La “botta” della sentenza di ieri [25/2, ndr] sul “caso Cospito” non è stata leggera; malgrado sperassi il meglio (ma tenessi il peggio), al di là di ogni altra considerazione a questo punto sarebbe il caso di cominciare a ragionare collettivamente su un paio di argomenti, sui quali vedere se e come sia possibile creare una necessaria ed efficace mobilitazione all’interno della cosiddetta “società civile”. Senza nascondersi l’estrema difficoltà che una cosa del genere possa avvenire in un tempo di “similguerra” e di relativo “imbarbarimento vendicativo” di stampo nazionalistico come quello che stiamo attraversando.
Comincio da un fatto acquisito (almeno apparentemente!): in Italia, dopo anni di chiacchiere e dibattiti, la tortura è stata finalmente riconosciuta come reato. Ovviamente a seguito di casi clamorosi tipo Genova 2001, Bolzaneto, Cucchi, Aldovrandi, Uva, e recenti pestaggi all’interno delle patrie galere (questi mi tornano alla memoria, senza dire di quelli di cui nulla è stato provato, e poi quanto la tortura sia stata pratica “diffusa” durante i cosiddetti “anni di piombo”, su cui magari ci torno dopo; però se qualcuno volesse approfondire, con un po’ di pazienza e “stomaco” può leggere e ascoltare quanto riportato qui: https://www.ilpost.it/2022/07/07/de-tormentis-rapimento-dozier/ a dimostrazione di quanto sia facile per lo Stato “sospendere” le formali garanzie costituzionali). Ma certo questa legge non funziona contro forme di tortura “indiretta”, tipo il 41 bis, pratica mirante come l’altra ad annullare e distruggere la persona del detenuto in tutti i suoi aspetti: e che, certamente, in alcuni ambienti politicamente abbastanza noti si consideri questo, e non altro, il “fine” della pena.
Poi c’è la storia dell’ergastolo: se la Costituzione parla della condanna come strumento di recupero del condannato (art. 27), l’ergastolo non ha alcun senso. Quando poi diventa “ostativo”, figuriamoci!…
Si deve anche dire che la pena dell’ergastolo può essere comminata anche in presenza di reati “intenzionali” ma non avvenuti (tipo l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato e simili), il che chiude con ogni possibile argomentazione legale.
La situazione attuale quindi richiederebbe una forte mobilitazione da parte della famosa società “civile”. Il condizionale è obbligato, perché non è possibile chiudere gli occhi su quello che appare come il pensiero dominante al giorno d’oggi. Però a certe condizioni la via d’uscita si deve cercare e, aggiungo, si può trovare.
Se consideriamo il fatto che, con tutte le cautele del caso, qualcuno si sta “emancipando” dalla soffocante retorica guerriera in grande voga da un anno a questa parte, altrettanto possiamo pensare che sia possibile poter ragionare sulla giustizia, senza il timore di essere scambiati per sodali amici di mafiosi e camorristi.
Sto pensando alla storia che ha coinvolto come indagato me personalmente, ai tempi della “strage di Stato”: arrestato il 17 dicembre 1969, ed entrato nel carcere giudiziario di Regina Coeli con poche speranze di venirne fuori, poi in libertà provvisoria dopo un anno per la caduta del reato più grave. Il mio destino (e quello di tutti i miei coimputati del gruppo “22 marzo”) è cambiato quando all’interno della società ha cominciato a farsi strada il dubbio che dietro quella storia ci fossero trame che chiamare oscure è un eufemismo; e se questo è avvenuto, oltre all’attivismo dei compagni e del movimento nel suo insieme ed alla presenza di strutture difensive forti come la Lega dei diritti dell’uomo e (soprattutto) il Soccorso rosso, lo dobbiamo anche ad alcuni giornalisti, certamente intelligenti però pure coraggiosi, che dopo aver espresso seri dubbi sulle accuse formulate da polizia e magistratura, sono andati anche a fondo alle varie questioni, tipo i metodi e gli indirizzi di indagine; non più facile fu quello di chi, sulla carta stampata e in TV, ai tempi degli arresti contro gli accusati di partecipazione a “banda armata”, espresse dubbi e proteste sui metodi usati dagli stessi di cui sopra: e infatti l’uso della tortura fisica e delle imputazioni abnormi (vedi sopra, il reato di insurrezione) oltre che da un movimento di lotta, vennero da giornalisti altettanto decisi a difendere i più elementari diritti delle persone indagate, e da una rivista specifica sul carcere e sui carcerati come Nessuno tocchi Caino.
Se è stato possibile criticare quella polizia e quella magistratura in un periodo drammatico caratterizzato da leggi speciali e carceri differenziate, è anche possibile che ciò potrà essere fatto nei confronti di un sistema poliziesco e giudiziario fortemente caratterizzato dalle scelte politiche del governo Meloni-Salvini-Tajani.
Quindi, per finire e venire finalmente al dunque: è evidente che contro Cospito è stata emessa una condanna a morte “sui generis” (perché non prevista da nessuna legge italiana dal dopoguerra in poi), perciò si dovrebbe chiedere a chi si occupa di giornalismo di prendere una posizione di civiltà. E non solo per Cospito, verso il quale una certa mobilitazione – certo non sufficiente – c’è stata e c’è tuttora, ma anche contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo in toto, a prescindere dal reato di cui gli indagati sono accusati, ed a prescindere dalle valutazioni e decisioni espresse dal Tribunale di sorveglianza di Roma (unico tribunale delegato a decidere, come il più famoso tribunale speciale di triste memoria).
Emilio Bagnoli
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Il tuo articolo è un invito diretto. Sto occupandomi di giustizia ora anche su Transform. Un punto che si lega alla stampa è lo spessore delle mobilitazioni. E’ basilare rimettere il terreno dell’agibilità politica in tutte le direzioni come basilare nelle nostre organizzazioni, perché oggi ciò è più difficile perché si sono indeboliti tutti gli strumenti di collegamento alle classi subalterne, siano i contratti, i sindacati, le leggi sull’assistenza sociale.