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Un genocidio da cinquemila miliardi di dollari

di Luciano
Beolchi

Amnesty International ha raccolto e presentato prove che quello che sta accadendo a Gaza non è solo una sequela di crimini di guerra e crimini contro l’umanità – e li stanno compiendo tutti e due, scrive la signora Segre, Hamas e l’esercito israeliano – ma è genocidio, e questo lo sta commettendo una parte sola. Tutto drammaticamente e ripetutamente confermato nei cinque rapporti alle Nazioni Unite consegnati dalla relatrice speciale Francesca Albanese da ottobre 2023 a ottobre 2024.
Tecnicamente, dal freddo punto di vista del diritto processuale, si sono raccolte e andranno discusse in sede processuale, le prove del genocidio in atto. La Senatrice Segre argomenta che a Gaza è in atto una guerra ed è un fatto che i genocidi, come l’Olocausto degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, sottraggono risorse alla guerra. Dunque, lascia intendere, gli israeliani non hanno interesse a compiere un genocidio perché questo sottrarrebbe risorse alla guerra. Le è stato contestato: quale guerra? A Gaza c’è forse un esercito palestinese schierato a combattere, c’è paese al quale si è dichiarata guerra? Quanto alle risorse, purtroppo questo per Israele è l’ultimo dei problemi, perché l’intero mondo occidentale nella persona dei suoi governi è schierato con tutta la sua forza economica e un impressionante arsenale bellico per schiacciare una città inerme, ormai completamente distrutta.
La senatrice Segre dice che non è genocidio, perché non esiste un programma intitolato genocidio a firma del governo e dell’esercito israeliano, e l’errore raddoppia quando afferma che crimini atroci sono compiuti dalle due parti, Hamas e l’esercito israeliano, perché così dicendo si nega che la vittima bersagliata e offesa sia un intero popolo in quanto tale, popolo e nazione.
Gli autori dei genocidi, a parte le dichiarazioni improvvide e le esternazioni di alcuni – in questo caso di parecchi– non usano mai la parola genocidio o sterminio. Neanche i nazisti li usavano e a partire dal tragico documento del 1942, usano altri termini, come soluzione finale, liberazione di una regione o di uno stato dagli ebrei (Judenfrei) e così via.
Nell’infinita corrispondenza militar-criminale che ha accompagnato il genocidio, quella parola non compare mai, né compare niente che le somigli. Anche nella fase estrema dell’omicidio e della cremazione, i morti non erano chiamati così, ma stücken, pezzi; e si contavano giornalmente i pezzi che la fabbrica della morte, ma questo lo diciamo noi, aveva lavorato quel giorno.
A giustificazione del fatto che quello in atto non sia genocidio si porta la considerazione che anche le dichiarazioni più improvvide – per quanto attestate e non refutabili – propongono come obiettivi di ridurre alla metà la popolazione di Gaza. Dunque non è genocidio, dato che di palestinesi se ne lascia in vita qualcuno, anzi parecchi.
Non dice questo la Commissione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, adottata dalle Nazioni Unite nel 1948. Dice: “per genocidio s’intende una serie di atti proibiti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte (corsivo nostro), un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale”.

Questo è quanto sta avvenendo a Gaza e in Cisgiordania dove, ancor più che a Gaza, non ci sono né le giustificazioni di una guerra – che non c’è neanche a Gaza – né un esercito che si oppone a una comunità etnica che, spalleggiata dall’esercito occupante, mira a distruggere, violentare e far sparire un’altra comunità, compiendo quello che è puramente e semplicemente un genocidio. Cambia e cambia molto se la strage quotidiana a cui l’Occidente e i suoi media guardano ormai con indifferenza, corrisponde a un crimine di guerra o a un genocidio. Perché del crimine di guerra è responsabile chi spara, chi tortura e uccide. Del genocidio è corresponsabile anche chi ha fornito le armi al governo e all’esercito genocidario, chi ha contribuito alla sua intelligence, chi ha partecipato al suo addestramento. I governi, certo, ma anche i parlamentari che hanno votato per l’invio di quelle armi.

Anche i centri di ricerca che hanno fornito, collaborato alla fabbricazione di armi utilizzate a scopo genocidario e hanno continuato a farlo e continuano a farlo dopo che il genocidio è stato reso palese. Questo tipo di crimine riguarda e mette sotto accusa non solo chi consegna le armi, ma anche chi le produce come dice il precedente della messa sotto accusa a Norimberga degli industriali che fornirono a Hitler i prodotti necessari a condurre la sua guerra. E la lista potrebbe allungarsi e si allungherà. Gli atti compiuti dall’esercito israeliano non sono effetti collaterali di una guerra che non c’è. Sono come hanno stabilito Amnesty International e le relazioni delle Nazioni Unite, atti genocidari compiuti deliberatamente a questo fine. Se ritorniamo al testo della Convenzione contro il genocidio vi troveremo che sono definiti atti genocidari “l’uccisione di membri del gruppo”, il fatto di provocare “lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo” e “il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale”.

Israele è responsabile di tutte e tre di queste tipologie di atti contro i palestinesi a Gaza, con l’intenzione di distruggerli fisicamente.
Concorrono a sostenere questo tipo di accuse la distruzione sistematica delle infrastrutture vitali a Gaza, i trasferimenti di massa della popolazione sotto la minaccia delle armi, spesso colpendole durante i trasferimenti e il blocco, totale e parziale, degli aiuti umanitari destinati alla Striscia.
Amnesty ha potuto verificare almeno 15 casi di bombardamenti israeliani contro case, moschee, ospedali, scuole, mercati e strade in cui l’orario scelto per l’attacco, la mancanza di qualsiasi preavviso e il tipo di armamento scelto (bombe da 1.000 a 2.000 chili) dimostrano che l’obiettivo era quello di colpire i civili nella maniera più devastante possibile. Questo tipo di attacchi, per le ragioni suddette, sono attacchi deliberati alla popolazione civile, secondo il diritto internazionale umanitario.

A Gaza già oggi siamo nell’orrenda situazione che placa i vari scrupoli dell’indifferente opinione pubblica occidentale: nessuno è più in grado di calcolare il numero delle vittime e di dire se siano cinquanta o centomila e quando raggiungeranno i duecentomila. Nessuno è in grado di dire quanti siano i morti sotto l’immensa distesa di macerie. Non esistono più né anagrafe, né catasto, né documenti di alcun genere che possano attestare l’esistenza di una popolazione. I centri di documentazione e di censimento della popolazione, chi fossero i dispensari delle Nazioni Unite o delle ONG, gli archivi delle scuole e degli ospedali o dei servizi di base – acqua, luce e gas sono stati uno dei bersagli prediletti e mirati – così come tutte le persone in grado di contribuire alla memoria collettiva di ricordare chi c’era e chi non c’era più: i giornalisti certo, ma anche medici, professori, insegnanti. Ed è perciò tanto più encomiabile lo sforzo di chi fin d’ora si sforza di mantenere questa memoria a rischio della sua stessa vita. Chi può calcolare in questa situazione di strage quotidiana di deportazioni repentine, di distruzione di quelle poche cose che i superstiti hanno conservato fin lì, chi può contare chi c’era e chi non c’era. E tutto questo è tecnicamente, freddamente, metodicamente genocidio.
I tifosi del Maccabi ad Amsterdam avevano ragione di dire che non c’era più bisogno di scuole perché destino di tutti gli scolari era di essere ammazzati. Fin d’ora si sentono riecheggiare le offensive rimostranze di chi dirà che migliaia di palestinesi sono morti per indigestione, o uccisi da Hamas che ha avvelenato cibo e acqua per provocare ancora più vittime e valersene nella sua propaganda terroristica.
La distruzione sistematica di tutti i centri di raccolta di informazioni è essa stessa uno degli atti genocidari più gravi perché mira a nascondere quanti malati cronici saranno morti per mancanza di cure, per inedia, per denutrizione o semplicemente morti di fame se non di sete o a causa delle epidemie di chi volutamente ha tagliato i rifornimenti di acqua potabile e distrutto intenzionalmente il sistema fognario.
Ed ogni singola parola, considerazione e gesto ci portano in un’unica direzione: distruzione volontaria di una popolazione con l’aggravante di coprirne a qualsiasi costo le tracce. Toccherà ai servizi anagrafici che da sempre gli israeliani hanno tenuto nelle loro mani, essendo l’unica autorità deputata a registrare nascite e morti, residenze, cambi di residenza ed esistenza in vita, di dirci che gli abitanti di Gaza a ottobre 2023 non era due milioni e trecentomila, ma un milione e novecentomila; che un’infinità di gente era scappata: dove, come, quando non si sa; che le fosse comuni con centinaia e migliaia di cadaveri non erano altro che le vittime di Hamas prima dell’arrivo delle bombe di Israele; che le decine di migliaia di maschi giovani e adulti che sono stati fatti salire su camion e portati verso destinazioni sconosciute con i cappucci sulla testa erano un miraggio e che i pochi effettivamente prelevati dall’esercito erano membri di Hamas o fortemente sospetti di esserlo e che le torture di cui in migliaia si lamentavano – e i morti sotto tortura – erano soltanto interrogatori energici necessari a salvare vite umane.
Aggiungendo le usuali giustificazioni: che l’esercito israeliano non tortura perché è vietato dalla legge. Che non commette crimini di guerra perché lo vieta la costituzione. Cheon commette crimini di guerra perché lo vietano le leggi internazionali; e questa è stata la linea di difesa del membro israeliano del Collegio della Corte Internazionale di Giustizia chiamato a giudicare se l’accusa di genocidio avanzata dal Sudafrica dieci mesi or sono fosse sostenibile o meno. Non si pronuncia il Parlamento Europeo, così solerte a impegnare gli stati membri su reati assai più contestabili di quelli imputati a Netanyahu e a Gallant. No, gentile signora Segre, quello israeliano non è un pessimo governo: di quelli ce ne sono tanti. È un governo di criminali genocidari, la cui condanna è il solo passo preliminare di un’azione di giustizia, che ci auguriamo persegua le autorità israeliane per lo meno per la stessa durata di tempo che dureranno le piaghe indelebili che hanno marchiato a fuoco il popolo palestinese.

Il punto non è se Netanyahu e il suo complice debbano o non debbano morire in carcere come Slobodan Milošević e che il delitto sia punito secondo la fattispecie che lo rappresenta. Si chiama giustizia e non vendetta, ma ha da essere giustizia vera che risarcisca sul piano materiale se non su quello morale chi ha subito l’orrendo delitto. E a pagare non deve essere solo Israele, a partire dalla ricostruzione di Gaza, ma tutti gli alleati che le hanno dato titolo per far quello che ha fatto; e non sarà una donazione liberale, micragnosa e falsa alle quali tutti cercheranno di sottrarsi: dovrà essere una condanna che comporti un risarcimento per danni morali e materiali e non credano i colpevoli che chissà quale cifra inferiore ai cinquemila miliardi di euro sarebbe sufficiente, perché il genocidio comporta una sanzione risarcitoria paragonabile anche alla potenza economica di chi ha compiuto o è stato complice del delitto. Somma del resto non difficile da recuperare: basterebbe espropriare quel centinaio di ricconi mondiali che tale somma possono mettere insieme in solido. E se non saranno gli attuali governi, anch’essi complici, a farlo, ci vorranno degli altri governi di giustizia e di verità capaci di riconoscere le responsabilità dei loro predecessori, rifacendosi per quanto possibile direttamente su di essi. Su ministri, deputati, industriali, magnati della stampa, patroni di organizzazioni scientifiche, militari e organizzazioni sioniste che il genocidio hanno vidimato e caldeggiato.

Luciano Beolchi

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