“Berlinguer, la grande ambizione” è il titolo del film con cui Andrea Segre ha inaugurato la Festa del cinema di Roma giunta alla XIX edizione. Un titolo giusto? Senza spoilerare e con l’occhio rivolto al presente, chi scrive avrebbe titolato l’ottima opera, “La grande illusione”. Proviamo a spiegare perché. L’Enrico Berlinguer magistralmente interpretato dall’ottimo Elio Germano, ne esce come un personaggio complesso, un vero segretario di partito – cosa differente dai sedicenti leader che oggi si impongono – capace di ascoltare, di macerare anche nei dubbi, ma di prendere decisioni di importanza storica. Il regista fa una scelta, forse discutibile, ma significativa: il film rievoca il periodo che va dal golpe in Cile (1973), alla morte di Aldo Moro (1978), anni critici, complessi, difficili da semplificare ma che rendono l’idea – non inventando costruzioni a posteriori – di come la possibilità di far divenire forza di governo un partito che restava comunque comunista, era realmente impossibile, appunto un’illusione.
La storia di quegli anni è cosa nota ma dimenticata, forse rimossa: l’Italia era in una crisi economica, legata anche a quella energetica, che aveva interrotto la mobilità sociale che si era creata col boom degli anni Sessanta. Il sentore delle minacce golpiste modello Pinochet si facevano già sentire a colpi di stragi, nella parte più oscena e visibile, con la logica della compatibilità e dei sacrifici, nelle pieghe meno visibili. Il PCI stretto nella morsa fra un URSS che non ammetteva deroghe alla propria concezione del socialismo e alle imposizioni NATO che delimitavano e delimitano tuttora la sovranità, prova a convincere e a convincersi, grazie al suo giovane segretario e ad una parte del suo gruppo dirigente, che sia possibile addivenire ad un accordo anche con la parte sana dell’allora Democrazia Cristiana per sbloccare la democrazia. Una strategica politica che all’inizio ha grande successo, nazionale e internazionale, che porta il PCI ad avere 1,7 mln di iscritte/i e a superare il 33% dei consensi elettorali nel 1975. Le grandi città hanno amministrazioni di sinistra, si vince con largo scarto la battaglia contro chi voleva abrogare la legge sul divorzio, il mondo culturale nazionale è pervaso dalla cultura di cui il partito è portatore, quello internazionale prova profonda fascinazione per il sogno eurocomunista. Anche la stampa mondiale sembra subire il fascino di questo partito eretico in cui si rivendica la democrazia e il pluripartitismo, in cui la parola più ricorrente è “dialogo”. E se nel film si racconta, utilizzando anche video di repertorio, il profondo rapporto di connessione sentimentale con la classe di cui il PCI, una connessione critica, in cui affetto per il segretario e timore per le implicazioni che la linea politica scelta comporta, inevitabilmente si assiste ai suoi contraccolpi. Contraccolpi interni, il cambio di ruolo del filosovietico Cossutta è solo un esempio, contraccolpi esterni, perché soprattutto fra i settori giovanili, proletari e sottoproletari, il malcontento comincia a crescere e a divenire forte movimento di contestazione a cui non sono insensibili neanche i figli del Segretario. Ed anche quello che diventerà il terrorismo rosso, che nel film riecheggia, è inquadrato, ad avviso di chi scrive correttamente, come frutto non di complotti esterni ma di un malessere sociale che la ristrutturazione capitalista in atto, ben rappresentata dalla grettezza di Gianni Agnelli, non vuole e non può placare. Lo stesso quadro politico, nazionale e internazionale sono nel film trattati con acume. Se l’attentato subito da Berlinguer in Bulgaria offre già l’idea dell’ostilità che il PCI provoca è il discorso al XXV congresso del PCUS, accolto con gelo, che strappa un sorriso perché mostra un Breznev più vivace di quanto fosse allora, che segna definitivamente una rottura. Forse il film manca di rendere conto di come questa rottura venga poco sopportata dal corpo militante e da parte del gruppo dirigente del partito, ma il racconto è netto e l’utilizzo, pressoché integrale degli interventi politici di Berlinguer, segnano la fine di un’epoca.
Un altro segnale in cui il film mostra estremo rigore storiografico è nelle responsabilità dell’intera DC per bloccare ogni possibile avanzamento. Il gioco meschino condotto dal partito di governo è ben rappresentato dai tre volti democristiani, quello apertamente reazionario di Fanfani, quello di chi cerca di ottenere tutto senza offrire nulla di Andreotti, quello di chi, mostrandosi profondamente convinto dell’utilità e della serietà delle proposte del PCI, ritarda in continuazione anche l’incontro con Berlinguer, per giungere infine a proporre di sostenere, o almeno di astenersi ad un governo indigeribile in cui non c’è nessun segnale di discontinuità. Il compromesso storico muore in quei giorni, nel lasso di tempo che intercorre fra l’astensione del PCI a tale compagine e la successiva sfiducia, non a causa, come vuole la vulgata, del rapimento e la morte di Moro. Il sottile filo che c’era per condividere la responsabilità di governo del Paese si era già spezzato e Berlinguer ne è consapevole. La stessa scelta della “fermezza” e del no a qualsiasi trattativa con chi tenne per 55 giorni in ostaggio lo statista democristiano, è raccontata dal Germano / Berlinguer, con sofferenza e dolore.
Elio Germano, che si è mostrato commosso e orgoglioso all’anteprima del film, che sarà nelle sale dal 31 ottobre prossimo, non somiglia fisicamente al grande uomo politico sassarese. Nei due anni di lavorazione per il film ha però puntigliosamente letto i suoi discorsi, guardato i video d’epoca per catturarne la gestualità, si è calato nel personaggio con una potenza evocativa enorme, riuscendo anche a tratteggiare i labili confini fra l’uomo politico e il marito, il padre di famiglia, l’amante del mare, del calcio, delle compagnie giovanili. L’agiografia è inevitabile, difficile oggi trovare una persona disposta a parlar male di “Enrico” anche se allora le critiche erano molte, da destra, spesso nell’ombra, da esponenti politici del suo partito che neanche meritano nell’opera un’apparizione, come da una sinistra che si era illusa di poter modificare democraticamente i rapporti sociali, di abbattere le diseguaglianze e si è ritrovata con la non citata “svolta dell’Eur”. Il film, non esente da limiti – come ha detto il regista, “poteva durare 12 ore e non avrebbe reso il tutto” – costringe a riguardare quegli anni e le scelte operate, rianimando un dibattito politico che oggi sembra spento. Costringe chiunque abbia fatto parte di quella storia a trarne un bilancio in cui invece dei “se” e dei “ma” si deve fare i conti con quello che è accaduto dopo e con quello che accade oggi. In tal senso, se ne consiglia, la visione.
Stefano Galieni
2 Commenti. Nuovo commento
In attesa di poter vedere il film vorrei chiedere a Stefano Galieni se il tema del rapporto con i socialisti ed in particolare con Craxi non è affrontato nel film o nel suo, ottimo, articolo ?
Come racconta Magri nel suo magistrale libro “Il sarto di Ulm”, Berlinguer successivamente e prima di morire fece autocritica rispetto al periodo inquadrato nel film. L’autore dell’articolo non menziona l’area ingraiana (interna) e la diaspora del Manifesto (esterna) e rimane incollato alla diatriba tra la “mitologia realistica” del compromesso storico e la contestazione estera dei sovietici e quella nazionale di “terroristi” guastatori. Anche il film ripercorre conformisticamente questo schema mistificatorio?