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Donne costituenti

di Stefano
Galieni

Costituiscono quasi il 51% delle persone migranti regolarmente residenti in Italia (2,6 milioni alla fine del 2021), in molti casi sono state le prime a giungere, negli anni Settanta, in questo Paese, in virtù di una serie di fattori complessi, eppure, quasi sempre, nel parlare di immigrazione, prevale una declinazione al maschile, come se questa maggioranza dovesse rimanere relegata nell’invisibilità. Partendo da questo dato è stato nei giorni scorsi presentato al pubblico un prezioso volume, realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, per molti versi unico e che sembra rappresentare una sorta di primo risarcimento verso le tante che hanno realizzato da noi propri percorsi di riscatto ed emancipazione. “Le migrazioni femminili in Italia, Percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità” ha il pregio di trasformare dati quantitativi in riflessioni di carattere non solo sociologico ma anche politico, di cui è il caso di tenere conto. Il testo è diviso in 40 brevi saggi tematici, riuscendo così a rompere quelle rappresentazioni stereotipate e semplificate di un fatto sociale così vasto e articolato. Testi e approcci anche diversi che hanno in comune un punto di vista e di analisi per niente scontato: vulnerabilità e affermazione non sono elementi contraddittori ma definiscono sovente le stesse persone protagoniste, nella consapevolezza degli elementi di patriarcato a cui sono sottoposte tanto nelle società di provenienza quanto in quella che accoglie, di percorsi, individuali e collettivi di vero e proprio riscatto. Un riscatto che passa attraverso il lavoro, a volte lo studio, la formazione, ma soprattutto con l’enorme volontà di non soccombere e di rialzare la testa. La riflessione sul mondo vasto della migrazione femminile costringe anche la società italiana a fare i conti col proprio funzionamento interno. Se i primi arrivi corposi risalgono agli anni Settanta e se poi, ancora oggi, una parte enorme delle donne migranti occupate lavora nel settore dei servizi, soprattutto alla persona, questo dipende da un fattore scatenante. L’emancipazione della società italiana, l’ingresso, ancora insufficiente ma certamente significativo delle donne italiane nel mercato del lavoro, non si è tradotto nella realizzazione di un sistema di welfare tale da poter garantire anche il ruolo fondamentale nella riproduzione sociale. Non sono aumentati i servizi ne c’è stata una sufficiente nuova ripartizione dei compiti anche domestici, col risultato che tali lavori, non considerati spesso tali, sono stati “esternalizzati” alle donne migranti. Un trasferimento privatizzato di ruoli che ha garantito, soprattutto per le famiglie italiane in una condizione di benessere, di essere sgravate da lavori considerati di basso profilo, ma che ha portato anche tante donne migranti in una condizione di invisibilità fra le pareti domestiche di case non proprie. Se all’inizio le lavoratrici che venivano prese nelle case si ritrovavano a convivere con le famiglie presso cui prestavano servizio, oggi molte di loro – non tutte – hanno orari di lavoro e spazi per una vita propria. Una parte è riuscita, nei periodi in cui questo era meno difficile, a far divenire il proprio lavoro e il proprio reddito, strumento per attuare i ricongiungimenti familiari e ricostruirsi o costruirsi ex novo un proprio ambito, molte continuano a dover passare lunghi periodi dell’anno senza mai poter tornare a casa dove spesso hanno lasciato figli e mariti. Il danno affettivo di questo distacco non è in alcun modo in grado di essere compensato, si tratta di traumi e dolori che coinvolgono tanto le protagoniste quanto, soprattutto i propri figli.

Il testo finisce quindi col definire, per gran parte di queste donne una vera e propria condizione di classe che subisce forme diverse di sfruttamento ma in cui nascono stimolanti esempi di riscatto e di presa di coscienza. E la ricerca è cogente perché, come già accennato, rompe le generalizzazioni, parte dalle vicende dei primi anni Settanta e giunge ad oggi, analizza le diverse condizioni occupazionali, familiari, culturali di provenienza per fornire chiavi di lettura complesse, affronta la condizione delle nuove generazioni di nate in Italia ma alle prese tanto con una obsoleta legge sulla cittadinanza quanto da dinamiche forti in cui si incontrano tradizione e presente. Una sezione a parte è dedicata alle migrazioni forzate, dall’analisi sulla condizione giuridica delle rifugiate, esempio estremo di vittimizzazione della persona che non permette di valorizzarne le potenzialità soggettive, fino al detestato ma non sufficientemente affrontato tema della tratta per sfruttamento sessuale o lavorativo, in cui le donne coinvolte subiscono di volta in volta processi di criminalizzazione e, ancora di vittimizzazione, perdendo di vista il rispetto delle loro individuali vicende. In tale contesto e giustamente, Francesca De Masi, fra le autrici, della Cooperativa Be Free, evidenzia bene come anche l’accoglienza delle donne migranti debba avere una prospettiva femminista secondo un’ottica di genere. Ricchissima di spunti è la parte del volume dedicata all’inserimento occupazionale delle donne migranti. La crisi in atto dimostra, dati alla mano come il mercato del lavoro, di per se discriminante per donne autoctone e uomini migranti, agisca doppiamente sulle donne di origine straniera. La perdita di posti di lavoro che si è registrata durante la pandemia non è stata ancora riassorbita e comunque il gap gender salariale è enorme, segno di un sistema economico rigido e incapace di redistribuire i profitti. Si tratta di discriminazioni che agiscono spesso in forma velata, poco percepibile al di fuori, in cui si sommano le forme di sfruttamento nel campo della produzione a quelle della riproduzione sociale fino allo sfruttamento sessuale, con donne costrette, per restare a galla anche a subire contemporaneamente le tre diverse forme di produzione di profitto sulla propria pelle. Un viaggio in questo contesto porta per l’ennesima volta a rompere la rappresentazione donna straniera = colf/badante ma ad evidenziare come, col passare degli anni si sono realizzati percorsi di autoaffermazione nel campo dell’imprenditoria, del lavoro qualificato e quindi dell’indipendenza. Lo steccato degli stereotipi viene lentamente ma inesorabilmente distrutto tanto da vicende personali divenute simbolo, si pensi alle pioniere dell’emigrazione che si sono affermate nei diversi mondi di solito riservate ai maschi bianchi e autoctoni, quanto in maniera collettiva, affrontando le lotte per i diritti messe in campo per rivedere l’idea stessa di italianità e affermando una lettura femminista intersezionale della società di cui si fa parte. Insomma il testo, oltre ad offrire dati quantitativi e qualitativi compie una vera e propria scelta politica, si schiera in maniera netta laddove per troppo tempo le questioni poste sono state tenute in secondo piano anche dalle sinistre più radicali. Le esperienze sul campo, le analisi prodotte, i rimandi che collegano in maniera organica i diversi capitoli, danno l’idea di un’opera pensata per produrre dibattito e discussione in ambiti diversi, da quello accademico a quello politico e sindacale a quello militante. Inchiodano anche gli uomini a responsabilità oggettive e soggettive, rimettono in discussione quello che è il solo modello di sviluppo proposto, caratterizzato da apparentemente immutabili gerarchie che necessitano di essere rovesciate. Autrici e autori del volume vanno ringraziati per lo sforzo prodotto, chi scrive oltre che Benedetto Coccia, ci tiene particolarmente ad evidenziare il lavoro svolto da due donne straordinarie come Ginevra Demaio e Maria Paola Nanni che da tanti anni riescono a coniugare con rigore e freschezza, ogni propria ricerca capace di andare oltre ai numeri, restituendoci i volti e le storie delle persone.

Stefano Galieni

 

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