l’uso intensivo e pervasivo di nuove tecnologie più che invertire il percorso verso la catastrofe produce pratiche più o meno efficaci di mitigazione dei suoi effetti, con la conseguenza comunque di aumentare le diseguaglianze di discriminare rispetto alla possibilità di essere protetti, di poter accedere a condizioni di vita protette, quel processo che abbiamo definito schematicamente come Neodarwinismo, una rozza schematizzazione, una caricatura dei modelli evolutivi, il cui prodotto non è la crescita della complessità delle forme di vita, degli ecosistemi, ma al contrario riduzione drammatica di questa complessità, la frammentazione dell’ecosistema globale, la gerarchizzazione delle società umane, nelle società umane in base alla qualità della vita, alla possibilità stessa di sopravvivenza. Sostanzialmente una pratica violenta, che alimenta conflitti, che produce conflitto in luogo della cooperazione necessaria ad invertire il progredire del collasso della vita come noi la conosciamo. La realizzazione di nuove tecnologie necessarie a sostenere forme di transizione ecologica ed energetica si traduce in una accentuazione delle forme di conflitto e competizione strategica -per il controllo delle materie prime e delle tecnologie- iscritta in un movimento generale che porta alla rottura della globalizzazione come si era affermata all’inizio del secolo ed ad una corsa frenetica ad armarsi a dotarsi di sistemi d’arma sempre più sofisticati, la crisi ecologica e climatica diventa componente essenziale -vincolo, contesto e strumento- degli scenari di guerra, delle strategie militari.
Giustamente la crisi climatica è definita come il contenitore di tutte le crisi, in una fase caratterizzata come non mai dall’intreccio dei diversi processi di crisi, ciò che ha portato all’uso del termine di policrisi. Essa rappresenta sopra ogni altra la negazione di ogni principio di speranza di possibilità di garantire un futuro.
L’uscita dalla seconda guerra mondiale con le sue decine di milioni di morti, l’annientamento della popolazione ebraica nei campi di concentramento, i 30 anni successivi sono stati vissuti come l’epoca della speranza, del progresso economico e sociale, dell’affermazione del capitalismo regolato, del processo di liberazione dei popoli dal gioco coloniale, benché gli equilibri globali fossero garantiti ed i conflitti locali si sviluppassero sotto l’egida dell’equilibrio delle forze sul piano nucleare, dove ogni aggiustamento doveva interdire un conflitto nucleare dal quale nessuno sarebbe uscito vincitore e l’umanità sarebbe sta ridotta ai minimi termini se non estinta.
Nel mondo in cui viviamo oggi non c’è traccia di quel sistema, di rapporti sociali, economici e politici. Addirittura viviamo la frammentazione del processo di globalizzazione che si era venuto affermando dopo il 1989, con l’affermarsi della Cina quale fabbrica del mondo. Viviamo nel prodotto della crisi del modello neoliberista, sgretolato sotto i colpi di crisi globali e regionali sempre più intense e ravvicinate. Questa crisi non ha prodotto un nuovo modello, una realtà globale fondata su nuove forme di cooperazione, semmai ha prodotto -come già detto- livelli più alti di competizione e conflittualità, con l’affermazione di nuovi poteri ed egemonie che l’innovazione tecnologica trainata dal digitale ha creato e continua a generare i quali entrano in contraddizione con i regimi politici e sociali esistenti che reagiscono- a seconda dei regimi- con forme diverse di regolazione, di maggior centralizzazione o articolazione dei poteri.
Tutto questo andamento, ciò ci interessa sottolineare, annienta ogni speranza per il futuro, produce per lo più l’affidarsi a forme di potere prive di legittimazione sostanziale. I conflitti sociali che pure si manifestano, nel loro riprodursi sono al di sotto di una soglia che permetta di rovesciare l’andamento dei processi globali, di farne dei protagonisti della trasformazione globale, benché di volta in volta si confrontino con la necessità di mitigare gli effetti delle innovazioni tecnologiche -nello specifico l’Intelligenza Artificiale- sulle condizioni di vita e di lavoro.
La perdita della speranza, di un orizzonte condiviso di trasformazione, di progetto di futuro concretamente praticato attraverso un processo di lotta, retroagisce sulla possibilità di agire per ricostruirlo. Un principio di speranza sostiene e si sostiene di ogni pratica tendente, finalizzata alla costruzione, alla autodeterminazione del proprio futuro.
La richiesta della pace contro il proliferare delle guerre e degli apparati militari, è una reazione a questo stato di cose, ma non è in grado di costruire una speranza condivisa, che si riconosce in pratiche diverse tra di loro, ma comunemente indirizzate a costruire un futuro condiviso, pratiche efficaci, caratterizzate da capacità concrete di indurre trasformazioni. Non a caso si affidano le proprie speranze a nuovi equilibri geopolitici di cui sono protagonisti regimi fondati su pratiche, principi ed ideologie discriminatorie, repressive e regressive.
Queste considerazioni costituiscono una domanda su come questo principio di speranza possa essere ritrovato, concretamente ricostruito, al di là delle dichiarazioni di principio, vissuto, sentito, interpretato e condiviso. La mancanza di questo sentire condiviso non può che farci rinchiudere in pratiche di autoconservazione sempre più parcellizzate ed in realtà sempre più feroci.
Il 7 ottobre in Israele, in Palestina un livello ulteriore di disumanità si è prodotto, nelle forme più feroci contro persone inermi, ma nel contesto della progressiva negazione dei diritti e delle condizioni di sopravvivenza di larga parte della popolazione palestinese, di cui possiamo avere una cronaca degli ultimi mesi nell’articolo di Franco Berardi Bifo L’umiliazione genera mostri2.
La pretesa di rappresentare i conflitti in corso, le loro manifestazioni in forme sempre più radicali e feroci, come lo scontro tra il mondo delle libertà contro il mondo dell’oppressione è la caricatura grottesca di una realtà sempre più drammatica, che nasconde l’assenza nella mente e nei cuori delle persone e delle popolazioni di una reale speranza praticata di costruzione di un futuro condiviso libero dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Franco Ferrari in un suo post su Facebook, che va letto per intero, conclude dicendo “Da un punto di vista classista, internazionalista e universalista ogni forma di essenzialismo va combattuta perché foriera di sciagure. Il nemico – per riprendere una nota formula – è sempre anche in casa propria.”
Il paradosso del nostro mondo generalmente sempre più tecnologizzato è il manifestarsi di movimenti e culture messianiche, che decretano il disvalore delle vite di chi non aderisce ai propri principi che prolificano sia sulla disperazione e lo spirito di vendetta di parti di umanità emarginate e sfruttate che sulla mancanza di senso che le esistenze sperimentano nelle aree più sviluppate del globo. Mancanza di senso, di speranza che si alimentano ed alimentano la capacità delle reti digitali di diffondere come un virus ogni sorta di credenza ingiustificata.
Il disvalore della vita altrui, la negazione del valore delle altre vite per la nostra stessa vita, produce le pratiche più feroci e bestiali -che le cronache di questi giorni ci consegnano a più riprese- ma non solo, meno diretta, ma altrettanto coinvolgente è l’indifferenza, l’assuefazione alla tragedia della morte, della miseria e delle sofferenze delle masse migranti. Il valore universale della vita costantemente citato e affermato, non ha valore concreto, costituisce una universalità fittizia, che manca di una identificazione nelle pratiche solidali concrete fondate sulla reciproca dipendenza e l’apertura delle nostre comunità.
Aperture e principi universali affermate nelle pratiche particolari, private e pubbliche, costruiscono e dipendono da un contesto, da un orizzonte che le può confermare o negare, che le può far sentire parte di movimento generale, di un principio di speranza o minacciate da uno stato di cose, da una tendenza contraria che le riduce ai minimi termini, ad una pratica resistente.
Le cronache di questi giorni, degli ultimi mesi. degli ultimi anni sembrano negare progressivamente un qualsiasi orizzonte di speranza, nonostante molte pratiche resistenti. Da questa realtà nasce la domanda di quale sia la soglia da superare, in termini di assunzione di responsabilità, di rischio personale e radicalità, di resistenza umana per ricostruire un principio di speranza, che ci proietti oltre la pura e semplice resistenza.
Roberto Rosso