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Soldi ai partiti

di Stefano
Galieni

Nel tentativo, ad oggi stoppato dal Colle, di raddoppiare la somma da destinare per il 2×1000 come forma di finanziamento ai partiti (non tutti), si intravede un segnale. Potrebbe essere la prima crepa di una vulgata fascistoide, portata avanti con successo, prima dal Partito Radicale, contro la cosiddetta “partitocrazia”, e che poi ha fatto la fortuna del M5S. Non va certo nascosto che l’insieme di corruttele che ha dato via a “tangentopoli”, ha avvantaggiato – anche per l’uso che ne è stato fatto – questo sentimento diffuso di disprezzo per chi agisce nella politica, percepito – spesso non senza ragioni – come privilegiato, ma alla fine dipinto come capro espiatorio della crisi democratica e della rappresentanza in Italia. Dietro le spinte dei Radicali c’era una strategia ben precisa che si è sposata con l’imposizione del sistema elettorale maggioritario e con i tentativi di portare l’Italia verso un bipolarismo del tipo statunitense che ha stravolto il dettato costituzionale. Uno dei refrain utilizzato allora si basava sui due assunti falsi secondo cui andava garantita la stabilità e la governabilità e che la compresenza di troppe forze politiche in conflitto fra di loro erano l’impedimento a tale scopo. Entrambi gli obiettivi si sono rivelati utili unicamente ad accentrare sugli esecutivi, dai Comuni al Governo nazionale, ogni forma di potere reale, rendendo gli organismi elettivi pressoché ininfluenti. Per essere esatti, di fronte a maggioranze coese, il voto in aula è utilizzato come rafforzativo per dare maggiore senso a quanto già deciso dagli organismi esecutivi, altrimenti si provvede per decreti o altre strade che non impegnano, in particolar modo il Parlamento – peraltro dimezzato nei numeri da ennesima legge sciagurata – in dibattiti e/o mediazioni. Si è così smantellato nei fatti lo spirito costituente che definiva le aule parlamentari come il luogo in cui far convivere i diversi interessi espressi dalle classi sociali, secondo un’idea di democrazia borghese e liberale di allora, divenuta oggi un vincolo da eliminare a qualsiasi costo. Peraltro anche la diminuzione del numero dei partiti presenti in parlamento si è tutt’altro che rarefatta. Se durante la cosiddetta Prima Repubblica nelle aule sedevano rappresentanti di non più di 10 forze politiche oggi, dopo il voto basato su coalizioni che costringono in molte/i alla scelta del meno peggio, le/gli elette/i (in realtà nominate/i), si dividono sovente in gruppetti che non rappresentano alcuna realtà nel Paese ma possono avere la propria piccola fetta di torta in quella che è la sola forma ufficiale per finanziarsi, la detrazione del 2×1000 dalla dichiarazione dei redditi. Oggi, malgrado appunto siedano nelle aule la metà dei parlamentari, i gruppi costituiti risultano essere 29, ma ovviamente questo non crea alcun problema.

Ogni anno il Parlamento definisce quale è la somma che, sulla base delle dichiarazioni dei redditi, verranno divise in proporzioni fra le forze politiche ma la ripartizione viene effettuata solo fra coloro che risultano essere presenti in una delle due aule, anche se i gruppi si sono definiti e /o costituiti dopo la nascita della legislatura. Col risultato che solo i partiti/gruppi già costituiti e che quindi hanno già risorse, possono ottenerne altre. La scure del sistema elettorale fa si che chi non si è alleato, non accettando le imposizioni dei gruppi più forti, non riuscendo ad eleggere è condannato a sopravvivere e, contemporaneamente, grazie anche alla ghigliottina della soglia di sbarramento, chi non si adegua non elegge. In questo farraginoso ed esclusivo meccanismo, tre deputate/i possono dichiarare di voler costituire un diverso gruppo e far ottenere il 2×1000, poteva, fino a 2 anni fa, anche il regolamento del Senato lo permetteva ed era sufficiente un solo eletto ma, con una modifica oggi risulta che ciò è possibile solo a condizione che la forza a cui la senatrice o il senatore dichiara di voler aderire si sia presentata alle elezioni con il proprio simbolo. Rifondazione Comunista è uno dei soggetti che, per scelta politica, ha rifiutato di aderire ad alleanze frutto del bipolarismo imperfetto che oggi governa il Paese e, scontando anche un oscuramento mediatico permesso dalla mancata presenza in Parlamento, oggi riesce a reggersi potendo contare unicamente sulle/i proprie/i militanti, simpatizzanti e iscritti. Non a caso giorni fa è stata lanciata un’emergenza per garantire a questo partito che esiste dal 1991 la sopravvivenza. Condividendo l’urgenza di mantenere in vita questo spazio di democrazia, invitiamo caldamente chi ci legge a sottoscrivere in base alle proprie sensibilità e / o volontà. Basta, per farlo, digitare il link https://archivio.rifondazione.app/sepa_intro.html. Ma questa è solo la punta dell’iceberg di un problema che va risolto e che si traduce in una semplice elaborazione: è possibile vivere in un Paese in cui fare politica è permessa solo ai ricchi, a chi gode del sostegno di lobbies, sostegno di fondazioni e altre entrate spesso di provenienza opaca? Non sarà che anche la disaffezione generale alla politica trovi spazio nell’impossibilità di esercitare, oltre il diritto di voto, forme di partecipazione fondate sull’aggregazione anche nei territori, che hanno dei costi. Negli Usa hanno risolto il problema in maniera semplice. I due grandi partiti sono permanentemente comitati elettorali e le campagne si organizzano sulla base di un sostegno volontario ma non certo disinteressato di aziende, comparti economici, lobbies, gruppi finanziari, media eccetera. Risultato, al di là di chi si reca poi alle urne, i seggi sono riservati a persone il cui conto corrente gode sempre di ottima salute.

E nel resto d’Europa?  In Germania è ancora in vigore, in materia una legge del 1994, modificata 10 anni dopo, secondo cui alle formazioni politiche che superano determinate soglie di voti venga annualmente corrisposto un contributo proporzionale ai voti ricevuti e un contributo calcolato sulla quota dei contributi versati da privati, entrambi a carico del bilancio dello Stato. L’esborso massimo per lo Stato è fissato, per il 2019, in 190 milioni di euro. Sono poi previsti un contributo pubblico ai gruppi parlamentari e la possibilità di finanziamenti privati, deducibili entro determinate soglie. In Francia il finanziamento pubblico dei partiti è a carico del bilancio dello Stato e l’entità massima dell’erogazione è stabilita annualmente dalla legge finanziaria. L’ammontare degli stanziamenti di pagamento individuato dalla legge finanziaria è ripartito in due frazioni eguali: la prima è destinata ai partiti politici in base ai voti ottenuti in occasione delle ultime elezioni per il rinnovo dell’Assemblea nazionale, la seconda è destinata ai partiti politici in funzione della loro rappresentanza parlamentare. Sono poi previsti dei rimborsi, forfettari ma con dei limiti, per le spese elettorali e i privati possono fare donazioni, di nuovo entro certi limiti e con modalità specifiche. Nel Regno Unito, il finanziamento pubblico ai partiti politici riveste tradizionalmente un ruolo marginale che derivano dalla natura giuridica dei partiti politici, privi di personalità giuridica e considerati al pari di organizzazioni volontarie. Sono previsti – a parte gli incentivi finanziari destinati a tutti i partiti (policy development grants) – conferimenti in denaro solo per i partiti di opposizione, con l’idea di compensare i vantaggi che vengono al partito di maggioranza all’essere al governo; vantaggi economici, ma non solo. Questi conferimenti (detti Short money) vengono dati ai partiti che hanno eletto almeno due deputati (o un deputato ma più di 150 mila voti) e assumono tre diverse forme: contributo generale per lo svolgimento dell’attività parlamentare; contributo per le spese di viaggio sostenute dai membri dei gruppi parlamentari di opposizione; dotazione riservata all’ufficio del capo dell’opposizione. In pratica, nonostante anche qui prevalga un sistema bipolare almeno chi è all’opposizione viene compensato. In Spagna la normativa prevede addirittura cinque forme di finanziamento destinate alle casse di partiti, federazioni, coalizioni o gruppi di elettori erogate da parte dello Stato e dalle Comunità autonome: le sovvenzioni a titolo di rimborso delle spese elettorali, le sovvenzioni statali annuali per le spese generali di funzionamento, le sovvenzioni annuali stabilite dalle Comunità autonome e, se del caso, dagli enti locali, per le spese generali di funzionamento nel proprio ambito territoriale, le sovvenzioni straordinarie per la realizzazione di campagne di propaganda in occasione dello svolgimento di referendum, le erogazioni che i partiti possono ricevere dai gruppi parlamentari delle Camere, delle Assemblee legislative delle Comunità autonome e dai gruppi di rappresentanza negli organi degli enti locali. Ovviamente sono previsti anche contributi privati sebbene con limiti e controlli molto puntuali. Di fatto in tutta Europa si considera il sostegno all’attività politica come un obbligo dello Stato che però, in maniera diversa, attua forme di controllo per verificare la trasparenza nella rendicontazione. Non è certo il paradiso ma questo non ha allontanato elettrici ed elettori dai partiti, anzi ha permesso l’esistenza di partiti di massa in grado di agire tanto sui territori che nel quadro nazionale.

Cessati gli effetti della sbornia dell’antipolitica, anche da noi ci si rende conto che l’abolizione del finanziamento pubblico è stato un colpo mortale per la democrazia e fioccano proposte, anche bipartisan per ripristinarne l’esistenza. Il 15 aprile scorso a Roma, si è tenuto un evento promosso da Raise the Wind, The Good Lobby, Transparency International Italia e Volt Italia, in cui è stato lanciato il “Manifesto del finanziamento etico, trasparente e democratico alla politica italiana”. E curiosamente all’evento hanno partecipato anche i tesorieri di + Europa e dei Radicali Italiani, un tempo artefici dei danni arrecati. Il “Manifesto” che non contiene la soluzione al problema apre almeno una discussione che i promotori vorrebbero tradurre in proposta di legge e in campagne di advocacy. Si è affacciata l’idea di un “codice etico” di comportamento dei partiti che ne preveda la democratizzazione. Peccato che in parte questa sia già richiesta nei regolamenti che permettono l’iscrizione all’albo dei Partiti. C’è poi l’idea di democratizzare il 2X1000, attraverso una rendicontazione chiara e unica per chiunque riceva fondi a sostegno della politica, una rendicontazione delle associazioni e delle fondazioni legate ai partiti e, infine, la creazione di sistemi che evitino il voto di scambio, prendendo esempio dalle strutture di finanziamento delle campagne elettorali dei Pac statunitensi. La montagna che partorì il topolino, insomma, se si eccettuano alcune proposte lanciate da Volt Italia. La sua rappresentante Silvia Panini ha chiesto di allargare la pletora dei partiti che possono accedere al 2 per mille e di reintrodurre i rimborsi elettorali dopo aver superato una certa quota di voti riducendo contemporaneamente le barriere alla presentazione delle liste elettorali. Il direttore di The Good Lobby, Federico Anghelé, ha invece ragionato su trasparenza e controllo: «Un finanziamento alla politica prevalentemente privato avrebbe bisogno di anticorpi in materia di trasparenza ad oggi ancora largamente assenti», ha sottolineato. «Inoltre – ha aggiunto Anghelé – servirebbero una piattaforma unica nazionale che permetta a tutti un controllo puntuale e costante del finanziamento e risorse adeguate per il comitato incaricato di controllare ed eventualmente sanzionare». Un timido segnale ad un parlamento e ad un governo che non sembrano intenzionati a toccare questi temi dopo che molti loro esponenti li hanno sia cavalcati che utilizzati per trarne consenso e risorse. Per questo reiteriamo il consiglio, date una mano a Rifondazione Comunista, di cui ancora, in questo Paese c’è bisogno.

Stefano Galieni

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