Il fatto scatenante, la scintilla, questa volta riguarda il tentativo di cacciare di casa alcune famiglie palestinesi da Gerusalemme est, nel quartiere di Sheikh al Jarrah per consegnarle a coloni israeliani, che ne rivendicano il possesso dal diciannovesimo secolo. Una vicenda giudiziaria che l’esercito di Tel Aviv ha deciso di risolvere manu militari. Il tutto nel periodo già complesso e carico di significati del ramadan, quando uno dei luoghi più contesi della “città santa” vede la spianata della moschea di Al Aqsa, confinante col Muro del pianto, frequentata da migliaia di cittadini e cittadine palestinesi. Ma si tratta del “casus belli”, l’ennesimo in uno spazio di terra che vede convivere nel conflitto due profonde crisi politiche e sociali. Il conflitto asimmetrico fra occupanti e occupati non si è di fatto mai interrotto: dopo la guerra del 1967, che portò all’annessione di fatto dell’intera West Bank e della Gaza Strip, si sono alternati momenti più cruenti di conflitto persistente, a tentativi, anche questi trattati in maniera diseguale dagli attori internazionali interessati, di un impossibile, a oggi, percorso di pace. Ripercorrere una storia sanguinosa che inizia con la fondazione stessa dello Stato di Israele e che negli anni ha visto risoluzioni Onu disattese, penetrazione continua e mai bloccata di coloni israeliani provenienti in gran parte dall’Est Europa, autorizzati ad attuare una vera e propria pulizia etnica nei territori a maggioranza palestinese, è compito dei tanti storici che si sono cimentati nel compito.
A oggi, nonostante sia riconosciuta l’esistenza di una Autorità nazionale palestinese (Anp), non esiste la continuità territoriale che permette di definire una entità statuale.
La Striscia di Gaza, confinante con l’Egitto, è stata abbandonata dagli abitanti israeliani divenendo il luogo di riorganizzazione militare soprattutto per una frangia di popolo palestinese.
Quella che chiamano “Cisgiordania”, area di terra occupata nel 1967, è ridotta ad un pulviscolo di cittadine e villaggi palestinesi separati fra loro da insediamenti israeliani protetti militarmente. La circolazione e la stessa tenuta economica delle popolazioni arabe è vincolata alle condizioni quotidiane per cui è possibile o meno superare un posto di blocco, giungere da Ramallah, Hebron, Nablus, Jenin, Betlemme a Gerusalemme senza essere rispediti indietro. Sono stati eretti muri, definiti circuiti stradali separati, uno riservato agli abitanti dei “settlement”, gli insediamenti dei coloni israeliani, l’altro alle popolazioni arabe.
La provocazione trumpiana di dichiarare Gerusalemme (da sempre città in cui convivono culture diverse e punto cardine del rapporto fra arabi e israeliani) come capitale indissolubile dello Stato di Israele, ha innescato l’ennesima, inevitabile condizione di conflitto insolubile.
Negli ultimi 35 anni intanto è cambiato profondamente anche il contesto palestinese. Se prima quello che emergeva era la proposta di uno stato fortemente laico e di impronta progressista rappresentato, nelle sue diverse sfaccettature dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), che ha avuto come figura storica quella di Yasser Arafat, oggi il potere dell’Autorità nazionale palestinese che ne è figlia è messo in discussione dal movimento di resistenza islamica Hamas, che domina politicamente e militarmente soprattutto a Gaza. Un cambio di paradigma cresciuto negli anni che annovera fra le cause la disillusione del ruolo propositivo delle forze progressiste occidentali a sostegno del popolo palestinese, il fallimento dei processi di pace in cui il punto di partenza assunto a livello internazionale è sempre stato quello di difendere i diritti dell’“unica democrazia mediorientale” (Israele) dalla minaccia araba, ma e forse soprattutto il crollo sociale ed economico di gran parte del popolo palestinese negli ultimi 35 anni. Un tempo – chi scrive ne è stato testimone – il riscatto politico che poteva portare a uno Stato di Palestina nella logica “due popoli e due Stati”, portava le migliori intelligenze palestinesi a costruirsi una propria classe dirigente colta e pronta ad affrontare le sfide socioeconomiche di un paese in costruzione. Tanti i giovani e le giovani che venivano a studiare in Occidente per riportare in patria un bagaglio di competenze in ogni ambito della vita sociale, economica, produttiva, culturale e scientifica, con cui realizzare un futuro.
L’eterno conflitto ha distrutto queste speranze e molte delle responsabilità albergano nella complicità o nel silenzio con cui Europa e Usa hanno avallato ogni scelta, anche la più irresponsabile di uno stato come quello israeliano, fondamentalmente strutturato su base etnico-religiosa, che negli anni ha operato quasi unicamente scelte reazionari tese a stabilire un ruolo dominante nell’area geopolitica.
Il ripiegarsi in un movimento che ha al centro la religione, come Hamas, è stata la risposta di chi ha continuato a resistere. Si tratta della risposta migliore? Anche qui facile parlare da fuori del contesto. Hamas, godendo certamente anche di appoggi internazionali, ha garantito e garantisce forme di welfare religioso per le famiglie rimaste senza reddito, i cui capifamiglia sono stati a volte uccisi, sono impegnati in guerra, sono reclusi da anni nelle prigioni israeliane. Chi è stato negli ultimi anni nella Striscia di Gaza ha visto crescere il numero delle donne che indossano il velo, diminuire ogni ruolo femminile che provi ad uscire dalla sfera domestica. Elementi che da Occidente potremmo superficialmente definire di involuzione sociale ma la cui responsabilità non è dovuta solo alla guerra.
Allo scoppio della prima Intifadah, infatti, uno dei primi provvedimenti presi dall’occupante israeliano fu quello di chiudere le scuole, anche elementari, perché era in quelle scuole che i bambini imparavano a rivoltarsi con il lancio delle pietre. Contemporaneamente, con l’obiettivo di distruggere l’Olp e le forze della sinistra palestinese, all’epoca molto consistenti, è comprovato che Israele finanziò l’apertura delle scuole coraniche, ritenute meno offensive e pericolose. Eppure è stato da quelle scuole che sono partiti gli attacchi più sanguinosi, spesso suicidi, verso l’esercito e a volte i civili israeliani.
E oggi? Israele vive una crisi politica profonda, non si riesce a formare una maggioranza parlamentare al punto che si andrà molto probabilmente alle quinte elezioni consecutive per poter avere un governo con una maggioranza. Anche in quello che resta della Palestina si sarebbero dovute tenere elezioni per confermare o rinnovare i vertici dell’Anp ma non ci sono le condizioni per andare al voto e tutto è rimandato sine die. Gli “Accordi di Abramo”, come pomposamente sono stati chiamati, stanno definendo nuove relazioni fra Israele ed alcune petromonarchie del Golfo, lasciando ancora più isolate le istanze palestinesi.
Questo è il quadro in cui si inserisce la nuova offensiva israeliana contro la popolazione di Gaza e Cisgiordania, le centinaia di feriti sulla Spianata della moschea, quello che nei prossimi giorni, nelle prossime ore, potrebbe accadere. Ma c’è un punto, ancora non menzionato per cui non vogliamo fermarci a raccontare di un conflitto, diverso e uguale da sempre, in cui il secondo esercito del pianeta scarica tutta la propria violenza contro chi resiste e semplicemente vuole vivere.
La vicenda palestinese è una di quelle che funge da cartina di tornasole per comprendere appieno la deformazione dell’informazione mainstream in Europa, l’assenza di un reale pluralismo, il ruolo di orientamento, sarebbe meglio definirlo “disorientamento” dell’opinione pubblica europea scientemente mantenuto per tanti anni. Tante le ragioni che lo hanno determinato: il senso di colpa dei governi europei nei confronti dello sterminio operato dalle forze nazifasciste durante il secondo conflitto mondiale, l’importanza strategica e geopolitica della formazione di uno Stato potente nell’intricato scacchiere mediorientale, l’islamofobia che non nasce certo l’11 settembre ma ha radici profonde, storiche, culturali, sociali ed economiche, il ruolo dell’industria militare, l’instabilità anche indotta, dei paesi circostanti, i retaggi di una “guerra fredda” oggi più attuale di ieri. Fatto sta che a leggere i giornali in buona parte del continente, ad ascoltare le trasmissioni televisive, continua un racconto del conflitto, diviso in “buoni” e “cattivi”, in cui anche l’esercito israeliano è sempre dalla parte della ragione, anche quando, per effetti collaterali o perché ancora – come più volte raccontato – i “perfidi islamici” utilizzano i civili come scudi umani, a morire sono bambini, anche in fasce, in palazzi che crollano sotto attacchi missilistici.
Il racconto mediatico di questi giorni è intriso di una sorta di mortifera “tifoseria” secondo cui gli attacchi (mirati?) di Israele e dei suoi cacciabombardieri ultramoderni sono soltanto la giusta risposta ai razzi lanciati da Hamas contro Tel Aviv e Gerusalemme Ovest (quella ebraica). Cosa importa se il computo delle vittime, dei feriti è drammaticamente sproporzionato quando anche l’uccisione mirata di un presunto terrorista che vive in un altro Stato è raccontata come legittima difesa anche se provoca la morte di decine di innocenti?
Un racconto unidimensionale in cui anche le voci dissidenti provenienti dal mondo ebraico, due per tutte quelle di Moni Ovadia o di David Grossman, vengono silenziate in quanto non compatibili con la realtà dei vincitori che va preconfezionata. Nessun dibattito è possibile; o il popolo palestinese sceglie di dotarsi di rappresentanti compatibili con le potenze occidentali e con la pax israeliana o i già pochi diritti di cui dispone vengono rimessi continuamente in discussione. Non basta che proseguano – indipendentemente dalle condanne Onu – gli espropri e le demolizioni di abitazioni palestinesi, la spoliazione di terre, l’edificazione di nuovi insediamenti israeliani, ogni critica semplicemente non è ammessa.
Valga il fatto che sulle piattaforme social come Facebook mostrare gli effetti dei bombardamenti israeliani, inneggiare alla Palestina e alle legittime lotte del suo popolo porta a essere, almeno temporaneamente, bloccati. E quello che vale per piattaforme private, la cui linea editoriale è definita da gruppi di potere, vale anche per il servizio pubblico radiotelevisivo con un’oscenità nella distorsione del reale senza pari. Un tema solo italiano? Affatto. La Germania, che più dell’Italia, continua a percepire una parte buia della propria storia, carica della colpa verso il mondo ebraico per l’Olocausto, toglie fondi alle organizzazioni no profit che operano per la pace in Palestina, nega le piazze per dimostrazioni che richiamano ai diritti del popolo palestinese. Ma nell’intera Europa e per molteplici responsabilità l’equiparazione fra antisemitismo, antisionismo, critica ai governi di Israele, costituiscono un terreno scivoloso su cui a volte è problematico prendere parola, soprattutto quando gli elementi di conflittualità tornano nella stessa Europa da cui sono partiti.
Creare una discussione laica in tal senso, che rimetta al centro i diritti legittimi non solo dei popoli ma di ognuna delle persone che in uno spazio di terra grande quanto il Lazio vive in una dimensione gerarchica perenne, nella paura continua, nell’odio, derivante da una condizione di guerra mai finita deve e può essere compito di una produzione di informazione utile alla realizzazione di reali processi di pacificazione.
L’escalation militare di queste ore rappresenterà l’ennesima ferita aperta e ci vorranno forse generazioni per provare a ricostruire un minimo di tessuto relazionale in grado di superare la voglia di vendetta, il dolore accumulato, le ingiustizie subite. Ci vorrà un lavoro di tessitura in cui i diritti di un popolo che paga responsabilità non sue da 80 anni possano tornare al centro di una discussione e non essere considerati come fastidioso, misero risarcimento di cui rendere conto. Ci vorrà la disponibilità a considerare Gerusalemme come una città libera e non vincolata a un potere statuale, ad accettare il diritto al ritorno delle famiglie palestinesi cacciate dalle proprie abitazioni nel corso dei decenni, si dovranno immaginare vincoli di convivenza che oggi non sembrano poter trovare forma compiuta: due popoli per due Stati? Uno Stato “binazionale”, una forma ancora non sperimentata per garantire a tutte e a tutti di vivere in pace?
Ma se sulla legittimità dei diritti di chi oggi è sotto occupazione o sotto bombardamenti non si costruisce un’informazione libera da pregiudizi, sarà impossibile la formazione di un’opinione pubblica internazionale, capace di influire, composta da persone consapevoli. Di persone consapevoli ha bisogno questo continente, per non cadere nella logica perdente di un’analisi binaria: stai con la Palestina o stai con Israele?”
La consapevolezza dovrebbe portare a dire: “sto con la Palestina e in questa maniera garantisco un futuro anche al popolo israeliano”.
Ma fino a quando ci saranno, è il caso di una nota giornalista italiana, operatori dell’informazione che diranno tranquillamente in Rai – è accaduto alcuni anni fa ma nulla è cambiato – “il nostro compito non è informare il pubblico ma orientarlo”, resteremo sempre in mezzo al guado.
2 Commenti. Nuovo commento
Il PD come al solito fa il pesce in barile:va alla manifestazione a favore di Israele insieme a Salvini e Tajani,ma contemporaneamente telefona all’ambasciatore in Italia dell’autorità palestinese.Troppo comodo,stare con l’oppressore e accarezzare l’oppresso!
israele mi ricorda tanto il sudafrica della apartheid. quando MANDELA era in carcere con la differenza che le carceri israeliane sono piene di centinaia di mandela(PALESTINESI)senza processo.israele unica democrazia in medio oriente PALLE.