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Trieste città italiana?

di Marino
Calcinari

Il 26 ottobre qualcuno celebra la “seconda” redenzione di Trieste. Dopo quella del 1918, con l’arrivo del cacciatorpediniere “Audace” che attraccò il 3 novembre a Molo San Carlo quando si concluse la prima guerra mondiale, c’è chi attende il 26 ottobre quando nel 1954, a nove anni dalla fine della seconda guerra mondiale, Trieste ritornò alla Repubblica e Piazza Unità fu riempita da una eterogenea folla di popolo che vedeva quell’avvenimento come la conclusione di una tragedia, le cui origini avevano però radici profonde, anche se non lontane nel tempo.
Torniamo al 1918… e anche prima, al 1866. Ma procediamo con ordine.
Il Regno d’ Italia si insediò allora, dopo la disintegrazione dell’Impero austroungarico, ben oltre i suoi confini naturali, comprendendo estensivamente sotto il nome di Venezia Giulia – nome scelto nel 1863 dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli – non solo Trieste e l’ Istria ma anche la provincia di Udine, quindi il Friuli occidentale, facendo però rientrare nella sua sfera d’ influenza politico-amministrativa anche le Isole del Quarnero (Cherso è più grande dell’ Elba) nonché le altre “acquisizioni” maturate col Trattato di Rapallo nel 1920, per cui divennero “ italiane” le popolazioni mistilingue di una vasta area geografica che procedeva da nord a sud seguendo la costa orientale adriatica da Fiume/Rijeka (porto ungherese che acquisiva il rango di città stato autonoma) sino all’Albania ed all’Eptaneso greco. In questo modo vennero a trovarsi entro i confini del regno d’ Italia non solo 350.000 cittadini di lingua italiana ma anche 490.000 croati e sloveni (di cui circa 170.000 croati e circa 320.000 sloveni e di questi ultimi circa 190.000 risiedevano nei distretti di Tolmino, Gorizia-circondario, Sesana, Volosca, Idria e Fusine,Vipacco, Postumia e Bisterza, nei quali gli sloveni rappresentavano la quasi totalità (99%) della popolazione. Ciononostante ci fu chi come D’Annunzio straparlò di vittoria mutilata ed organizzò il colpo di mano su Fiume. Nessuno vuole ora negare la realtà di un fenomeno che fu politico, ideologico, culturale, rivendicativo che precedeva questi avvenimenti e che fu definito come “irredentismo” ma va detto che esso fu minoritario, non ebbe seguito di massa e se poté godere di tolleranza e comprensione dalla locale autorità, il fatto non fu casuale e la vicenda di Guglielmo Oberdan in tale contesto è l’eccezione che conferma la regola, visti gli interessi economici in gioco e la necessità di una convivenza statuale tra Italia e Austria. Per cui la borghesia triestina se non voleva certo favorire, in nessun modo quella lotta di classe cui indirettamente accennò Marx nelle memorabili pagine dedicate a Trieste, ancor meno aveva interessi a coltivare pulsioni separatiste, regnicole o filosabaude, per cui il nazionalismo filo-italiano non attecchì certo nei ceti popolari che allora, provenienti dalle più diverse contrade del centro Europa, come da Meridione d’ Italia, nella città adriatica trovavano ospitalità, lavoro, certezza di futuro. A Trieste nacque l’idea del canale di Suez ed il Barone Pasquale Revoltella fu uno degli artefici e promotori, dopo il governatore von Bruck, della crescita industriale demografica della città, multietnica e cosmopolita. Faceva notare il socialista Angelo Vivante (in Irredentismo adriatico, 1912) come Trieste dopo aver servito bene, a suo tempo, le esigenze dei Ducati di Modena e Parma, del Granducato di Toscana, e degli stati Pontifici attraverso la soddisfazione di una perenne domanda di importazioni marittime dai mercati d’ Oriente, con un forte rilancio nel periodo 1865-1871 seppe regger bene la crisi del 1873 e come il suo porto si sviluppasse anche attrverso lo sviluppo dei cantieri navali che attirava manodopera dalle più remote contrade dell’Impero e qui parlano ancora adesso, le cifre dello sviluppo demografico e della movimentazione di merci nel porto giuliano.
Riportiamo per conoscenza, dal testo di Ettore Generini (Trieste antica e moderna, ed. 1884) alcuni cenni statistici relativi alla popolazione residente in città e nell’immediata periferia in data 31 dicembre 1880: pertinenti al Comune di Trieste 67.622, pertinenti ad altre province dell’Impero 52.007; pertinenti ai paesi della Corona ungarica 1.916, pertinenti alla Bosnia Erzegovina 64, cittadini di stati esteri 3.953, pertinenti al regno d’Italia 16.178. La popolazione era inoltra divisa secondo le diverse professioni di fede: cattolici 133.923; greci 1406; evangelici 1349; anglicani 264, israeliti 4578 atei 216; sulle lingue parlate Generini riporta i seguenti dati (che però non era obbligatorio rendere nei censimenti) dei “triestini – cittadini austriaci”: 88.773 dichiarano di parlare l’italiano, 26.035 lo sloveno, 4698 il tedesco, 123 altre lingue. Il dialetto triestino, che fa propri tantissimi termini dalle tante lingue e parlate che si sentivano in città è ancora adesso a differenza di altre realtà, un dialetto vivo, che cresce e si rinnova.
La regione FVG, di cui Trieste è capoluogo, pur nelle mutate condizioni politiche di oggi resta terra di congiunzione e di attraversamento, la congiunzione è quella geofisica che unisce il sistema alpino a quello dinarico, l’attraversamento è dato dai passi montani delle Dolomiti e poi alle Alpi – carniche e giulie -, con i molti pianori solcati dalle acque meteoriche e la cima del Coglians, con i suoi 2.780 mt d’altezza; da qui a scendere nella pianura ed incontrare la terra del Carso, le zolle calcaree, le grotte, i fiumi che si inabissano è un attimo, ma cartografarne i limiti e lo sviluppo fu un lavoro che impegnò diverse generazioni di speleologi.
“Oltre alle grotte di Postumia, il numero delle grotte conosciute nel Carso supera le tre migliaia, circa 560 se ne contano nella provincia di Gorizia, 980 in provincia di Trieste, 100 in provincia di Pola e 380 in provincia di Fiume” ci spiega una pagina della Guida d’Italia dedicata alla regione Venezia Giulia nell’edizione del 1934. 90 anni fa.
Ma è anche congiunzione, ponte tra diverse culture, quella latina, quella slava, quella tedesca e quella mitteluropea,come ne parlò Tomizza rammentando le traversie di un giovane riformatore Pierpaolo Vergerio ne Il Male viene dal Nord, con un occhio rivolto al presente. Che dire oggi? Le difficoltà, gli ostacoli, ci sono, ma vanno affrontati e superati, con la comprensione della storia e se possibile con l’ottimismo della volontà.
Quindi se e quando parliamo del contesto attuale bisogna precisare, ricordare, puntualizzare. Quando il regime politico di quel tempo – che molti oggi esaltano o dicono addirittura di richiamarsi ad esso – aveva definito una parte dello stivale “le tre Venezie” non stabiliva solo una definizione geografica,ma imponeva una rinominazione idealistica e astorica all’interno dei cui confini ogni individuo avrebbe dovuto rinoscersi e come davanti ad una autorità sottomettersi. Ecco quindi che la Venezia Euganea corrispondeva all’attuale Veneto, che la Venezia Giulia comprendeva gran parte dell’attuale Friuli-Venezia Giulia ma anche tutta l’Istria, il Quarnero e Fiume e parte dell’attuale Slovenia, mentre Venezia Tridentina coincideva con la regione del Trentino e dell’Alto Adige (o Tirolo meridionale) sottratto all’Austria.
Quella regione era una babele linguistica e l‘ italianizzazione procedette, risolvendo il problema della comunicazione orale e scritta con leggi e ordinanze, con la metodologia didattica del fascismo. Che definì alloglotti e trattò come estranei nella loro patria i ladini dolomitici, i friulani, i veneti,gli sloveni, i tedeschi di Sauris, i cici ed i morlacchi, gli istroromeni, i montenegrini che parlavano lo stòcavo, ed infine anche la multietnica Trieste, dal 1382 al 1918 amministrata dall’Austria fu investita dal delirio dannunziano nazionalista. Che gode ancora di largo seguito, pare
Poi ognuno ha la redenzione che si merita, ma vediamo di non maltrattare la storia.
Post scriptum
Il Giornale di Udine”scriveva nell’edizione del 22 novembre 1866: “Questi Slavi bisogna eliminarli, col benefizio, col progresso e con la civiltà… adopereremo la lingua e la cultura di una civiltà prevalente quale è quella italiana per italianizzare gli Slavi in Italia”.
Nel 1923, con la riforma Gentile, quell’intendimento, razzista e reazionario si imponeva con la violenza e l’olio di ricino, con il fuoco e lo squadrismo. L’italianizzazione delle scuole in tutte le terre acquisite con la guerra si sviluppò in modo inesorabile ed implacabile, vessatorio e violento.
Ma in realtà il fascismo non faceva che proseguire la politica fatta dai Savoia, ad esempio, già nella guerra del 1866 che portava, con l’annessione al regno sabaudo di parte del Friuli, la cui lingua madre era lo sloveno, alle modalità con cui amministrare e governare i nuovi “sudditi”. Così ad esempio nel Friuli la “terska dolina” diventò l’Alta Val Torre ed il Regno d’Italia. Da allora dava il via appoggiandosi al regime fascista ad un processo di livellamento ed assimilazione culturale di queste popolazioni che NON parlavano italiano, ma che però diventava, da allora l’unica lingua d’insegnamento in tutte le scuole del Regno.
Come sappiamo dopo la fine della prima guerra mondiale gli insegnanti sloveni vennero licenziati, trasferiti, minacciati e peggio; gli studenti furono obbligati a parlare solo in italiano. Il 13 luglio 1920 il Narodni Dom di Trieste fu bruciato dai fascisti. Un regio decreto del 10 gennaio 1926 presentava una lista di cognomi, riguardanti i residenti del Comune di Trieste che andavano “restituiti “ in forma italiana, o comunque “ridotti” alla latinità (i Muller tedeschi diventavano Molinari, i Vodopivec Sloveni diventavano Bevilacqua, ecc.) autore del testo e responsabile della sua applicazione un certo Aldo Pizzagalli, un pesarese che aveva studiato a Bologna, si era laureato in giurisprudenza ad Urbino, aveva fatto carriera e si era guadagnato fama e autorevolezza in questa materia. Un fedele esecutore di ordini a seguire il 7 aprile 1927 un regio decreto imponeva l’italianizzazione di tutti cognomi che, ricordiamo non erano solo sloveni, e di conseguenza si definirono “ allogeni” tutti i cittadini appartenenti alle più diverse comunità (cfr. Miro Tasso: Un onomasticidio di Stato con prefazione di Boris Pahor, ed. Mladika s.c.a.r.l., Trieste 2010). Oscurantismo e barbarie che oggi vengono banalizzati e riproposti da chi non solo non conosce la storia ma si arroga a portabandiera di modernità e progresso. E non a caso, chi ha il futuro… alle spalle pensa ancora che la guerra sia l’igiene del mondo.

Marino Calcinari

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