Il clima che si respira nella campagna elettorale in Turchia lo possiamo misurare anche rispetto a quanto accaduto domenica. I calciatori dell’Amedspor vengono assaliti dal pubblico nazionalista della squadra del Bursaspor che dagli spalti lancia oggetti e inviti espliciti di violenza e pulizia etnica, e dalle sue forze di sicurezza che hanno addirittura assalito i giocatori negli spogliatoi. Una rappresentazione dell’odio nei confronti dei curdi che l’indagine chiesta dal ministro degli Interni Süleyman Soylu contro i funzionari pubblici incapaci di contenere l’ordine non sarà sufficiente certo a smorzare, così come a smantellare l’idea di una persistente persecuzione della componente curda e della sua forza politica nel paese, ritenuta peraltro fondamentale nella sconfitta del presidente in carica alle imminenti elezioni.
Pochi giorni prima, il primo marzo, dopo meno di un mese dal sisma, si è tenuta ad Ankara la grande assemblea nazionale del partito turco che controlla la maggioranza sin dal 2002. L’AKP, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, guidato da Recep Tayyip Erdoğan, che nonostante la catastrofe, costata migliaia di vite umane e una gravissima emergenza che ha generato milioni di sfollati e che ha toccato almeno 15 milioni di persone, ritiene di anticipare le elezioni legislative e presidenziali rispetto alla data prefissata.
Anticipando il voto al 14 maggio, si permetterà al presidente in carica di candidarsi per il terzo mandato consecutivo, in seguito alla convocazione del Parlamento che così facendo sfrutta l’unico meccanismo concesso dalla Costituzione. Nonostante i calcoli e le strategie però, in una situazione umanitaria ancora estremamente difficile, la riflessione sul terremoto e sulle cause dell’elevatissima mortalità, diviene cartina di tornasole sia per le elezioni politiche, che per analizzare l’operato del governo di fronte alla tragedia. In prima battuta sappiamo che lo stato di emergenza che convolge le province colpite nel sud e nel sud-est del paese, sancito ufficialmente da Erdoğan dopo il sisma, e che durerà fino al 6 maggio, non permetterà verosimilmente il normale svolgimento della campagna elettorale.
I dubbi sollevati rispetto a tale anticipazione sono pertanto numerosi. Le autorità elettorali potrebbero inoltre non riuscire ad organizzare lo scrutinio nelle zone devastate dal terremoto. Come riportato da Le Monde, le prefetture e i comuni sarebbero infatti straripanti di richieste per la sola registrazione dell’identità delle persone, e appare quindi molto difficoltosa l’iscrizione nelle liste elettorali di cittadini senza documenti, senza abitazione o sfollati in altre province del paese.
Lo stesso governo di Ankara dichiara che dei 2 milioni di sopravvissuti, oltre 1,4 milioni di persone sono sistemate in tende, e 46mila sono state trasferite in case container. Alvaro Rodriguez, funzionario dell’ONU in Turchia, afferma anche che centinaia di migliaia di persone versano ad oggi in difficilissime condizioni. La popolazione necessita fortemente di aiuti umanitari, e tra questi spiccano naturalmente gli alloggi, così come i servizi igienici.
Tre mesi di emergenza proclamata ufficialmente dal governo sono dunque tre mesi di sofferenza che ancora è davvero lontana dall’attenuarsi. I numeri, più delle parole, fanno emergere le proporzioni del disastro e la corsa alle elezioni risulta così ancor più eloquente. Fare passare più tempo, uscire dall’emergenza, potrebbe permettere alla popolazione di prendere maggior consapevolezza rispetto alle responsabilità del governo, che sin dal 2003 promise di regolamentare il settore edilizio, ma che deve in realtà fare i conti con la manifestazione concreta di vent’anni di urbanizzazione selvaggia, di immobili costruiti a dispetto della sicurezza.
Proprio nel 2018, prima delle elezioni, il governo introdusse un’amnistia in tutta la Turchia sanando i lavori di costruzione fuori norma, facendo incassare allo stato il corrispettivo di 1,2 miliardi di euro e facilitando senza troppi scossoni gli imprenditori fraudolenti. Per le elezioni del 2023 pare fosse in programma un’ulteriore sanatoria alla stessa stregua della precedente.
Erdoğan, che costruì la sua popolarità e consolidò il suo potere attraverso il business gigantesco dell’edilizia, divenuto uno dei settori trainanti dell’economia della Turchia, che la colloca al secondo posto nella classifica dei 250 più grandi appaltatori internazionali, ragione per cui è stata negli ultimi anni polo attrattivo anche per la Confederazione Elvetica, che ha cercato e promosso alleanze commerciali e pianificazione nell’esportazione dei finanziamenti dal 2021[1] attraverso incontri bilaterali, deve fare ora i conti con il potere distruttivo del terremoto unito alla speculazione edilizia dovuta al forzato fenomeno di gentrificazione, all’origine inoltre di un sempre più largo divario tra ricchi e poveri nella società.
A fine febbraio, il capo dello Stato si è scusato per i ritardi nei soccorsi dei primi giorni dopo il sisma, accusando poi ogni critica mossa al governo di essere un “dibattito vizioso”. Perché allora il presidente turco, unitamente al suo governo, è ritenuto responsabile delle dimensioni del dramma?
Se lo stato avesse applicato in maniera stringente le regole costruttive le vittime sarebbero state di un numero molto probabilmente inferiore. Di questo viene accusato il governo. La popolazione si è sentita abbandonata quando dopo il sisma non ha visto giungere il tempestivo arrivo dei soccorsi. Ma l’abbandono della popolazione ha radici in realtà lontane ed esse affondano nella corruzione sistemica, fattore che determina le proporzioni della tragedia, così come dimostrato da uno studio pubblicato da Nature il 13 gennaio 2011[2] in occasione dell’anniversario di un altro terribile terremoto, quello di Haiti del 2010, che uccise 230’000 persone, e lasciò senza casa 1,5 milioni di persone. I due ricercatori, Nicholas Ambraseys e Roger Bilham, del dipartimento di scienze geologiche dell’Università del Colorado, calcolano che l’83 % delle morti dovute al collasso degli edifici nei terremoti durante gli ultimi trent’anni si sia verificato in paesi enormemente corrotti.
Come riportano i ricercatori, l’industria delle costruzioni, che valeva allora 7,5 trilioni di dollari ed era destinata a raddoppiare nel decennio che sarebbe seguito, è riconosciuto come il segmento più corrotto dell’economia globale. Gli studiosi hanno analizzato l’incremento del tasso di mortalità nei terremoti che continua a salire nonostante i progressi nella progettazione sismica del secolo scorso, trovando un supporto statistico che prova una correlazione tra corruzione e perdita di vite umane. “La mortalità legata al terremoto è non tanto una funzione della geografia, quanto la possibilità di permettersi costruzioni resistenti ai terremoti e di far rispettare i regolamenti edilizi”.
Pur non avendo valore predittivo assoluto, trattandosi di fenomeni complessi per i quali intervengono diverse variabili, quanto affermato nello studio appare molto chiaro sul piano delle responsabilità. “L’integrità strutturale di un edificio non è più forte dell’integrità sociale del costruttore, e ogni nazione ha la responsabilità nei confronti dei propri cittadini di garantire un’adeguata ispezione. In particolare, le nazioni con una storia significativa di terremoti e con noti problemi di corruzione, dovrebbero ricordare che un’industria edile non regolamentata è un potenziale assassino”.
Elena Coniglio
[1] https://www.economiesuisse.ch/it/articoli/missione-economica-svizzera-turchia-affrontare-le-sfide-e-intensificare-le-relazioni
[2] https://www.researchgate.net/publication/49749502_Corruption_kills