Il centenario della morte di Lenin offre l’occasione per qualche riflessione sull’esperienza del grande rivoluzionario russo in relazione ai problemi che si presentano attualmente a quella sinistra che si pone obbiettivi di trasformazione sociale. Il contesto globale nel quale ci troviamo è caratterizzato da un sovrapporsi di crisi per le quali le classi dominanti non sembrano essere in grado di trovare soluzioni. Contemporaneamente vediamo come la principale risposta a questa crisi di egemonia e di prospettiva consista nell’affermarsi di tendenze etnonazionaliste, a volte apertamente razziste e autoritarie. Una alternativa che non intacca il meccanismo capitalistico e che è certamente illusoria ma in grado di raccogliere un vasto consenso. Resta invece parziale, frammentata e spesso solo marginale una risposta di altro segno, di contestazione del capitalismo da sinistra, secondo principi di giustizia sociale e liberazione collettiva e individuale1.
Passato o presente
Esistono certamente a sinistra, anche nella sinistra radicale, molti punti di vista diversi attorno alla valutazione da dare dell’esperienza leniniana. Scartando quelle posizioni che risultano banalmente agiografiche, si tratta soprattutto di cogliere tutti quegli gli elementi utili ad una discussione non schiacciata sul contingente.
Innanzitutto non è affatto scontato che si condivida l’idea dell’utilità di riflettere ancora sull’esperienza del partito bolscevico e della rivoluzione che diede vita all’Unione Sovietica. Vi è chi ritiene che, in pratica, tutta l’esperienza del ‘900 si sia conclusa con una cesura radicale non sanabile. Questa rottura è stata il frutto di una sconfitta dalla quale si può uscire solo archiviando definitivamente le esperienze del secolo scorso. Il contesto economico, sociale, ideologico è talmente modificato – si sostiene – che a poco serve ricuperare tesi e concetti dell’esperienza passata. Occorre quindi – è la necessaria conclusione – un pensiero totalmente nuovo per affrontare una situazione che è inedita.
Da questo approccio non sempre emergono poi proposte realmente innovative. Invece si possono considerare come realmente nuovi due filoni di pensiero, a sinistra, che hanno provato ad immaginare una nuova strategia basata su di un ripensamento radicale del passato.
Il primo tentativo è sorto dalla teorizzazione dell’esperienza zapatista degli anni ’90, che fu forse il primo tentativo di rialzare la testa di un movimento radicalmente critico del paradigma liberista dominante. Questo punto di vista si è incarnato nell’idea del “cambiare il mondo senza prendere il potere”, come proposto da John Holloway2. In questo caso non si tratta propriamente di riprendere la tradizione anarchica sull’immediata dissoluzione dello Stato come precondizione per la trasformazione sociale, ma di assumere l’obbiettivo rivoluzionario come qualcosa che si colloca interamente nella società civile.
Una tesi precedente ma assimilabile almeno sulla questione del potere è quella avanzata da Walter Benjamin sulla rivoluzione come “freno d’emergenza”. Anche in questo caso la questione del potere viene accantonata, all’interno di una visione sostanzialmente pessimista del corso storico, per cui si può solo cercare di fermare la catastrofe verso la quale ci conduce il capitalismo piuttosto che proporsi di costruire un nuovo ordine sociale e politico.
Evidentemente la questione del “potere” rappresenta un problema che non si può facilmente aggirare, tenendo conto dell’esperienza storica che proprio a partire dalla Rivoluzione d’ottobre si è posta al movimento operaio. Da un lato il “potere” (come per Marx il “capitale”) non è una cosa ma una relazione sociale. Più che di “presa del potere” occorrerebbe quindi parlare di mutamento dei rapporti di forza esistenti tra le classi e i diversi soggetti sociali che subiscono il potere altrui. E’ del tutto evidente che nel pensiero leniniano la questione del potere resta comunque centrale. Difficile pensare che un partito politico non possa porsi concretamente il tema di come incidere sui reali rapporti di forza politici e sociali entro cui opera senza diventare qualcos’altro.
Un secondo filone teorico è quello del populismo di sinistra nel quale al contrario si è posto al centro il tema della conquista del governo attraverso l’interazione con movimenti e soggetti sociali raggruppati attorno alla frattura amico-nemico. Questa polarizzazione è perseguita soprattutto attraverso una narrazione mobilitante, partendo dalla convinzione che non esistano più posizioni sociali oggettive tali da predisporre al cambiamento radicale della società.
Non è questa l’occasione per trarre un bilancio di queste esperienze ma si tratta solo di citarle perché sono quelle che hanno tentato di definire una strategia alternativa a quella in buona parte ispirata da Lenin e attorno alla quale (pur con le deformazioni successive, soprattutto nel processo di stalinizzazione del “leninismo”), si sono riconosciuto gran parte dei partiti comunisti.
Vanno anche segnalati filoni culturali e politici che già prima della cesura degli anni ’90 si sono posti criticamente nei confronti del pensiero e dell’azione di Lenin. Alcuni di essi si può dire che entrarono in polemica già in tempo reale, nel momento stesso in cui gli eventi si svolgevano. Sono note le critiche rivolte alla posizione di Lenin assunta nel congresso del Partito Operaio Socialdemocratico Russo del 1903, sull’idea di partito, che portò alla rottura mai più ricomposta tra bolscevichi e menscevichi. Il dissenso venne espresso con particolare veemenza da Trotsky (che poi correggerà la propria posizione) e forti critiche arrivarono anche da Rosa Luxemburg.
Esiste quindi un’ampia letteratura di marxismo e di comunismo critico di Lenin e del “leninismo”, animata da teorici che si collocavano sia alla sua destra che alla sua sinistra. Gran parte della socialdemocrazia che si riconosceva nella Seconda Internazionale coglieva in Lenin solo una volontà dittatura, che soprattutto durante la guerra fredda verrà reinterpretata secondo la categoria del “totalitarismo”. Anche se non mancarono posizioni intermedie (ad esempio l’austro-marxismo) che univano sia elementi critici che solidarietà politica al processo rivoluzionario e poi alla costruzione dell’Unione Sovietica. A sinistra molte delle correnti che furono oggetto delle critiche di Lenin nel famoso pamphlet sull’estremismo, mantennero un chiaro dissenso da Lenin su molte questioni (con l’eccezione della corrente bordighista).
Quale Lenin ci serve oggi?
Alla luce del bilancio dell’esperienza storica sovietica, della crisi del movimento comunista internazionale come si era andato via via definendo dopo la morte di Lenin, si pone l’interrogativo di quali problematiche affrontate dal rivoluzionario russo siano ancora di attualità e quali invece vadano respinte alla luce di ciò che è accaduto dopo o quali sono più semplicemente connesse ad un contesto che non è quello nel quale ci troviamo ad agire.
Mi pare che non sia più accettabile l’idea di un potere (una dittatura) in cui l’uso della violenza sia sottratto a qualsiasi vincolo. Questa tesi la si deve certamente collocare in un determinato contesto storico caratterizzato dal conflitto mondiale e poi dalla guerra civile. Si deve inoltre considerare che essa si basava sull’assunto fondamentale che si doveva trattare della dittatura della stragrande maggioranza e che quindi la violenza si sarebbe applicata solo in caso di reazione anch’essa violenta delle vecchie classi dominanti. Si è poi visto, nella fase staliniana, come si sia in realtà estesa a strumento di risoluzione dei conflitti con settori sociali ben più vasti delle sole vecchie classi. Con un altissimo e in gran parte ingiustificato costo in vite umane.
Va considerata in maniera critica e come in gran parte inattuale la convinzione di Lenin che attraverso lo sviluppo del “capitalismo monopolistico di stato” si potesse accelerare il passaggio al socialismo. Il cambiamento sarebbe derivato dal fatto che questi monopoli anziché essere controllati dalla borghesia per le proprie finalità, sarebbero finiti sotto il controllo delle classi popolari. Questa è stata per molto tempo la convinzione del movimento comunista, ma la tendenza del capitalismo, con la svolta neoliberista degli anni ’80, si è indirizzata verso una riprivatizzazione dei monopoli e delle grandi corporations pubbliche.
Quindi che cosa è attuale dell’azione di Lenin e sella sua riflessione teorica al giorno d’oggi? A me pare che vi siano fondamentalmente tre questioni. La prima è quella della necessità del partito politico, la seconda quella dell’imperialismo e la terza quella del rapporto tra identità nazionali e internazionalismo.
Mi vorrei soffermare soprattutto sulla prima, ma con almeno un breve cenno alle altre. Per quanto riguarda la questione dell’imperialismo è noto il “saggio popolare” di Lenin con il quale cercava di spiegare la guerra mondiale a partire dalle tendenze strutturali del capitalismo. Per questo sottolineava Lenin l’imperialismo è una “fase” e non una “politica”. Questo è stato assunto nel tempo nel movimento comunista come la parola definitiva sull’argomento. In realtà sono stata avanzate diverse osservazioni critiche e spiegazioni alternative a quelle leniniane3. Una lettura critica del testo leniniano, da un punto di vista luxemburghiano, è offerta da Lelio Basso in “La teoria dell’imperialismo in Lenin”, saggio contenuto in Storia del marxismo contemporaneo, volume quinto, 1978, Feltrinelli.. Una revisione e un aggiornamento teorico è certamente necessario, ma la comprensione dell’intreccio tra l’attuale assetto internazionale, le dinamiche interne al capitalismo e la tendenza alla guerra come strumento di soluzione dei conflitti interstatali e globali, è una necessità. Ipotesi teoriche alternative di analisi dell’assetto globale che hanno avuto un certo successo, come quella sull’Impero avanzate da Toni Negri, non sembrano essere state effettivamente verificate dall’evoluzione della situazione internazionale.
Il terzo tema, quello del rapporto tra nazionale e sovranazionale, che Lenin ha cercato di affrontare teoricamente ma anche di risolvere praticamente nella costituzione dell’Unione Sovietica, in quanto federazione di nazionalità, mi sembra che vada rianalizzato in connessione a quello dell’imperialismo. Anche per evitarne una lettura meramente economicista di quest’ultimo che non tenga conto della dimensione ideologica e culturale (e della forza del “senso comune” di cui spesso parlava Gramsci). Tanto più che le tendenze reazionarie oggi particolarmente forti si fondono proprio sul rilancio di un nazionalismo regressivo.
La questione del partito
Una questione che è certamente centrale nel pensiero e nell’azione di Lenin è quella del partito. Come scriveva Marcel Liebman “il principale contributo alla realtà politica del nostro tempo è stata la sua creazione del Partito Bolscevico”4. Sulla vicenda del partito bolscevico sono emerse nel tempo molte controversie, polemiche e anche letture contrastanti.
Per Lenin il partito è uno strumento necessario al processo di trasformazione sociale che avviene attraverso una rottura della continuità dell’esistente. Questo partito è collocato all’incrocio di due altri termini che vengono messi tra loro in connessione necessaria: la teoria e la classe.
Per Lenin, secondo la nota formula, non ci può essere movimento rivoluzionario (ed è interessante che in questo caso usi il termine movimento e non partito) senza teoria rivoluzionaria. La teoria è necessaria perché il processo di trasformazione sociale è un percorso consapevole nel quale le classi popolari si appropriano della conoscenza della realtà al fine di poterla dominare e guidare verso un nuovo assetto sociale definito, alla fine di un lungo processo storico, come comunista. E’ implicito in questo che vi possano essere partiti senza una teoria esplicita, ma che in questo caso ve ne sia una implicita che consiste nell’accettazione dell’esistente come contesto insuperabile.
Se si esaminano i partiti della sinistra radicale in Europa, ma anche al di fuori di essa, si può verificare come il dibattito teorico in questa fase non abbia una particolare rilevanza, mentre il confronto si concentra sulle questioni programmatiche (ad esempio l’atteggiamento nei confronti dell’Europa, le politiche per il reddito di base, la politica internazionale e così via). Questo ridimensionamento teorico può essere considerato un adattamento al fatto che non si vedono spazi reali per una strategia di trasformazione complessiva. L’azione politica è quindi concentrata sulla possibilità dall’opposizione o, laddove ve ne siano le condizioni, dal governo, per ottenere correzioni politiche rispetto alle politiche ispirate dal paradigma liberista dominante.
Niente movimento senza teoria
Per una strategia di rottura su elementi fondamentali sella società capitalistica, secondo Lenin, è indispensabile una elaborazione teorica adeguata. Ci si deve chiedere fino a che punto si tratti solo di teoria e non anche di ideologia. Intendiamo come teoria, certamente con una distinzione rozza, quell’insieme di tesi che utilizzano un metodo scientifico (chiarezza dei concetti, argomentazione logica, verificabilità). Nella visione marxiana, l’ideologia, intesa come falsa coscienza della borghesia al fine di giustificare il proprio ruolo di classe dominante, sarebbe stata destinata ad essere superata e accantonata da una visione prettamente scientifica, dato che la classe operaia, in quanto classe destinata al superamento delle classi non aveva più bisogno di giustificare ideologicamente il proprio ruolo.
In realtà si può considerare una previsione non verificata quella di una completa eliminazione dell’aspetto ideologico, ovvero di un insieme di valori, visioni, concezioni che non sono direttamente riducibili alla dimensione scientifica (essa stessa oggetto da tempo di considerazioni critiche sui suoi stessi fondamenti).
Va detto che in Lenin vi è già una diversa valutazione della dimensione ideologica rispetto a Marx. In ogni caso non si può ritenere che, se l’ideologia non può essere integralmente assorbita nella teoria, nemmeno può valere il contrario. Altrimenti l’ideologia diventa solo un proclama di buone intenzioni e di ispirazioni morali (la giustizia, il bene, la libertà) che possono vagamente ispirare la politica quotidiana.
Per quanto riguarda la dimensione teorica di che cosa si occupa Lenin? Ovviamente di teoria politica (il partito, i soviet, lo stato, la rivoluzione, i movimenti di massa, ecc.) e al momento della conquista del potere di teoria economica. In genere con un atteggiamento estremamente flessibile nell’adattare i principi alla realtà senza però perdere il senso della direzione fondamentale di marcia.
Due tematiche particolari che vanno evidenziate sono quelle contenute in due testi considerati fondamentali: “Lo sviluppo del capitalismo in Russia” e “Materialismo ed empiriocriticismo”. Da un lato la dimensione sociologica viene affrontata non tanto attraverso l’analisi del capitalismo in generale ma delle caratteristiche specifiche del capitalismo russo, condizione fondamentale per definire una strategia politica adeguata alla realtà nella quale si opera. Dall’altro lato viene ritenuta necessaria una dimensione filosofica. Al di là delle tesi sostenute in quel testo, che va poi inserito nell’evoluzione successiva e anche nella filosofia implicita nella sua azione politica, mi sembra che il tema fondamentale sia il rapporto fra il soggetto del cambiamento (il partito, la classe) e la realtà. Anche attraverso il successivo studio di Hegel compiuto in Svizzera, Lenin riformula alcune dei concetti fondamentali (il materialismo, la dialettica) attraverso una rimessa in discussione del determinismo prevalente nella Seconda Internazionale, senza cadere in un puro volontarismo del soggetto collettivo.
Come sappiamo molte delle convinzioni fondamentali di Lenin sono state messe in discussione a partire dal rapporto tra Hegel e Marx. La stessa idea della dialettica è fortemente contestata da molti filoni teorici successivi. Lo stesso si può dire anche dell’idea di una realtà esterna conoscibile e per ciò stesso trasformabile secondo un progetto cosciente (ad esempio Foucault).
Il riferimento all’intellettuale francese è necessario perché notevole è la sua influenza su diversi settori della sinistra radicale ed anche dell’estrema sinistra. Questa è ad esempio la tesi sostenuta con molto vigore da Stephanie Roza, secondo la quale “in Foucault (…) il rigetto del razionalismo emerso dall’Illuminismo a per corollario la rottura aperta con l’obbiettivo dell’emancipazione umana in generale. (…) Per questo non c’è un progetto di società alternativa foucaultiana e non può esserci (…). Nella prospettiva foucaultiana, qualsiasi piano complessivo, qualsiasi strategia globale si scontra con il divieto della normatività. In fine, restano dunque pienamente legittime solo le strategie individuali di sovversione delle norme condotte in nome del potere di resistenza che giace in ognuno di noi”5. Si potrà vedere qui il fondamento di proposte strategiche che consistono appunto nel sottrarsi all’esistente (esodo, diserzione ma anche rifiuto del lavoro) senza che si proponga un assetto sociale alternativo (un “ordine nuovo” per usare una formula gramsciana) in quanto già in se potenzialmente “totalitario”.
Nella successiva rielaborazione staliniana il “marxismo-leninismo” ha assunto dimensione enciclopediche tali da dare risposta praticamente a qualsiasi interrogativo teorico. Si veda ad esempio la struttura del principale manuale sovietico, “I fondamenti del marxismo-leninismo”, che iniziano con la definizione della filosofia (il materialismo dialettico), per proseguire con il materialismo storico, l’imperialismo, rivoluzione, il movimento operaio ecc. ecc. fino a delineare i tratti della società comunista di là da venire6.
Anche se forse non in diretta polemica con questa impostazione ma certamente differenziandosene, in un intervento del 1956 Togliatti affermava: “I nostri principi non sono dogmi. Non scriveremo mai il catechismo della nostra ideologia e della nostra politica, e chi cerca un catechismo non venga da noi. I nostri principi formano un metodo di cui ci serviamo per esaminare il modo come si sviluppano e muovono nel mondo le forze reali e le forze di classe, capire i contrasti che ne escono, seguire il modo come in questi contrasti si formano la coscienza di classe e la coscienza politica della classe operaia e della sua avanguardia, e da tutto questo derivare la soluzione dei problemi che stanno davanti a noi.”7
Ma non c’è dubbio che anche questa definizione del campo teorico aveva alle spalle una concezione filosofica, ovvero una certa idea del marxismo come storicismo e della dialettica come strumento di interpretazione della realtà.
Il partito come anello di congiunzione
Su quale idea del partito avesse realmente Lenin si sono scritte migliaia di pagine. Dato che nel tempo ha espresso idee diverse sulla questione, si poteva alla fine trasformare in “leninismo” ortodosso qualsiasi concezione, magari pescando questa o quella citazione estrapolata dal contesto8.
Molta influenza ha avuto naturalmente il suo opuscolo intitolato “Che fare?” (1902-3) nel quale utilizzava formule rimaste famose sul rapporto partito-classe. Per Lenin come detto il partito doveva disporre di una teoria (da verificare sempre nei processi reali) e dato che questa doveva avvalersi delle acquisizioni dell’umanità fino alle idee della borghesia, diventava necessario disporre dell’apporto di coloro che quella teoria la conoscono per mestiere, ovvero gli intellettuali.
In questo senso la coscienza socialista viene portata alla classe operaia “dall’esterno”. Questa formulazione viene poi utilizzata con un secondo significato. Lenin spiega che la classe operaia spontaneamente può arrivare ad una coscienza “tradeunionista” (di tipo sindacale, legata solo all’interesse economico) se non acquisisce una comprensione dei rapporti sociali esterni al rapporto diretto col capitale nella fabbrica. Quindi le relazioni tra tutte le classi e di queste col sistema economico complessivo e con lo Stato.
Queste affermazioni sono state interpretate come se il partito in quanto tale dovesse essere esterno alla “classe operaia” e per sempre guidarla verso un fine che gli stessi operai da soli non avrebbero potuto comprendere. Nelle letture più critiche due erano le colpe che venivano attribuite a Lenin, in conseguenza di ciò, un rifiuto del valore della spontaneità nonché un eccessivo avanguardismo.
Va tenuto presente che lo stesso Lenin qualche anno dopo inviterà a relativizzare alcune posizioni espresse nel “Che fare?” inserendole nel contesto del conflitto politico ai fini del quale era stato scritto. In quel momento l’avversario polemico era fornito dalla corrente dei cosiddetti “economisti”, i quali attribuivano alla classe operaia soprattutto una funzione di lotta economica, lasciando alla borghesia liberale il compito di occupare il terreno della lotta politica contro l’autocrazia.
Quanto al concetto di “avanguardia”, legato al frequente uso di una terminologia militare (strategia, fronte, ecc.) propria ad una intera fase della storia del movimento operaio, nella concezione leniniana questa poteva essere tale solo se inserita in un contesto di legami di massa. Non poteva esistere un’avanguardia che si proclamasse tale per autoproclamazione. Per questo Lenin sottolineava il fatto che il partito doveva essere “parte” della classe operaia e raccoglierne i settori più coscienti.
Nel corso del tempo sono emerse concezioni diverse del rapporto tra partito e classe operaia. Ad esempio, nel caso di Amadeo Bordiga, il partito doveva essere “organo” della classe e la sua funzione era soprattutto collegata a mantenere intatto il patrimonio teorico che in quanto tale doveva restare “invariante” ovvero non subordinato al contesto politico e sociale nel quale il partito si trovava ad operare. In Bordiga c’era una accentuazione del carattere scientifico del programma fondamentale, in quanto tale una volta dato non poteva essere messo in discussione e tanto meno subordinato a votazione a maggioranza. Come non si può decidere se 2+2 fa 4 con un dibattito tra mozioni contrastanti. Conseguentemente Bordiga era contrario anche al centralismo democratico, ai Congressi e ad ogni forma di “democraticismo” preferendo invece una forma di “centralismo organico” che gli consentiva in pratica di avere il monopolio della produzione teorica del partito (sempre definita come “invariante”).
Di diversa rilevanza un’altra formulazione del rapporto tra partito e classe operaia, in questo caso considerata piuttosto una risposta allo stalinismo più che una vera alternativa al leninismo. E’ la concezione teorica che vede il partito come “strumento” della classe contenuta nelle note “Sette tesi sul controllo operaio” formulate da Panzieri e Libertini come contributo al dibattito interno al Partito Socialista e al movimento operaio più in generale9. Nella successiva formulazione di Tronti, uno dei massimi teorici dell’operaismo, si dirà che alla classe spetta la strategia, al partito la tattica.
Questa formulazione avrebbe dovuto evitare la deriva autoritaria del partito che si sostituisce e si impone alla classe operaia. Di fatto però rompe quell’intreccio che in Lenin è molto forte tra inserimento del partito nella classe operaia (di cui è “parte”) e di sviluppo della coscienza operaia che attraverso l’azione politica organizzata e cosciente diventa protagonista ed egemone di un processo complessivo di cambiamento sociale.
Una volta assunto il primato della classe su partito ne sono derivate tutta una serie di teorie, tra loro contraddittorie ma sorte da un ceppo comune, che hanno predicato a volte strategie di tipo spontaneista o all’estremo opposto hanno puntato tutto sull’autonomia della politica. In altri casi, di fronte al mutamento della composizione sociale del lavoro salariato, con una diminuzione della classe operaia della grande industria, si ipotizza che sia il partito stesso a ricostruire la classe di cui dovrebbe essere strumento (ad esempio le teorie mutualiste, ecc.).
La visione leninista del partito, per quanto poi in parte deformata dopo la sua scomparsa, aveva alcuni vantaggi. Innanzitutto di tenere sempre in stretta connessione il partito all’evoluzione della società e quindi di non inchiodare la classe reale ad una idea immaginaria della classe stessa, e quindi di coglierne le modificazioni e di collegarla all’insieme degli spostamenti delle varie forze sociali, al fine di costruire politiche di alleanza. In secondo luogo di pensare ad un partito sempre capace di iniziativa politica e di immaginazione creativa contro ogni ipotesi di trasformazione in setta ideologica o in strumento autoconsolatorio di una nicchia militante.
In un testo del 1905 Lenin scriveva: “il proletariato delle città, il proletariato industriale formerà immancabilmente il fulcro centrale del nostro partito operaio socialdemocratico; ma dobbiamo attrarre al partito, istruire, organizzare tutti i lavoratori e gli sfruttati (…), tutti senza eccezione: artigiani, poveri, mendicanti, domestici, vagabondi, prostitute, ma ad una condizione indispensabile e obbligatoria, s’intende: che siano loro ad aderire alla socialdemocrazia, e non viceversa; che siano loro ad adottare il punto di vista del proletariato, e non viceversa”.10
La classe che forse non c’è più
Il partito di Lenin supponeva evidentemente l’esistenza di una classe operaia in crescita numerica, concentrata territorialmente e in grandi industrie e in grado di acquisire attraverso la propria capacità di lotta anche una visione politica generale. Di porsi quindi sul terreno del potere e dello Stato. Risulta evidente che siamo oggi in un contesto sociale diverso da quello sul quale operava Lenin e anche gran parte del movimento comunista successivo. Anche se restiamo comunque all’interno di un sistema o formazione sociale capitalistica e quindi non tutta l’esperienza secolare del movimento operaio può essere semplicemente accantonata.
Questi cambiamenti hanno prodotto una serie di interrogativi e di esperienze politiche che hanno cercato via via di ridefinire il complesso delle forze che possono essere protagoniste di un cambiamento sociale radicale e del modo in cui queste si possono aggregare e organizzare.
Per una certa fase vi è stato chi ha pensato che dai partiti bisognasse spostare la centralità verso i movimenti. Fu così ad esempio con l’avvio dei Forum sociali globali che tendevano ad escludere i partiti, ritenendoli poco credibili e fonte più di divisione e di inutili dispute ideologiche che non veri partner della lotta politica e sociale.
Il populismo di sinistra ha probabilmente avuto il merito di riproporre il tema della necessità della rappresentanza politica, anche se in una forma che accentuava l’elemento della narrazione e dell’investimento affettivo sul leader, piuttosto che sulla complicata costruzione di una rete collettiva partecipata. Questo aspetto, pur tentato (pensiamo in particolare all’esperienza di Podemos), presentava una contraddizione tra una strategia orientata ad una rapida espansione del consenso elettorale con i tempi necessariamente più lenti della formazione di un corpo militante sufficientemente omogeneo e radicato nei territori e nella società.
Come abbiamo avuto modo di richiamare in articoli precedenti si sono delineate finora diverse prospettive che individuano, seppure non in modo necessariamente escludente diverse coalizioni sociali di riferimento. A partire dalla “Rainbow coalition” costruita attorno alla candidatura di Jesse Jackson nelle primarie del Partito Democratico statunitense si è poi in una certa misura diffusa l’idea di un partito-arcobaleno, in grado di coagulare movimenti, spesso identitari, senza dover definire una particolare gerarchia tra loro11.
Abbiamo detto del richiamo al popolo come soggetto portatore di un progetto trasformatore. Anche in questo caso non esiste una specifica gerarchia tra le varie componenti né viene privilegiata una identità di classe che al contrario viene respinta come “essenzialista”. Un modo per indicare la volontà di attribuire “dall’esterno” una identificazione con la collocazione nel ciclo produttivo che in realtà gli interessati spesso non condividono affatto, riconoscendosi invece in altre identità. La base comune unificante di questo popolo, in realtà eterogeneo, è individuata nella definizione del nemico, facendo ricorso alla concezione di Carl Schmitt del conflitto amico-nemico come principio base del “politico”12.
Un’altra configurazione è quella che si richiama alle classi lavoratrici ma le connette al principio comunitario unico contesto nel quale sarebbe possibile una reale condivisione di interessi e grazie a questa la riconquista di un compromesso equilibrato tra capitale e lavoro. In questa prospettiva diventa prioritario difendere lo stato nazionale e controllare o ridurre l’immigrazione perché solo in questo modo si può mantenere un contesto comunitario, di riconoscimento reciproco tra colore che ne fanno parte.
Alcune forze politiche della sinistra mantengono, nella loro propaganda e nella loro azione politica, il richiamo prioritario alle “classi lavoratrici” ma senza collegare questo elemento ad una difesa dello Stato nazionale come unico ambito nel quale è possibile ottenere dei risultati positivi o un atteggiamento ostile all’immigrazione. Resta però, mi pare, poco approfondita sia l’analisi della configurazione reale delle classi sia le modalità comunicative e l’azione politica attraverso le quali sia possibile ricostruire una qualche forma di “coscienza di classe”13.
Conclusione
Finora nessuna di queste strategie ha dato risultati tali da prevalere sulle altre. Ognuna di esse ha evidenziato degli elementi utili ma anche delle fragilità. Il partito-arcobaleno corre il rischio di trasformarsi in rappresentante di settori sociali intermedi, orientati ad interessi post-materialisti e assorbibile all’interno del paradigma neoliberale sul piano socio-economico. Il populismo di sinistra ha funzionato come aggregatore di consensi in una fase di mobilità dell’elettorato dovuto ad un acutizzarsi della crisi economica e sociale. Il “populismo comunitarista” deve ancora dimostrare la sua efficacia elettorale (e la chiave sarà la Germania) ma rischia di inseguire i ceti popolari portandosi sul terreno della destra, piuttosto che contrastarla. L’appello più tradizionale alla “classe lavoratrice” si scontra con il processo di frammentazione della condizione lavorativa del mondo salariato che si traduce in un consistente indebolimento dell’identità di classe. La sua forza, almeno in via di principio, è di poter costituire un reale terreno di riunificazione di un potenziale blocco sociale alternativo.
E’ ancora possibile un progetto di trasformazione sociale radicale di cui sia protagonista una forza politica organizzata con un insediamento di massa: quello che qualcuno ha chiamato il “mass workers’ party”? Per rispondere a questo interrogativo, le tematiche e l’esperienza messa in capo da Lenin ci possono ancora fornire elementi utili di riflessione.
Franco Ferrari
- Due riflessioni su Lenin che ritengo di dover segnalare e disponibili in rete sono quella di Michael Brie della Fondazione Rosa Luxemburg, “Seven Reasons Not to Leave Lenin to Our Enemies”, e “Paul Le Blanc on the meaning of Lenin” su Jacobin.[↩]
- Holloway, J., Cambiare il mondo senza prendere il potere. Il significato della rivoluzione oggi, 2004, Intra Moenia, [↩]
- Una ricostruzione delle varie posizioni è contenuta in Brewer, A., Marxist theories of imperialism. A critical survey, 1980, Routledge[↩]
- Liebman, M., Leninism under Lenin, 1975, Merlin Press.[↩]
- Roza, S., La gauche contre les Lumieres?, 2020. Fayard.[↩]
- Kuusinen, O. (ed), Fundamentals of marxism-leninism, 1961, Lawrence & Wishart.[↩]
- Togliatti, P., Problemi del movimento operaio internazionale, 1962, Editori Riuniti.[↩]
- Sulla concezione del partito in Lenin si vedano, oltre al già citato libro di Liebman, Gruppi, L., Lenin e la teoria del partito rivoluzionario della classe operaia, in Storia del marxismo contemporaneo, volume quinto, 1978, Feltrinelli, e Johnstone, M., Uno strumento politico di tipo nuovo: il partito leninista d’avanguardia, in Storia del marxismo, volume terzo, Il marxismo nell’età della Terza Internazionale, tomo I, 1980, Einaudi.[↩]
- Libertini, L. (a cura), La sinistra e il controllo operaio, 1969, Libreria Feltrinelli.[↩]
- Cit. in Demichel, F., La concezione della rivoluzione socialista in Lenin, in Storia del marxismo contemporaneo, volume quinto, 1978, Feltrinelli.[↩]
- Si veda in particolare Collins, S. D., The Rainbow Challenge. The Jackson Campaign and the Future of U.S. Politics, 1986, Monthly Review Press.[↩]
- La letteratura sul populismo di sinistra è ormai molto vasta. Cito solo perché affronta specificamente l’uso del pensiero di Carl Schmitt da parte dei teorici del populismo, in particolare Chantal Mouffe: Booth, J. e Baert, P., The Dark Side of Podemos? Carl Schmitt and Contemporary Progressive Populism, 2019, Routledge.[↩]
- Il tema di una “Sinistra senza classi” è stato esaminato da Marco Damiani in un libro con questo titolo pubblicato nel 2022 da Mondadori Università.[↩]