da Londra, Enrico Sartor –
La destra radicale dei conservatori di B. Johnson ha vinto le elezioni di giovedì 12 dicembre in Gran Bretagna, assicurandosi una forte maggioranza in Parlamento. In virtù del sistema elettorale britannico, a segnare il risultato non è stata una forte avanzata dei conservatori (solo + 1,2% rispetto alle elezioni del 2017, in cui l’allora premier T. May perse la maggioranza parlamentare) bensì il crollo dei laburisti guidati da Jeremy Corbyn (- 7,8% rispetto al 2017). I conservatori hanno ottenuto quasi 14 milioni di voti (43,6%) contro più di 10 milioni di voti (32,2%) dei laburisti, ma dispongono ora di 365 parlamentari contro i 203 del Labour.
I conservatori sono avanzati nel Nord dell’Inghilterra e nelle Middlands, considerate tradizionalmente il ‘bastione rosso’ operaio in mano ai laburisti – in alcuni casi – da più di un secolo, mentre l’elettorato di Londra non ha seguito la tendenza nazionale: qui i laburisti hanno conquistato alcuni collegi che nel 2017 erano andati ai conservatori. A Londra, il supporto al Labour da parte delle minoranze asiatiche e di colore è probabilmente un elemento che trova conferma in queste elezioni.
Il partito nazionalista scozzese (SNP) ha esteso il suo dominio in Scozia. Ed anche il Sinn Fein (i cui deputati si astengono dal votare in Parlamento) è avanzato in Irlanda del Nord, in sintonia con la tendenza demografica che vede una crescita della popolazione cattolica rispetto alla vecchia maggioranza protestante che sta sparendo. Questi due ultimi risultati, aumentando le spinte separatiste, avranno probabilmente un peso in futuro sulla situazione della Gran Bretagna.
In questi giorni, i post mortem elettorali si sono susseguiti a ritmo serrato. Alcuni dei dati emersi sono più di tattica elettorale, molto collegati al sistema britannico. Altri invece hanno una valenza politica che è importante analizzare.
L’elemento dell’identità ha avuto un ruolo molto importante in tutti i suoi corollari e sfumature. Nella sua variante patriottico-nazionalista ha favorito la posizione risoluta sulla Brexit di Johnson, con le conseguenze xenofobe che essa comporta. E’ indicativo che il voto ai laburisti sia sceso a livelli che non si vedevano dagli anni 30, proprio mentre il partito, e più in generale i centrosinistra europei, stanno rivivendo la storica incapacità della socialdemocrazia di quegli anni di trattare in maniera vincente i problemi dell’identità nazionale: da una parte, di mediarli, in maniera convincente, con l’internazionalismo operaio; dall’altra, di evitare capitolazioni come quella dei social-democratici danesi, che hanno vinto le recenti elezioni politiche proponendo una politica con venature xenofobe.
Persino la critica e lo sfavore popolare nei confronti della persona di J. Corbyn, considerati uno dei fattori principali della sconfitta laburista, hanno radici nel suo passato internazionalista di militanza a favore della resistenza irlandese e della causa palestinese. Non è sufficiente, a questo proposito, evidenziare l’ostilità massiccia dei media contro J. Corbyn: è chiaro come il suo internazionalismo fosse in completo svantaggio contro la brutalità – ma anche la semplicità – del nazionalismo di Johnson (e di Dominic Cumming), contro l’efficacia costituente di definirsi come gruppo nazionale in opposizione a tutto il resto del mondo (con buona pace di Carl Schmitt).
Un altro aspetto da non trascurare, soprattutto con riferimento ai risultati nei ‘bastioni rossi’ del Nord Inghilterra, è quello dell’identità di classe. J. Corbyn, nonostante il suo radicalismo – o proprio per questo – è stato percepito da una parte dell’elettorato del Nord e nelle Middlands come un membro dell’elite del ceto medio urbano londinese (non diversamente in ciò da Tony Blair, di cui è vicino di casa); lo stesso vale per la gran parte dei componenti del suo gabinetto ombra. Questa è forse anche la ragione per cui gli scontri politici interni al partito siano molto spesso affiorati come scontri tra opposti – ma forse equivalenti – ego.
Questa impressione è stata ribadita dalla complessità e laboriosità quasi accademica del manifesto elettorale, e dall’incomprensibilità – per buona parte dell’elettorato – di benefici economici e sociali (si pensi alla banda larga estesa a tutti gratuitamente) distribuiti universalmente, senza misurare quanto questi stessi benefici fossero percepiti da coloro che ne avrebbero beneficiato. In questo scenario, la promessa “corbinista” di giustizia sociale per tutte e tutti, a confronto con la difesa identitaria della propria comunità culturalmente ed economicamente umiliata da anni, non ha potuto competere con la chiamata alle armi dei conservatori. La gente non ha creduto alle promesse di una direzione laburista con cui non sono riusciti a identificarsi.
C’è indubbiamente nella tradizione storica dei partiti leninisti europei della prima metà del secolo scorso, e poi nelle lotte di liberazione anti-coloniali degli anni ‘60 e ’70, una maggiore capacità di unire l’identità nazionale e di classe, da cui trarre ancora una volta elementi di riflessione.
La robusta maggioranza conservatrice (e il cambiamento nella composizione del gruppo parlamentare tory, con l’uscita dei maggiori esponenti anti Brexit) ci dice che la Brexit si farà. Questo è confermato anche dal crollo elettorale dei Liberals, che avevano basato la loro campagna sullo stop alla Brexit. La Gran Bretagna uscirà dall’Unione Europea molto probabilmente entro il termine del 31 gennaio 2020, anche se la confusione normativa sui termini del confine irlandese resta al momento tale.
Johnson ha già promesso un trasferimento della spesa pubblica in servizi da Londra al Nord dell’Inghilterra, per cementare il nuovo sostegno elettorale. Risorse sottratte ai Comuni della metropoli già in gravi difficoltà, in linea con la tradizione della destra di organizzare la guerra tra poveri.
D’altra parte, i britannici possono aspettarsi di tutto da un primo ministro che, a capo del precedente governo di minoranza, aveva cercato illegalmente di chiudere il Parlamento e minacciato un canale televisivo della BBC di revoca della licenza per aver osato criticarlo. Indubbiamente una delle prime azioni del nuovo governo sarà contro la BBC, che – pur con le sue debolezze – si è rivelata un ostacolo all’incontrollata distribuzione di disinformazione attraverso i social media.
Per quanto riguarda i laburisti, John McDonnell, già cancelliere dello scacchiere ombra, si è dimesso. E J. Corbyn lo farà probabilmente entro un paio di mesi. La grande spinta di militanza e di partecipazione politica, soprattutto tra i giovani, rimane un patrimonio del partito, che dovrà essere potenziato ed utilizzato per combattere il senso di rassegnazione a cui porta il risultato elettorale.
Gran parte della classe operaia che ha votato conservatore non l’ha fatto nella speranza di una vita migliore, ma perché è disillusa che possa esserci un futuro migliore. In tal senso, un ritorno del ‘new labour’ di Tony Blair sarebbe la peggiore delle soluzioni: nel 1997, la politica di Blair aiutò ad attrarre il ceto medio urbano a un partito di classe operaia isolata e sconfitta; oggi il progetto di egemonia della sinistra si muove nella direzione opposta, quella della riconquista della classe operaia.
Questo non è un obiettivo semplice e pone questioni fondamentali, quali: cos’è oggi la classe operaia, con le miniere e le fabbriche chiuse da più di vent’anni? Come sono organizzate e informate le classi subalterne con la nuova compenetrazione di capitale, media e politica?
In un’intervista rilasciata al quotidiano The Guardian, la parlamentare laburista Lisa Nandy si domanda quale valore avessero molti degli obbiettivi del Manifesto elettorale del Labour al di fuori della (relativamente benestante) zona metropolitana: per esempio, quale valore ha – in un collegio elettorale in cui la gente non arriva mai al giorno di paga – la promessa di un salario minimo di un certo livello, quando gli unici lavori disponibili sono riempire gli scaffali di un supermercato? A cosa serve rinazionalizzare le ferrovie, quando molte comunità sono totalmente sprovviste di servizi ferroviari e dipendono da un sempre più ridotto servizio di autobus?
Sono interrogativi validi anche per la destra radicale di Johnson, che pensa di rispondere alla rabbia dell’elettorato operaio (che aveva nel 2016 ed ha votato per la Brexit) con le sue promesse di sussidi e nazionalismo. La vittoria elettorale basata su questa strategia potrebbe avere la stessa ridotta tenuta del successo elettorale del M5S in Italia.