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Un giorno da ricordare

di Luciano
Beolchi

Avremmo voluto mettere come titolo un giorno felice, ma è impossibile farlo con quello che è successo e continua a succedere a Gaza. E tuttavia, dopo aver toccato il fondo nel 2021, al momento della fuga degli occidentali dall’Afghanistan, il diritto internazionale sembra tornare vigorosamente in vita e non più solo contro i negri come è stato per qualche anno. Se l’ordinanza emessa dalla Corte Internazionale di Giustizia il 26 gennaio 2024 aveva fatto scandalo – plausibilità del crimine di genocidio per Israele e misure urgenti per contrastarlo – la sentenza a parere resa pubblica il 18 luglio sempre contro Israele è addirittura esplosiva. Nel frattempo la stessa Corte ha emesso altre due ordinanze, il 28 marzo e il 24 maggio.
Anche per quello, l’attacco contro la fortezza più inattaccabile dei bianchi è partito dal Sudafrica che conosce bene la discriminazione, compresa quella di giustizia e a ragion veduta ha chiamato Israele a rispondere di apartheid e genocidio di fronte al Corte Internazionale di Giustizia1.
Poiché i processi per genocidio sono lunghi e molto complessi, la stessa Convenzione del 1948 ha previsto delle misure cautelari e preventive, quando non solo la Corte si dichiara competente, ma considera che l’accusa di genocidio non solo è plausibile ma esiste “un rischio reale e imminente [di] pregiudizio irreparabile” tale da imporre misure di urgenza (ordinanza del 26 gennaio).
Una delle misure provvisorie, votate anche dal giudice “ad hoc” di nomina israeliana, invitava il governo di Israele a far cessare e punire “gli incitamenti al genocidio” e di impedire i crimini ommessi al proprio esercito.
Le due successive ordinanze del 28 marzo e del 24 maggio confermavano le misure del 26 gennaio e rilevavano che la situazione si stava aggravando con rischio di epidemie e di una malnutrizione che in realtà è vera e propria carestia provocata espressamente2. La CIG si era spinta a ordinare la fine di ogni operazione a Rafah ma anche in questo caso non era stata ascoltata.
La carestia deliberatamente imposta alle popolazioni costituisce tanto un crimine di guerra che un crimine contro l’umanità, in entrambi i casi sottoposto alla giurisdizione del Tribunale Penale Internazionale, che ha già emesso mandato di cattura contro Gallant e Netanyahu: per questo delitto sono a rischio non solo loro ma tutti gli ufficiali comandanti che hanno dato l’ordine e quelli che l’hanno fatto eseguire.
Il procuratore Khan ha dichiarato di sospettare che i dirigenti israeliani abbiano compiuto “persecuzioni” e “atti inumani”, ma anche preso di mira deliberatamente i civili “per provocare intenzionalmente gravi sofferenze (“la vendetta” ndr.) o gravi lesioni al corpo e alla salute.
Karim Khan è Procuratore del Tribunale Penale Internazionale che persegue le responsabilità individuali e il 21 maggio 2024 ha richiesto l’emissione di mandati d’arresto nei confronti di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant e i dirigenti di Hamas.
Ricordiamo che La Corte Penale Internazionale giudica gli individui responsabili di crimini contro l’umanità, mentre la Corte Internazionale di Giustizia giudica gli stati per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La guerra scatenata dopo la battaglia del 7 ottobre è oggetto di due procedimenti concomitanti, ma distinti presso le due istanze, entrambe con sede all’Aja.
La Corte Internazionale di Giustizia, che non sarebbe sbagliato considerare l’istanza di giustizia delle Nazioni Unite, è stata adita dal Sudafrica in base alla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948 e ha già emesso tre ordinanze di misure provvisorie a carico di Israele. Non ha solo ritenuto plausibile l’accusa di genocidio e perseguibile Israele per quel crimine, ma ha considerato le accuse talmente pertinenti e valide da imporre delle misure provvisorie in difesa della popolazione vittima del genocidio: misure che Israele si è guardato bene dall’adottare e che non potranno che aggravare la sua posizione di imputato e rafforzare l’atto di accusa.
Su un’altra questione la stessa Corte ha ora emesso sentenza, su richiesta di un parere dell’Assemblea delle Nazioni Unite e la sentenza è pesantissima perché alla domanda dell’Assemblea delle Nazioni Unite se Israele ha messo in atto un’occupazione illegale e se si è reso responsabile di aver generato un regime di apartheid e segregazione razziale ha risposto che sì, Israele si è reso responsabile di aver istituito nei territori occupati, intesi come un tutto unico costituito da Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza, un regime di apartheid e di segregazione razziale. Non è un’ipotesi: è un’accusa e una constatazione che, emessa da una Corte di Giustizia, diventa sentenza.
L’opinione in questione consta di 32 pagine (inclusa l’opinione dissenziente del giudice Sebutinde e le dichiarazioni degli altri giudici) che il 19 luglio sono state lette dal presidente della Corte, il libanese Nawaf Salam e conclude “Israele ha obbligo di porre fine alla sua presenza nei Territori Occupati Palestinesi il prima possibile”.
Qui bisogna essere molto chiari su un punto: non tocca alla Corte Internazionale di Giustizia stabilire quale guerra sia legittima e quale no e, di conseguenza, quale occupazione di territorio sia legittima e quale no. L’occupazione di Israele è illegittima perché nel corso di questa occupazione Israele si è reso responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità e in particolare del crimine di apartheid e di segregazione razziale cui fa riferimento la presente sentenza.
La richiesta di parere è stata avanzata nel dicembre 2022 e riguarda un argomento molto più ampio di quello proposto dalla stessa assemblea nel 2004, se cioè la costruzione israeliana del muro di separazione fosse legale o illegale.
All’epoca la Corte rispose che era illegale, ma non poteva – o riteneva di non potere – andare oltre la domanda medesima. In questo caso la domanda è ben più esplosiva: se cioè Israele abbia istituito nei territori occupati un regime di apartheid e di segregazione razziale.
Una linea difensiva pro-israeliana sostiene che Israele non può essere ritenuto responsabile di quanto accade al di fuori delle proprie frontiere, ma il diritto internazionale stabilisce chiaramente che la forza occupante con totale e piena autorità militare e civile sui territori occupati ha anche piena responsabilità di quanto viene imposto alla popolazione. Del resto, per tagliare la testa al toro, proprio in questi giorni la Knesset ha votato contro ogni ipotesi di legittimità presente e futura dello Stato palestinese (68 voti contro 9, su 120 deputati, mentre la cosiddetta opposizione sionista ha scelto di non manifestarsi abbandonando l’aula).
Netanyahu, nel comunicato di risposta alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, ha risposto che: “Il popolo ebraico non occupa la sua stessa terra, compresa la nostra eterna capitale Gerusalemme, né Giudea e Samaria (la Cisgiordania)” e Ben-Gvir, esponente dell’ultra destra razzista di governo ha detto: “È tempo di affermare la sovranità sui territori”.
I sostenitori di Israele sembra che queste parole non le sentano neanche e ripetono la litania: “Due popoli, due stati”, come se non si fossero accorti di settecentomila coloni ebrei che si sono installati in Cisgiordania e a Gerusalemme3; e questo è già, chiaro e lampante, un crimine contro l’umanità che rende illegale e criminale l’occupazione. Su questo crimine originario se ne è installato un altro che la Corte Internazionale di Giustizia riconosce come crimine contro l’umanità: crimine di apartheid e discriminazione razziale, con metodi a volte subdoli e più spesso violenti come  la costruzione di colonie che gli accordi di Oslo avrebbero dovuto impedire, il trasferimento della propria popolazione nel territorio occupato, il riconoscimento degli insediamenti giudicati illegali dai tribunali israeliani stessi e rapidamente legalizzati dal governo, il doppio standard legale a partire dall’armamento di una parte della popolazione, la demolizione delle case palestinesi, il furto di terre, il taglio degli alberi, il furto dell’acqua, il trasferimento forzato della popolazione occupata, vuoi con metodi cosiddetti legali, vuoi con la violenza, l’intimidazione e la sopraffazione, i muri, le doppie strade, con la discriminazione per tutte le attività amministrative, dei percorsi scolastici e del servizio sanitario: persino il raggiungimento della maggiore età fissato ad età diverse per i palestinesi e per gli occupanti.
Tutte misure che secondo la sentenza della Corte devono cessare “as rapidly as possible”, quanto più rapidamente possibile. Israele ha anche l’obbligo di fornire una piena riparazione per i suoi atti illeciti a livello internazionale a tutte le persone fisiche e giuridiche interessate: la riparazione comprende la restituzione, il risarcimento e la soddisfazione”. Ovvero, la restituzione di proprietà (prima incamerate dal demanio, poi trasferite a cittadini israeliani esclusivamente ebrei), lo smantellamento del muro e delle colonie, la fine di tutte le politiche volte ad alterazioni demografiche, il ritorno dei palestinesi il cui diritto all’autodeterminazione viene definito inalienabile.
Ma a Court is just a Court, un Tribunale è solo un Tribunale, ha scritto uno dei giudici della Corte Internazionale di Giustizia che, senza voler costituire una graduatoria di importanza con la Corte Penale Internazionale, è qualcosa di più di un semplice tribunale, sia pure internazionale, perché è l’istanza giuridica delle Nazioni Unite che non possono non tenerne conto, dato che sono state proprio loro a richiedere il parere da cui è scaturita questa sentenza.

Per anni si è discusso della debolezza e dell’inanità delle Nazioni Unite proponendo come soluzione modifiche formali e organizzative, come l’ingresso di nuovi membri nel Consiglio di Sicurezza o, secondo gli occidentali, l’espulsione della Russia dallo stesso Consiglio. Oggi, di fronte alla questione giuridica sollevata dalla Corte Internazionale di Giustizia e posta nelle mani dell’assemblea, è evidente che la riforma delle Nazioni Unite non si può fare sul piano formale, ma solo su quello della lotta politica e ciò che è in discussione è lo strapotere di una minoranza di paesi occidentali sulla grande maggioranza dei popoli e delle nazioni del mondo.
Fino a quando i dominatori di oggi saranno i dominatori di domani e riusciranno a tenere in catene il mondo intero? L’idea della parità tra le nazioni e della soluzione pacifica delle controversie attraverso le Nazioni Unite è fallita nel momento in cui un piccolo stato, in grazia dell’azione intimidatoria del suo protettore e mandante si rifiuta di prendere in considerazione oltre 250 risoluzioni delle Nazioni Unite che condannano la sua politica vessatoria nei confronti di un piccolo popolo eroico; e a queste condanne ora si aggiungono le accuse “super partes” di genocidio e apartheid. È difficile pensare che i paesi occidentali prenderanno in esame decisioni di giustizia anche se nel fronte razziale cominciano a vedersi delle spaccature e nello stesso momento in cui la Germania e la Gran Bretagna accentuano la persecuzione contro chi partecipa al boicottaggio dello stato genocida e razzista, Spagna, Norvegia e Irlanda il 28 maggio si sono aggiunti agli altri 143 stati che riconoscono lo Stato palestinese.
Il teatro politico in cui si svolge questa battaglia però è molto più vasto della piccola Europa, sempre più isolata e debole e che, per quanto faccia la voce grossa per conto del padrone vede i suoi cosiddetti valori e la favola del mondo libero a trazione europea sempre più ignorati per non dire disprezzati dal resto del mondo.
La vittoria è stata importante, ma la partita è appena iniziata. Una nuova partita. Dopo 75 anni in cui Israele ha fatto tutto ciò che ha voluto, scatenando una feroce oppressione in nome della libertà e della democrazia, sempre sostenuto dai suoi alleati occidentali, oggi la partita si gioca sotto un nuovo titolo e si chiama genocidio, apartheid e discriminazione razziale. La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia riguarda in linea di diritto, ma soprattutto in termini politici tutti coloro che continueranno a provvedere di armi, soldi e sostegno politico a una politica genocida e razzista di cui anch’essi dovranno rispondere, per il passato e per il presente.
Siamo perfettamente consapevoli che il mandato di cattura contro Benjamin Nethanyahu e Yoav Gallant è accompagnato da quello contro Yahya Sinwar, Mohammed Diab e Ibrahim el Marsi (Deif), ma è evidente che dopo tre quarti di secolo in cui il diritto internazionale ha perseguito unicamente i palestinesi giustificando qualsiasi azione della controparte in nome del diritto alla difesa4, la novità consiste proprio nell’incriminazione dei due dirigenti israeliani.
Quanto a quella che viene chiamata “la strage del 7 ottobre” e in merito alla quale viene richiesta la più severa preliminare condanna, nel processo che si dovesse svolgere contro i tre palestinesi si potrà forse capire come si sono svolti i fatti. Le Monde Diplomatique del giugno 2024 in un articolo di Gilbert Achcar (pag. 18) riporta un bilancio degli scontri del 7 ottobre riferendosi a fonti israeliane. In detto articolo si dice testualmente: “L’operazione condotta da Hamas ha provocato 1.143 vittime tra le quali 767 civili e 376 militari e membri delle forze di sicurezza, secondo le fonti israeliane. A parte più di 1.600 assalitori palestinesi uccisi sul campo secondo le stesse fonti…”.
1.143 contro 1.600: questo in termini militari si chiama battaglia e non strage di inermi. Gli assaliti, per quanto attaccati di sorpresa come hanno fatto centinaia di volte gli israeliani contro i palestinesi non erano affatto inermi, se le perdite tra gli assalitori sono state superiori a quelle tra gli assaliti.
Può darsi che le perdite palestinesi siano dovute a una rappresaglia indiscriminata eseguita a ridosso dell’attacco originario: quello che è certo è che le fonti dall’una e dall’altra parte, fino ad oggi, hanno scelto di non dare dettagli sullo svolgimento dello scontro, preferendo fornire interpretazioni sul suo significato, come del resto è abituale in azioni di guerra, specie in quelle che terminano a perdite pari.

Memento

La Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio è l’oggetto di uno specifico trattato del 1948 cui attualmente aderiscono 153 stati tra cui Israele. Pertanto, benché Israele non faccia parte degli stati che riconoscono la Corte Internazionale di Giustizia, deve sottoporsi al suo giudizio in quanto questo prevede l’articolo 9 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948. È in grazia di quell’articolo che Israele, per quanto non riconosca la Corte Internazionale di Giustizia, deve sottoporsi al suo giudizio in quanto riconosce la convenzione. La Corte Internazionale di Giustizia è anche l’istanza che ha in carico i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e il crimine di aggressione.

Il crimine di genocidio è difficile da riconoscere perché bisogna dimostrare che le prove addotte non possano far pervenire ad altra conclusione.
Gli unici genocidi riconosciuti sono l’Olocausto, il Rwanda, Srebrenitsa e quello dei Kmeer Rossi posteriori al 1946.
La Corte Internazionale di Giustizia non è riconosciuta da Israele, USA, Cina, Russia e Francia, mentre la Corte Penale Internazionale non è riconosciuta da Cina, USA, Russia.
I 124 stati aderenti alla Corte Penale Internazionale in linea di principio sono tenuti ad eseguire i mandati di arresto emessi dalla Corte stessa: questo vale per Putin come per Netanyahu che – in teoria – non più mettere piede né in Francia, né in Germania che sono tra i 26 stati dell’Unione Europea che riconoscono la Corte Penale Internazionale, 21 dei quali hanno recentemente sottoscritto una mozione di sostegno alla Corte Penale Internazionale lanciata da Senegal, Belgio, Palestina, Cile e Slovenia.

Luciano Beolchi

  1. All’azione giudiziaria del Sudafrica si sono uniti Messico, Nicaragua, Libia e Colombia, mentre Egitto, Turchia, Belgio e Spagna hanno annunciato di volerlo fare. Con le sue iniziative il procuratore Khan sa di essere entrato nel mirino di Israele, che ha una lunga esperienza di omicidi di stato. Ha detto “Fate quello che volete. Dite quello che vi pare. Non lasceremo che ci distolgano dalla nostra missione verso la giustizia”.[]
  2. Asseverando, dice la CIG, l’ipotesi di genocidio.[]
  3. I coloni erano 0 nel 1967, quando la Cisgiordania era affidata alla protezione della Giordania, 110.000 al momento degli accordi di Oslo che avrebbero dovuto tra l’altro sanzionare il blocco delle colonizzazione, 730.000 a trent’anni di quell’accordo così palesemente tradito da Israele.[]
  4. Sembra che il diritto alla difesa valga solo pe la parte israeliana e non per la nazione palestinese.[]
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