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Torna tariffa-Trump con nuovi conflitti commerciali nei mercati mondiali

di Tommaso
Chiti

La scorsa settimana ha tenuto banco l’ennesima uscita dell’irruento presidente in pectore degli USA, Donald Trump, con l’annuncio sulla definizione di nuovi dazi doganali, dopo il suo insediamento in programma per il prossimo 20 gennaio.

Se la destra sovranista nostrana con Meloni propagandava l’abolizione delle accise, poi rimasta lettera morta fra le marchette elettorali; negli USA il suprematismo si esprime con il tariffario Trump per “la più grande cosa mai inventata”, le imposte appunto, osannate a fini protezionistici, per cercare di sanare saldi negativi della bilancia commerciale, ridurre il crescente disavanzo pubblico e rilanciare la base industriale.
Un triplice obiettivo tanto ambizioso, quanto abnorme pare la dichiarazione di imporre dazi del 25% sull’import di prodotti dai vicini Messico e Canada e del 10% da quelli provenienti dalla Cina.

Dai primi annunci sui social, inizialmente la misura è stata spacciata anche come risposta in termini di sicurezza nazionale ai traffici di esseri umani o di sostanze stupefacenti, riferendosi in particolare rispettivamente all’immigrazione illegale messicana e alla proliferazione del business cinese nella droga sintetica detta ‘Fentanyl”.

L’abbinamento trumpianamente strampalato fra la questione commerciale e quella securitaria deriva però in realtà dalle deroghe al libero scambio previste dagli stessi accordi dell’Organizzazione mondiale del Commercio (WTO), per cui la tutela di salute e sicurezza pubblica possono rappresentare motivazioni per ricorrere a misure protettive, fino a concretizzare la rimozione per la Cina dello status di “nazione favorita”.
Del resto Trump non è nuovo a questo tipo di espediente nelle relazioni internazionali e già all’inizio del suo primo mandato aveva giustificato l’aumento dei dazi sui prodotti cinesi con il deficit commerciale tra i due paesi e con presunte pratiche sleali di Pechino.

Il totonomine per la composizione del prossimo establishment statunitense sembra concretizzare i timori, con la designazione al National Economic Council di due falchi come il conservatore Kevin Hassett, proposto come futuro direttore dell’ente; affiancato dall’avvocato Jamieson Greer, come nuovo inviato per il commercio. Non a caso quest’ ultimo era a capo dello staff che nel primo mandato aveva elaborato i dazi sui prodotti cinesi, che colpirono l’import asiatico per circa 370 miliardi di dollari secondo gli esperti; e la rinegoziazione dell’accordo di libero scambio nord-americano, proprio con Messico e Canada.

E mentre il Guardian pochi giorni fa ha pubblicato un sondaggio di Harris Poll in cui 2/3 degli americani si dicono preoccupati per gli effetti delle nuove tariffe sull’aumento dei prezzi negli USA, un ruolo ambiguo ma determinante spetta ai grandi player industriali, soprattutto in campo tecnologico, per la difficoltà ad affrancarsi dalla dipendenza di materie prime e dal basso costo della manodopera.
È il caso di Apple, che conta l’80% dei quasi 200 fornitori con fabbriche operative nel territorio della Repubblica Popolare Cinese ed il cui AD, Tim Cook non è nuovo ad incontri al vertice con il governo cinese. Nella sua recente partecipazione al forum sulla “Resilienza delle catene di approvvigionamento” lo stesso Cook ha ribadito come senza i partner cinesi “non sarebbe possibile fare quello che facciamo”. Un altro personaggio affatto irrilevante che potrebbe mitigare le posizioni più protezioniste è niente meno che Elon Musk, che ha molti interessi in Cina con la produzione di auto elettriche Tesla.
Specialmente in un una congiuntura critica, come quella attuale: fra conflitti bellici, ricadute alimentari ed energetiche, contrazione produttiva industriale – specie nei comparti di automotive e manifatturiero – l’economia cinese potrebbe soffrire ricadute con un impatto anche intorno al 2,5% del Pil.

Se si guarda la bilancia commerciale infatti Cina e Canada sono fra i maggiori partner degli USA, da cui hanno acquistato complessivamente beni per 1000 miliardi di dollari nell’ultimo periodo rilevato, che in termini di export si traduce in un giro d’affari di 1500 miliardi di dollari dal commercio con gli Stati Uniti. Questi per Ottawa arrivano a sfiorare quote del 75% di export complessivo, mentre per Cancun raggiungono addirittura l’83%.
Anche sui mercati finanziari i riflessi dell’annuncio sulle valute non si sono fatti attendere con il rafforzamento del dollaro, a confronto con 2 punti persi dal peso messicano e del tonfo del dollaro canadese fino ai minimi del 2020.

Sul piano politico i tre paesi chiamati in causa da Trump hanno messo in guardia da simili operazioni unilaterali, foriere di un aumento dell’inflazione e di ulteriore perdita di posti di lavoro, specialmente in settori ad elevata interdipendenza nelle catene di approvvigionamento, minacciando a loro volta ritorsioni in termini di misure analoghe nel commercio bilaterale con la Casa Bianca.

La presidente messicana Shainbaun ha replicato a stretto giro alle accuse del tycoon, denunciando la violazione del trattato del NAFTA – l’accordo americano per il libero scambio fra paesi confinanti, rinegoziato nel 2020 -; e dichiarando con dati alla mano il calo tendenziale dell’emigrazione verso gli USA, a fronte però di un costante afflusso di armi statunitensi, spesso finite in mano ad organizzazioni collegate al narcotraffico.
Dal canto suo la Cina, che negli scorsi anni aveva aumentato a sua volta i dazi, danneggiando soprattutto gli agricoltori statunitensi, paventa ora meno moderazione nella volontà di portare avanti un blocco al traffico Fentanil, dichiarando tramite il portavoce del ministero degli esteri, Liu Pengyu che “una guerra commerciale non avrebbe vincitori, ma solo sconfitti”.
Al tempo stesso Pechino, primo produttore al mondo di riso, mais, frutta, verdura e pollame, che ha visto in pochi anni una contrazione dal 93% al 65% della propria autosufficienza alimentare, si prepara ad una possibile guerra commerciale e annuncia un piano d’azione contro gli sprechi alimentari, con ingenti investimenti in innovazione tecnologica per macchine agricole, sistemi di stoccaggio e trasporto, sistemi di produzione con standard industriali e monocolture, a scapito della biodiversità. La sfida di dover sfamare una popolazione di 1 miliardo e 400 milioni di concittadini ha spinto il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese a stilare un decalogo di linee guida per il consumo, con l’invito alla frugalità e la lotta agli sprechi, senza trascurare divieti e precetti morali.

Nel quadro globale delle relazioni commerciali un altro mercato preponderante e altrettanto dipendente dagli approvvigionamenti delle materie prime è poi quello dell’Unione Europea, dove sono palpabili le preoccupazioni per la crescita produttiva nei settori chiave legati agli USA come quelli di automotive e chimica, in caso di divergenze nella politica monetaria. Il danno potrebbe arrivare a toccare l’1,5% del PIL del mercato unico con una perdita stimata di 260 miliardi di euro, tale da costringere la BCE a ridurre i tassi di interesse intorno allo zero entro il 2025 per provare a compensare gli svantaggi competitivi , a fronte di probabili aumenti della FED, in una delle maggiori divergenze monetarie nei rapporti transatlantici dalla nascita dell’euro nel 1999.
Nel 2023 l’UE ha esportato beni per circa 502 miliardi di euro negli USA, arrivando ad un quinto dell’export totale verso Washington, soprattutto di macchinari e veicoli (per 207,6 miliardi di euro), prodotti chimici (per 137,4 miliardi di euro) e altri manufatti (103,7 miliardi di euro). Intanto i titoli delle case automobilistiche europee hanno subito perdite in Borsa in seguito alle dichiarazioni di Trump, tanto da far calare le azioni di BMW del 1,36%, quelle di Volkswagen del 2,6%, al pari del produttore di componentistica francese Valeo, superati in peggio da quelle del gruppo Stellantis del 4,54%.
Non sono mancate reazioni politiche divergenti al nuovo scenario. Per il ministro tedesco dell’Economia, Habeck, “l’Europa si deve attrezzare a questo scenario”. La replica sul Financial Times della Presidente BCE, Christine Lagarde, punta a placare le animosità affermando che l’UE “non deve fare ritorsioni, ma negoziare” concentrandosi su una strategia di acquisti selettivi, come per “gas naturale e attrezzature per la difesa”.

Allargando ancora la prospettiva europea sul commercio mondiale è in dirittura d’arrivo l’accordo avviato nel 2019 fra UE e MercoSur, l’organizzazione internazionale formata da Brasile, Argentina, Paraguay, Uruguay e Bolivia nel 1991, che con la liberalizzazione delle tariffe aprirebbe una nuova area di libero scambio verso un mercato di oltre 700 milioni di consumatori. Nei giorni scorsi però un parlamento francese agitato dalle proteste degli agricoltori e dalle turbolenze del precario governo del conservatore Michel Barnier si è allineato alle posizioni contrarie già espresse da Polonia, Austria, Paesi Bassi, Irlanda e Italia, che tramite la premier Meloni ha parlato di “trattato inaccettabile”. Oltre alla Germania, che cerca nuove destinazioni di sbocco di macchine e beni industriali anche aprendo all’import di prodotti agricoli; nell’Eurozona restano favorevoli solo Spagna e Portogallo per il momento, pur avanzando proposte di rinegoziazione di alcune clausole a sanare un prezzo sanitario ed ambientale troppo alto, anche per le ricadute in termini sociali del commercio di prodotti pericolosi o non conformi agli standard in vigore.

A contestare l’accordo con i paesi del mercato comune sudamericano sono oltre 265 organizzazioni della società civile, che hanno lanciato una campagna sul ‘MalTrattato per la tutela dei diritti umani, contro la crisi climatica e la deforestazione, che deriverebbero da eccessive liberalizzazioni. “Crediamo che questo trattato non solo non vada nella giusta direzione, ma sia altamente dannoso per il pianeta, per il clima e per i diritti umani” sostengono i promotori da entrambe le sponde dell’oceano, che qui si ritrovano nelle posizioni di organizzazioni come A Buon Diritto, STOP TTIP, Terra Onlus e tante altre.

In vista del vertice di Montevideo dei prossimi giorni, alcuni sostenitori dell’accordo hanno parlato di un’apertura che possa bilanciare le minacce protezionistiche di Trump e le turbolenze negli scambi con la Cina, in un contesto di restrizioni al commercio con altri player regionali come la Russia.

Se per alcuni commentatori, come William Reinsch del National Foreign Council le minacce del prossimo inquilino della Casa Bianca sono orientate soprattutto alla rinegoziazione anticipata di alcune clausole del NAFTA; di certo una spirale protezionistica nei prossimi anni non potrà ripagare le perdite della bilancia commerciale almeno nel breve termine, soprattutto in una persistente policrisi, che sposta sul piano finanziario la concentrazione di profitti, a scapito di danni ambientali e sociali ingenti. Il primo rischio tangibile è infatti lo scaricamento dei costi di nuove tariffe sui consumatori, con una tendenza alla stagflazione perdurante come si vive negli ultimi anni in molti paesi dell’Europa occidentale.

La prima impressione di questo ritorno al potere di ‘tariffa-Trump’ sul piano internazionale è quello di spostare il confronto geopolitico dalle guerre per procura della presidenza Biden, alla competizione commerciale ed economica sui mercati aperti, con un cambio di paradigma, che non sembra certo invertire la deriva disumana di una crescita dei profitti a scapito di ambiente, salute e salari, sancendo una volta di più il fallimento delle promesse neo-liberiste, adeguate all’occorrenza per la causa della supremazia nazionale.

Tommaso Chiti

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