In un momento in cui l’economia della decrescita è oggetto di accesi dibattiti all’interno e all’esterno del movimento ambientalista, l’obiettivo di Saito Kohei, spiega in “Il Capitale nell’Antropocene” (Einaudi, Torino 2024), è quello di “superare il divario tra marxismo e decrescita”, riunendo il rosso e il verde in un “comunismo della decrescita”. Molti nel movimento ambientalista sostengono che il capitalismo e la sua “accumulazione infinita su un pianeta finito … sono la causa principale del crollo climatico”, scrive Saito. Ma poiché gli scritti di Marx sull’ecologia sono stati spesso marginalizzati, c’è una visione secondo cui il suo socialismo è pro-tecnologico e anti-ecologico, sostenendo lo sviluppo di tecnologie per gettare le basi per una società post-capitalista e ignorando i limiti della natura, credendo che possa essere dominata dagli esseri umani. Secondo Saito, è possibile e necessario ricostruire Marx in modo da poter vedere come ha analizzato la crisi economica ed ecologica. A Saito va l’indubbio merito d’essere riuscito a portare all’attenzione di un pubblico ampio il tema dell’ecologia in una prospettiva di trasformazione sociale e di aver contribuito alla diffusione di una corrente di pensiero che vuole riscoprire la fecondità delle idee di Marx in relazione a problemi che ci riguardano molto da vicino nell’epoca attuale nel contesto del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici.
Grande è il disordine sotto il cielo. La situazione è dunque eccellente – Mao Zedong
Il mondo affronta una crisi multidimensionale, che abbraccia la crescente distruzione della natura e il degrado del lavoro, un’economia mondiale stagnante dalla crisi finanziaria globale e l’escalation dei conflitti inter-imperialisti. Il sistema capitalista ci sta lanciando verso il collasso sociale mentre la questione del cambiamento climatico, insieme a quelle della perdita della biodiversità e alla marea crescente di sostanze chimiche sintetiche che uccide tutti gli esseri viventi, è diventata centrale dal momento che la stragrande maggioranza degli scienziati sostiene che la vita umana sul pianeta è ormai seriamente a rischio se non ci saranno a breve dei cambiamenti radicali nel rapporto tra uomo, o meglio tra funzionamento del sistema economico, e natura.
Sebbene tra gli attori politici ed economici persistano segmenti negazionisti, quasi tutti sembrano puntare su forme di ecopolitica e di “capitalismo verde”1, a cominciare dalle forze politiche socialdemocratiche, complici per un trentennio del neoliberismo2, che stanno cercando di rilanciarsi attraverso il sostegno di un Green (New) Deal che mira a recuperare il sostegno della classe lavoratrice, collegando la transizione verso le energie rinnovabili con posti di lavoro sindacalizzati stabili e ad alta remunerazione3 e con la riduzione degli impatti cumulativi dell’inquinamento sulle comunità più svantaggiate. Questo anche se l’invasione russa dell’Ucraina e le successive ricadute geopolitiche hanno fatto salire i prezzi del petrolio e del gas e stimolato gli investimenti in nuove trivellazioni in tutto il mondo. A medio termine, la stretta energetica potrebbe generare più slancio per la transizione, ma a breve termine la domanda di combustibili fossili è diventata più robusta che mai.
Gli attivisti delle giovani generazioni – da Fridays for future al Sunrise movement, da Extinction rebellion a Ultima generazione, da Just stop oil a Animal rebellion e Les Soulevements de la Terre, movimenti non violenti di disobbedienza civile che i governi cercano sempre più di reprimere e criminalizzare con accuse di eco-vandalismo ed eco-terrorismo – si fanno interpreti dell’urgenza del cambiamento necessario (“non c’è un pianeta B” e “non c’è un piano B”) e spingono, attraverso mobilitazioni, provocazioni e narrazioni, a combattere il greenwashing e ad intervenire per adottare tutte le misure necessarie per salvare la vita umana, imboccando anche la strada della decrescita attraverso una trasformazione del sistema economico-produttivo e degli stili di vita, per passare dal consumismo ad una sobrietà che possa sostenere la riproduzione sia sociale sia naturale.
Movimenti sociali che si battono per la giustizia ambientale e che stanno fornendo nuovo sostegno anche alle lotte delle comunità indigene del Nord e Sud globale storicamente deumanizzate, razzializzate, schiavizzate, espropriate delle proprie ricchezze naturali (terre, foreste, semi, selvaggina, fonti di energia, materie prime), colonizzate ed poi investite da pratiche neocoloniali, estrattiviste e della finanziarizzazione, che si battono per la difesa dei propri habitat, mezzi di sussistenza, modi di vita e tradizioni minacciati da grandi progetti dell’industria mineraria, il disboscamento a scopo agricolo, le dighe per i bacini idrici e l’estrazione di petrolio, gas, carbone altri minerali. In tutto il mondo, le popolazioni indigene devono lottare per i loro diritti fondamentali anche se i loro modi di vita vengono riconosciuti come ecologici. Incentrati su pratiche di rapporto con la natura non strumentali e distruttive, che sostengono la loro riproduzione sociale ed economia solidale.
Anche le forze politiche conservatrici dei paesi ricchi stanno diventando “verdi”, abbracciando ideologie econazionaliste o ecofasciste centrate sul “suprematismo bianco” e un misto di agrarianismo e tecno-soluzionismo (a la Musk). Propongono di preservare spazi verdi e risorse naturali nazionali, escludendo gli “altri” (coloro che sono razzializzati, i rifugiati climatici, le persone “di colore” e altre minoranze), per cui le classi dirigenti continuerebbero il loro corso attuale e terrebbero spietatamente a bada le loro vittime con muri, droni e centri di detenzione. Non essendo più in grado di affermare che la crisi climatica non sta accadendo, sono passate dalla negazione alla guerra di classe. Sostengono che le politiche e le innovazioni ecologiche, dalle auto elettriche alle pompe di calore, dalle zone a bassa emissione alle ecotasse, in presenza di una crisi del costo della vita, sono tutte insostenibili per classi lavoratrici e molte persone della classe media, ma vengono imposte a prescindere da una élite di politici, burocrati e “capitalisti svegli” (“woke”) ultra-ricchi che ha perso il contatto con le condizioni reali del mondo. Per cui sorgono alleanze politiche conservatrici tra segmenti della classe dei super-ricchi legati agli interessi dell’industria dei combustibili fossili che hanno molto da perdere, in termini di profitti a breve termine, se gli stili di vita devono diventare compatibili con il clima (tra l’altro, notoriamente questi super-ricchi hanno la più grande impronta di carbonio, grazie ai loro frequenti viaggi con jet, elicotteri e mega yacht privati, proprietà multiple di grandi case con aria condizionata e spazi verdi, consumi sfarzosi e stili di vita basati su un’apartheid sociale e ambientale) e segmenti ansiosi e finanziariamente in difficoltà delle classi lavoratrici e medie. Coalizioni che cavalcano un populismo cospirazionista tendenzialmente anti-ambientale e cercano di rallentare o bloccare le riforme necessarie per ridurre le emissioni presentando lo status quo in modo roseo come stabile e sostenibile o come l’opzione meno negativa4.
Allo stesso tempo, movimenti, forze politiche e governi del Sud globale rivendicano un “diritto allo sviluppo”, insistendo sul fatto che l’onere della mitigazione dovrebbe ricadere sui paesi ricchi del Nord che hanno emesso gas serra negli ultimi 250 anni (dall’avvio della rivoluzione industriale capitalista), il cui volume supera ormai la capacità di sequestro del pianeta 5.
Se c’è un apparente accordo sui dati scientifici che evidenziano che il riscaldamento climatico è ormai una minaccia per la vita sulla terra, manca una visione comune delle forze sociali ed economiche che stanno guidando questo processo e dei cambiamenti necessari per arrestarlo. C’è un grande disaccordo sulle politiche ecologiche, sociali, economiche e sanitarie da attuare.
Manca una teoria critica generale capace di cogliere la centralità del sistema che domina le relazioni sociali esistenti e che sia in grado di trasformarsi in “un senso comune ecopolitico che possa orientare un progetto di trasformazione largamente condiviso”6. Un senso comune che deve identificare con precisione ciò che va necessariamente cambiato all’interno della società per arrestare il riscaldamento globale, collegando in modo efficace le conoscenze scientifiche sul clima con una ricostruzione delle cause storico-sociali del cambiamento climatico, offrendo una visione e un progetto di società alternativa, plausibile, desiderabile, oltre che necessaria, capace di mobilitare i soggetti della trasformazione.
Sappiamo che da almeno 250 anni, queste cause possono essere ricondotte al capitalismo come forma di società organizzata per produrre merci trasformando la natura – ai suoi processi, contraddizioni interne, tendenze alla crisi e dinamiche sociali ed economiche trasformative – che ha operato e opera come il motore storico-sociale del cambiamento climatico e della crisi ecologica. Il capitalismo è portatore di una profonda contraddizione ecologica che lo predispone a destabilizzare gli ecosistemi, creando le condizioni per la crisi ambientale7. La società capitalistica è costitutivamente dipendente dalla natura, sia per le risorse (derrate alimentari e altre materie prime e fonti di energia) necessarie alla produzione sia per lo smaltimento dei suoi scarti, ma si basa su una netta distinzione ontologica (così come è stata definita dal dualismo antropocentrico tra “res cogitans” e “res extensa” introdotto da Renè Descartes nel suo Discorso sul metodo del 1637) tra la dimensione economica, vista come campo d’azione della creatività e razionalità umana che è in grado di appropriarsi dei beni naturali e di generare valore (accumulazione del capitale), e la natura interpretata ideologicamente come un regno di cose inerti e degradate prive di valore (non-economiche), infinitamente auto-rigenerantesi (i processi naturali della riproduzione ecologica) e sempre disponibile per essere trasformato attraverso il saccheggio, l’appropriazione e lo sfruttamento a buon mercato, e la produzione di merci.
Un marxista giapponese: Kohei Sato
Il filosofo giapponese Kohei Saito (classe 1987) è diventato una voce importante nei dibattiti sul marxismo e l’ecosocialismo. I suoi libri trattano quattro questioni chiave: la relazione tra capitalismo e natura; tra ecologia e socialismo; gli agenti e i mezzi per raggiungere l’ecosocialismo o meglio il “comunismo della decrescita” e l’evoluzione delle opinioni di Marx su queste questioni. Saito sostiene che per evitare la catastrofe ecologica è necessario abolire il capitalismo, incapace di offrire un’alternativa alla sovrapproduzione e al sovraconsumo. “Cosa state facendo per contrastare il riscaldamento globale? Avete comprato la vostra sporta riutilizzabile per usare meno sacchetti della spesa? Andate in giro con la vostra borraccia personale per non dover comprare bevande in bottiglie di plastica? Adesso ce l’avete, una vettura elettrica? Diciamolo chiaramente. Tutte queste buone intenzioni non portano a niente. Al contrario, possono addirittura recare danno. E la ragione è che nel momento in cui ci si convince di star facendo qualcosa per combattere il riscaldamento globale si smette di pensare di poter agire in maniera più radicale, cioè fare quanto sarebbe realmente necessario. L’atto consumistico, con la sua funzione assolutoria capace di liberarci dal rimorso di coscienza, di farci distogliere lo sguardo da quella che è la crisi reale, ci proietta con estrema facilità nell’ingannevole greenwashing di un ‘capitale’ mascherato da soggetto rispettoso dell’ambiente” (pag. 3).
Il capitalismo, guidato dall’incessante ricerca del profitto privato, è incapace di relazionarsi alla natura in modo responsabile e razionale. Inevitabilmente altera quest’ultima al punto da mettere a repentaglio la sopravvivenza di molte specie, inclusa la nostra. La crisi climatica è l’esempio più urgente di ciò. In tal senso, il Green New Deal, nella misura in cui prevede un capitalismo (keynesiano) verde, è insufficiente. Solo l’abolizione del capitalismo può sperare di affrontare adeguatamente l’emergenza climatica. Affinché la temperatura della terra venga mantenuta entro i limiti richiesti senza fare affidamento sull’energia nucleare o su dubbie tecnologie di cattura del carbonio, il consumo globale di energia deve essere ridotto. Ciò richiederà una riduzione della produzione. L’ecosocialismo deve quindi implicare una qualche misura di decrescita8.
Saito propone una riconcettualizzazione del marxismo per renderlo più ecologico, prendendo in considerazione lo stesso Marx come uno dei primi sostenitori del “comunismo della decrescita”. Ciò implica il rifiuto di alcune idee sostenute da alcune correnti socialiste: la nozione di abbondanza socialista basata su un’espansione incessante delle forze produttive e di una mera adozione per fini socialisti delle tecnologie ereditate dal capitalismo. Il “comunismo della decrescita” cercherebbe di creare piuttosto un’economia di stato stazionario, in grado di garantire il benessere materiale per tutti nel rispetto dei limiti naturali9. Ciò richiederà una trasformazione radicale delle tecnologie esistenti, che sono state progettate avendo come imperativi lo sfruttamento capitalista del lavoro e la spoliazione della natura10.
Saito sostiene che il “comunismo della decrescita” non è un futuro alternativo miserabilista. Afferma che la necessità costante di impegnarsi in un lavoro competitivo e nel consumo non è un segno di buona vita e di fatto limita le opportunità di esperienze appaganti al di fuori del mercato. Senza la necessità di produrre per un consumo eccessivo e non necessario (ciò che è “necessario” per la crescita economica, non lo sviluppo dell’individuo), i lavori potrebbero essere fondamentalmente cambiati. Potremmo trascorrere molte meno ore lavorando, usando le nostre capacità e i nostri talenti per fare ciò che possiamo e condividendo i compiti spiacevoli e noiosi in modo più equo.
Il Marx rosso del materialismo storico e il Marx verde del “comunismo della decrescita”
Nel 2017, Saito aveva pubblicato lo studio “L’Ecosocialismo di Karl Marx” (Castelvecchi, Roma 2023), che ha vinto il prestigioso Isaac Deutscher Memorial Prize l’anno successivo. Si trattava di uno studio dei quaderni di Marx compilati dopo la pubblicazione del “Capitale: Volume I” (1867), che descrive in dettaglio le sue indagini in scienze naturali, chimica e geologia11. Saito ha dimostrato che non costituivano semplici distrazioni al progetto del Capitale, ma una riconsiderazione fondamentale della critica di Marx al capitalismo. Negli ultimi anni della sua vita, Marx dedicò sempre più attenzione alle società non occidentali, alle culture precapitaliste e all’impatto ecologico distruttivo della civiltà capitalista.
Saito sostiene che in quei quaderni, ancorché frammentari, Marx ha abbandonato le sue opinioni orientate alla crescita e tecno-ottimistiche sul comunismo (arrivando a rifiutare un materialismo storico “eurocentrico”, produttivista, tecno-ottimista e anti-ecologico e a riconsiderare radicalmente la sua precedente ipotesi sul carattere progressivo dello sviluppo capitalistico espressa, insieme ad Engels, nel “Manifesto del partito comunista” del 1848), mentre indagava l’insostenibilità ambientale del capitalismo industriale. Se il modo di produzione capitalista porta all’esaurimento delle risorse, all’esaurimento del suolo e alla distruzione irreversibile di biodiversità e ambienti naturali vivibili, allora la rivoluzione comunista non può essere una mera acquisizione dei mezzi di produzione da parte della classe operaia. Il sistema di produzione stesso deve essere riprogettato da zero perché il capitalismo distrugge la “vitalità naturale” richiesta per il progresso umano.
Un ripensamento frutto dell’intenso studio sull’etnografia e sulle scienze naturali che portò Marx ad una rottura epistemica che, seppur fruttuosa, sollevò nuove sfide intellettuali che gli impedirono di completare con successo i Volumi II e III de Il Capitale (pubblicati dopo la sua morte a cura dell’amico Friedrich Engels12 ma passa dall’esegesi accademica di Marx a un confronto teorico con altri filoni di studi marxisti contemporanei (in particolare, contro le correnti che lui etichetta come “ecomoderniste” e dell’accelerazionismo di sinistra13). Saito collega il suo approccio alla “teoria della frattura metabolica” di John Bellamy Foster degli anni 200014 e la difende, tra gli altri, dalle teorie post-umaniste dell’Antropocene (Bruno Latour, Jason Moore), dal costruttivismo sociale marxista (Neil Smith, Noel Castree) e dalle profezie sul “comunismo di lusso completamente automatizzato” (Aaron Bastani, Nick Srnicek, Alex Williams) grazie alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto15. Sebbene queste polemiche eccellano nel loro uso creativo delle complesse ed esoteriche sperimentazioni concettuali di Marx (Saito ha meno successo nel dipingere un quadro onesto e completo delle posizioni degli oppositori sopra menzionati), concentriamoci sulla posizione di Saito.
Il suo uso del termine Antropocene (introdotto dallo scienziato Paul Crutzen) intende riconoscere che “l’intero pianeta è ora completamente trasformato dalle nostre attività economiche”, ma rifiuta che ciò significhi che non dobbiamo distinguere tra natura e società. Se intendiamo le due cose come la stessa cosa, sostiene Saito, rischiamo di credere che i problemi ambientali possano essere superati attraverso un maggiore intervento umano. Dobbiamo essere in sintonia con le differenze per comprendere cosa “non possiamo cambiare” – come l’aumento della temperatura dovuto alla CO2 e le naturali reazioni a catena che ne derivano – e cosa possiamo: più urgentemente “l’industria dei combustibili fossili”, afferma Saito.
La teoria marxiana della frattura metabolica e il “comunismo della decrescita”
Il punto di partenza di Saito sono i volumi I e III del Capitale, dove Marx si preoccupa che il capitalismo industriale e urbanizzato e l’agricoltura su larga scala interrompano l’interazione metabolica (il termine tedesco utilizzato da Marx è “Stoffwechsel” che si riferisce a tutti i processi chimici che avvengono all’interno di un essere vivente per mantenerlo in vita, determinando la crescita e la produzione di energia dal cibo) tra l’uomo e la Terra. Saito sostiene in modo convincente che questi scarsi riferimenti sono sintomi di un cambiamento più ampio nel pensiero di Marx, evidenziato in altri lavori inediti. I quaderni di Marx mostrano che i riferimenti al metabolismo fanno parte di una più ampia critica ecologica del capitalismo.
La natura è, per Marx, non un substrato materiale passivo per l’azione umana, ma un ecosistema dinamico, in cui molteplici specie e sostanze generano ricchi ambienti di vita. L’umanità, tuttavia, è unica in questa rete metabolica della natura nella misura in cui riflette deliberatamente sulle sue interazioni con il suo ambiente e dà riflessivamente forma sociale a questi scambi con la natura. La società umana coordina consapevolmente il processo lavorativo, il momento in cui l’attività umana e la realtà naturale si incontrano, piuttosto che semplicemente lasciata all’istinto. Questo processo di coordinamento richiede costanti aggiustamenti tra il metabolismo sociale delle comunità umane e il metabolismo naturale dei loro ambienti di vita. Le dinamiche dei processi sociali e naturali devono allinearsi per promuovere forme di vita stabili.
Il capitalismo, tuttavia, genera disallineamenti o “fratture metaboliche”. Il ciclo di valorizzazione capitalista sussume sia esseri umani che non umani nella ricerca del profitto, ma ignora gli equilibri metabolici sottostanti della natura. Sia i lavoratori che la natura devono servire allo scopo particolare della massimizzazione del profitto, indipendentemente dal loro stesso prosperare o sussistenza. Tutto ciò che non riesce ad aumentare la produzione di valore economico viene espulso come rifiuto. Il metabolismo sociale del capitalismo si scontra quindi con il metabolismo della natura, con conseguente inquinamento, esaurimento del suolo, cambiamenti climatici, perdite di biodiversità, ecc.. Il capitale sussume la natura sotto una forma sociale che estende l’elasticità della natura oltre i suoi limiti, fino a quando l’elastico inevitabilmente si spezza16. L’espansione capitalista mina così le sue stesse condizioni di possibilità. La versione di Saito della “teoria della frattura metabolica” mostra quindi magistralmente come la natura possa essere un agente dinamico e aperto, e tuttavia mettere ancora a confronto l’umanità con limiti biofisici insormontabili.
Saito amplia questo concetto per descrivere tre distinte fratture. In primo luogo, c’è l’interruzione dei processi ciclici naturali per cui il capitalismo ignora i flussi naturali dell’ambiente, ad esempio introducendo grandi quantità di nuove sostanze chimiche in un sistema naturale che si era sviluppato per millenni senza di esse17. Il capitalismo cerca di interrompere i processi ciclici naturali quando tali processi non si allineano con l’incessante bisogno di profitti e accumulazione del capitale, esigendo la generosità della natura ma facendo contemporaneamente tutto ciò che è in suo potere per esaurirla. La seconda frattura è spaziale tra città (dove la concentrazione abitativa produce il degrado delle condizioni di vita) e campagna (che mettendosi al servizio dei centri urbani conosce un iper-sfruttamento distruttivo), mentre la frattura finale è temporale, come quando il capitalismo richiede una maggiore produzione attraverso le macchine in una scala temporale più rapida di quella a cui sono abituati i sistemi riproduttivi delle risorse naturali.
Il capitalismo non può riparare queste fratture poiché dipende fondamentalmente dai meccanismi che le causano. Invece, guadagna tempo spostando la discontinuità tra altri esseri umani, ecosistemi e geografie, cercando di dirottare altrove le sue contraddizioni e renderle invisibili (mentre, in realtà, si aggravano). Saito, basandosi su Marx, aggiunge altre tre dimensioni di ciò che chiama il “cambiamento metabolico” (metabolic shifts) del capitalismo e delle sue traslazioni. In primo luogo, sviluppa nuove tecnologie per derubare la natura in modo più efficiente (ciò che è essenzialmente il paradosso di Jevons), ossia il tentativo di manipolare i processi biologici attraverso la tecnica; in secondo luogo, produce spostamenti spaziali/geografici spostando gli impatti ecologici sulle popolazioni vulnerabili, creando così una forma di eco-imperialismo (l’allargamento continuo dell’antagonismo tra città e campagna fino all’attuale contrapposizione tra Nord e Sud globale); e, infine, il capitale guadagna tempo prima che emerga una crisi sfruttando l’“elasticità” della natura, testando i limiti della capacità della natura di assorbire shock, sprechi e altre “esternalità” (in sostanza, scaricandole sulle spalle delle future generazioni).
Alla base del Marx metabolico di Saito c’è il desiderio del capitalismo di trascendere la natura, un conflitto irriducibile nelle scale temporali. La natura opera attraverso ecologie complesse e geograficamente specifiche, sviluppando processi nel corso di migliaia di anni; il capitalismo cerca di aumentare la produzione a un ritmo rapido, semplifica diverse ecologie spogliandole della loro ricchezza naturale e distrugge i cicli della natura per allinearli al circuito di accumulazione del capitale. In questo senso, Saito suggerisce che la decrescita ecosocialista rappresenta la regolamentazione razionale dello scambio metabolico tra gli esseri umani e il resto della natura.
Secondo Saito, la critica ecologica del capitalismo e dei limiti alla crescita ha portato Marx a cambiare la sua prospettiva sul comunismo tra il 1867 e la sua morte nel 1883. Negli ultimi anni della sua vita, Marx alla fine divenne “un comunista della decrescita”. Tuttavia, Saito riconosce l’opposizione tra i rami verde e rosso della sinistra18, ed è consapevole della controversia che un termine come “comunismo della decrescita” possa suscitare. Tuttavia, rileva in modo convincente alcuni punti strategici di convergenza: i movimenti ambientalisti si stanno allontanando dal “capitalismo verde” (basato su riduzione, riciclo, riutilizzo) e sembrano sempre più aperti all’attivismo rivoluzionario19, mentre i socialisti hanno ampiamente abbandonato la promessa stakanovista di redenzione proletaria attraverso il lavoro e sono diventati più critici del tecno-soluzionismo prometeico. L’ambientalismo anticapitalista e il socialismo post-lavoro convergono nel “comunismo della decrescita”.
Nei suoi quaderni e nella corrispondenza post-1867, Marx si rivolge allo studio di scienziati naturali ed etnologi che si concentrano su come le comunità rurali non occidentali organizzassero le loro economie attorno alla produzione di valore d’uso collettiva e basata sui “beni comuni” (commons). Queste comunità sostenevano sistemi economici che potrebbero non crescere in modo esponenziale, ma non creavano nemmeno fratture metaboliche con i loro ambienti naturali. Erano di fatto economie stazionarie gestite attraverso la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. In anni precedenti, Marx avrebbe liquidato questi esempi come reliquie isolate di un passato primitivo destinato a essere presto integrato nel capitalismo globale. Questo Marx avrebbe sostenuto che le comunità precapitaliste devono prima assimilarsi al capitalismo e industrializzarsi completamente prima di poter fare il salto verso il comunismo20.
Il Marx successivo, tuttavia, sostiene una comprensione multilineare del materialismo storico. Le leggi generali del capitalismo interagiscono sempre con condizioni locali molto specifiche. Di conseguenza, generano traiettorie variegate di sviluppo storico. La strada verso il socialismo può quindi variare per diverse società. Soprattutto nel caso della Russia, Marx considerava le comunità rurali dei Narodnik nella Russia zarista come siti attivi di resistenza contro il capitalismo21. Lodava l’allineamento dei metabolismi sociali e naturali delle comunità: queste comunità avevano promosso con successo un’interazione sostenibile tra processi economici ed ecologici. Avevano creato un sistema sociale che interagiva con la natura non per massimizzare l’accumulazione di capitale, ma per soddisfare in modo ottimale i bisogni collettivi dei loro membri. Avevano così raggiunto l’abbondanza economica non migliorando tecnologicamente l’apparato produttivo, ma armonizzando i bisogni delle persone e la fecondità della natura attraverso un regime agricolo basato sui beni comuni.
Marx non è un sostenitore romantico del ritorno all’agricoltura di sussistenza, ma riflette su cosa gli occidentali possano imparare da queste comunità agrarie. Sostiene che dovrebbero imitare elementi della forma sociale del processo di produzione di queste comunità per superare le fratture metaboliche capitaliste. Il capitalismo subordina tutto a un rigido processo di valorizzazione che estromette incessantemente la natura esausta e le popolazioni in surplus. L’alternativa si concentra sulla produzione di “valori d’uso” governati in comune senza sottoporre a sforzi eccessivi l’ambiente. Questi esempi indicano un futuro in cui regna lo sviluppo sostenibile, libero e completo del potenziale umano.
Per un’alleanza politico-culturale tra rossi e verdi
“Il Capitale nell’Antropocene” fornisce una riformulazione originale e coinvolgente del pensiero di Marx che non solo dimostra la rilevanza anche degli scritti più oscuri di Marx, ma utilizza anche questi testi per formulare una critica ficcante del capitalismo che unisce preoccupazioni ambientaliste e socialiste. La capacità del libro di articolare un quadro critico comune per entrambi i movimenti è il suo principale risultato. Non è un progetto facile, dati i dibattiti accesi che durano da decenni tra socialisti e attivisti della decrescita.
Ma per accontentare entrambi gli schieramenti, la descrizione finale della politica comunista della decrescita di Saito rimane indeterminata. Il libro si conclude con un elenco programmatico di richieste, come uno spostamento degli investimenti verso settori che promuovono “valori d’uso” anziché valore economico (ad esempio istruzione, assistenza sanitaria, sport o arte), la riduzione della giornata lavorativa, il miglioramento della democrazia sul posto di lavoro e la limitazione delle tecnologie che espropriano i lavoratori del potere di coordinare il proprio lavoro. In particolare, Saito abbraccia la visione delle iniziative cooperative e municipali locali come alternativa al capitalismo e al centralismo statale. Questi suggerimenti politici generali sono abbastanza aperti da accogliere contemporaneamente le richieste rosse e verdi, ma anche non molto specifici. In questa vaghezza programmatica risiede il principale punto debole del libro di Saito22.
“Il Capitale nell’Antropocene” eccelle nel diagnosticare le contraddizioni oggettive della logica del capitale rispetto al metabolismo della natura. La descrizione di come le strutture tendenziali generali del capitalismo si scontrano con le esigenze dei processi metabolici della natura è impressionante nella sua intuizione e presentazione. Tuttavia, questa teoria delle contraddizioni oggettive del capitalismo in astratto non si collega a un’analisi congiunturale concreta delle lotte ecologiche odierne. Abbiamo un’esplorazione generale della logica del capitale e dei suoi limiti, ma non delle dinamiche del potere politico e delle posizioni divergenti del soggetto del momento attuale, né di come queste relazioni di potere possano essere sfruttate per un futuro migliore23.
Come sostiene lo stesso Saito, le leggi generali del capitalismo interagiscono con particolari ambienti locali con effetti variegati. Il “comunismo della decrescita” deve considerare queste variazioni localizzate per articolare efficacemente la sua politica. Mentre, ad esempio, il cognitariato oberato di lavoro del Nord globale potrebbe esultare per una riduzione della giornata lavorativa, i lavoratori informali del Sud globale hanno avuto finora solo un accesso limitato al tempo di lavoro regolamentato dal governo. Mentre le popolazioni indigene potrebbero gioire di un movimento che rispetta le rivendicazioni ancestrali sulla loro terra e l’opposizione all’industrializzazione, la classe lavoratrice e il ceto medio del Nord globale, beneficiari netti (insieme ai capitalisti che controllano le global corporations e prendono le decisioni di investimento) dello sfruttamento ecologico, dell’estrattivismo e dello “scambio ineguale” del Sud globale, percepirebbero principalmente il “comunismo della decrescita” come una limitazione forzata alla sua capacità di guidare auto inquinanti, andare in vacanza all’estero o mangiare carne24. Saito è consapevole di questo squilibrio globale, per cui, come molti sostenitori della decrescita, limita la portata dell’argomento al Nord globale, ai paesi sviluppati come Stati Uniti, Giappone e Germania. È ovviamente a favore della crescita per i paesi poveri nel Sud globale. Ciò che serve per raggiungere questo obiettivo è una nuova idea di “abbondanza” e “progresso”, afferma Saito. Tutti sul pianeta dovrebbero avere accesso alle cose di base di cui abbiamo bisogno per vivere, come elettricità, acqua, istruzione, ma “dobbiamo elaborare una visione in cui la produzione di massa, il consumo di massa e lo spreco di massa possano essere evitati”. Per far funzionare il “comunismo della decrescita” come strategia politica, queste posizioni variabili del soggetto e le loro divergenti richieste sociali devono essere allineate ideologicamente.
Di sicuro, questa prospettiva richiede ancora elaborazione. I libri di Saito pongono alcuni dei problemi irrisolti. Ad esempio, tradurre la decrescita in uno slogan politico attraente o in un invito all’azione non è facile. La decrescita ecosocialista implica l’eliminazione di alcuni settori (produzione di armi, marketing, pubblicità, prodotti industriali di origine animale, fast fashion, plastica monouso, ecc.), la riduzione radicale di altri rami (automobili individuali e jet privati, ad esempio) e la crescita di alcune attività (istruzione, assistenza sanitaria, alloggi adeguati, infrastrutture elettriche rinnovabili e idriche nelle aree o nei paesi più poveri, alimenti di origine vegetale, partecipazione democratica e tempo libero per amici, famiglia e natura). L’economia della cura è un modello per questo “comunismo della decrescita”, come afferma Saito: “Quanto più la società si sposta verso lavori essenziali che producono valore d’uso di base, tanto più è probabile che l’intera economia diventi lenta”. Una combinazione di cura, riposo ed ecologia è il futuro.
Un processo che include la crescita di alcuni settori e persino paesi non può essere adeguatamente descritto come mera decrescita, che, inoltre, la maggior parte delle persone tenderà ad associare all’austerità e alla riduzione degli standard di vita. I termini “giusta decrescita” o “decrescita differenziata” faranno al caso nostro? È una domanda aperta. È probabile che la prospettiva del “comunismo della decrescita” dovrà utilizzare il modello del Green New Deal (senza crescita), che ha il merito di collegare l’obiettivo delle emissioni zero con massicci investimenti nella creazione di posti di lavoro e nella fornitura di bisogni di base. Senza questo, i lavoratori tenderanno ad associare la decrescita all’unica versione di essa con cui hanno familiarità, vale a dire la recessione o depressione capitalista e le sue conseguenze impoverenti. Saito non è certamente un fan dello Stato, ma non lo esclude del tutto come mezzo per condurre una transizione ecosocialista.
Come strategia politica, il “comunismo della decrescita” non può basarsi esclusivamente sulla logica oggettiva del capitale e sulle sue fratture metaboliche per condurre le persone a un futuro migliore. Deve anche lavorare sulle economie libidinali degli oppressi per rendere un’economia non basata sulla crescita e sui beni comuni una visione desiderabile e condivisa di un futuro post-capitalista. Se ci si aspetta che le persone vivano la decrescita come una forma di “abbondanza radicale” piuttosto che di doloroso ascetismo, anche il metabolismo libidico dei loro desideri deve cambiare, il che è un punto non preso in considerazione nell’attuale quadro di Saito. Saito ha quindi mostrato in modo esperto cosa è in gioco nella lotta per un futuro ecologicamente sostenibile, ma il lavoro ideologico di scrivere un “manifesto comunista della decrescita” deve ancora essere completato.
Saito tira fuori una sorta di programma positivo attorno all’idea del “comunismo della decrescita”. Cruciale per questo è l’idea di ricchezza comune, lo sviluppo del lavoro e dell’abbondanza della natura. Al contrario della distruzione della biosfera e dei nostri corpi come lavoratori, il comunismo mira alla negazione di questo – un’unione dei due insieme in una formazione sociale che li sviluppa entrambi in linea con il metabolismo della società e della natura. Saito sostiene che il comunismo è nella posizione migliore per farlo date le seguenti cinque ragioni:
- L’obiettivo della produzione sociale si sposta dal profitto (dal valore di scambio) ai valori d’uso (all’utilità della merce). Invece di produrre un numero assurdo di merci inutili e spesso dannose per il consumo di massa, il comunismo si concentra sulle necessità, per cui “nel nuovo regime la produzione viene inserita in una pianificazione sociale che fa riferimento al valore d’uso” (pp. 241-243);
- Ciò di conseguenza consente una riduzione della giornata lavorativa, eliminando il lavoro non necessario, condividendo il lavoro rimanente tra tutti e migliorando la qualità della vita (pp. 243-247);
- Inoltre, laddove il lavoro deve continuare, la produzione per l’uso mira ad aumentare l’autonomia dei lavoratori e a rendere il contenuto del lavoro più attraente, abolendo la divisione standardizzata del lavoro (pp. 247-249);
- Allo stesso modo, l’abolizione della concorrenza di mercato per i profitti e la democratizzazione del processo produttivo nel “comunismo della decrescita” rallentano anche l’economia (pp. 249-251);
- Infine, il “comunismo della decrescita” è un sistema di partecipazione democratica, in cui vi è la partecipazione attiva dei lavoratori nel decidere cosa, come e quanto produrre, dando importanza alle mansioni essenziali ad alta intensità del lavoro come l’assistenza alle persone e l’insegnamento (lavori della sfera della riproduzione sociale) (pp. 252-253).
Quindi, attraverso la sua lettura del pensiero di Marx, Saito ha trasformato lo spettro della decrescita. Invece di un uomo nero malthusiano, svela una visione a cui molti possono aggrapparsi. Invece del crollo delle condizioni ecologiche e della società, puntiamo a un mondo in cui i bisogni sono soddisfatti, dove i lavori sono ridotti, resi democratici e i limiti ecologici sono rispettati.
Il “comunismo della decrescita” può rappresentare un concetto strategico su cui far convergere rossi e verdi per un’impollinazione incrociata intellettuale e la costruzione di movimenti politici nel contesto dell’attuale crisi ambientale scatenata dal capitalismo. Per formare quello che Saito chiama “un nuovo Fronte Popolare in difesa del pianeta nell’Antropocene”. Saito sfida ogni gruppo a riconsiderare le proprie ipotesi, il proprio scopo e il bersaglio della colpa per la nostra situazione di stallo: “Mentre gli ambientalisti imparano a problematizzare inequivocabilmente l’irrazionalità dell’attuale sistema economico, il marxismo ha ora una possibilità di rinascita se può contribuire ad arricchire dibattiti e movimenti sociali fornendo non solo una critica approfondita del modo di produzione capitalista, ma anche una visione concreta della società post-capitalista. Tuttavia, questa rinascita non ha avuto luogo finora e permangono dubbi persistenti sull’utilità di ricorrere all’eredità marxiana nel XXI secolo”.
Gli studiosi marxisti possono contestare la caratterizzazione di Marx offerta da Saito; alcuni possono accusarlo di greenwashing di Marx. Perché dovremmo preoccuparci se Marx fosse un precoce teorico del “comunismo della decrescita”? I filosofi possono interpretare Marx, ma il punto è cambiare il mondo, come Marx stesso sosteneva. Data la schiacciante quantità di prove della connessione tra crescita capitalistica e danno ecologico, la preponderanza di uno scambio ecologico ineguale tra il Nord e il Sud del mondo, o il modo in cui i guadagni della crescita sono stati catturati dalla classe capitalista, fa differenza se Marx stava o non stava iniziando a formulare l’idea da solo? Anche lo stesso Saito sostiene solo che Marx aveva iniziato a sviluppare idee verso il “comunismo della decrescita”, piuttosto che comprenderlo appieno. Quindi, mentre il generoso e ambizioso sforzo di Saito può contribuire a ravvivare il dibattito nei circoli marxisti – e il suo obiettivo di avvicinare verdi e rossi ha conseguenze politiche dirette -, il suo libro chiarisce come iniziamo la transizione o chi è l’agente rivoluzionario per apportare il necessario cambiamento socio-ecologico richiesto? Oppure il libro è troppo incentrato su Marx e le sue convinzioni, piuttosto che sul terreno politico che affrontiamo oggi?
Saito non è un organizzatore o uno stratega politico, quindi forse è prevedibile che il suo contributo sia inadeguato nel fornire una risposta a questi interrogativi. Ma anche il movimento ecologista ha bisogno di nuove interpretazioni e di esprimere personaggi politici influenti. La crisi ecologica sembra essere la più grande contraddizione del capitalismo e abbiamo bisogno di nuovi modi per comprendere il nostro momento storico e trarre vantaggio dalla crisi, inaugurando un’era di trasformazione ecologica postcapitalista e andando oltre la teoria neoliberista post-Guerra Fredda secondo cui la crescita economica è una marea crescente che solleva tutte le barche, o che lo sviluppo continuo delle forze produttive capitaliste ci libererà verso la rivoluzione socialista. Ciò significherà che i marxisti abbracceranno la decrescita e gli ambientalisti abbracceranno il postcapitalismo. Comunque sia l’era della crescita economica sta volgendo al termine. Possiamo pianificarla sviluppando una civiltà ecologica o lasciare che la classe capitalista ci guidi verso una recessione economica e una distruzione ecologica permanente.
È ragionevole sostenere che una volta realizzata la vocazione storica del capitalismo nell’aumento delle forze produttive, l’ulteriore sviluppo della libertà e dei talenti umani richiede una transizione verso un’altra fase della storia umana. Ma ciò implica riconoscere anche che la consapevolezza ecologica ampliata di Marx forse non richiedeva necessariamente di ripudiare la sua concezione della “vocazione storica del capitalismo nell’aumento delle forze produttive”. Né Marx abbandonò la nozione della classe operaia come forza sociale chiave in grado di rovesciare il capitalismo e dell’azione e del potere politico e statale come leva indispensabile della trasformazione sociale. Non divenne un sostenitore del socialismo locale, cooperativo o municipale. Come fece Marx riguardo alla comune russa, oggi i marxisti dovrebbero riconoscere il potenziale rivoluzionario e anticapitalista delle lotte dei popoli indigeni e la necessità di collegarle alle lotte delle classi lavoratrici, in modo che “possano completarsi a vicenda”. Ma Marx non sostituì queste ultime con le prime e/o con le iniziative cooperative, e nemmeno noi dovremmo farlo. Come integrare l’agenda ecologica nel movimento operaio e come organizzare, mobilitare e ispirare quest’ultimo all’esercizio del potere politico (che, naturalmente, può includere iniziative locali e municipali) rimane il compito fondamentale dei marxisti rivoluzionari nell’Antropocene.
Alessandro Scassellati
- Un “capitalismo verde”, incentrato sul mercato e favorevole al capitale, che utilizza schemi neoliberisti di compensazione per l’emissione di carbonio per recingere terreni, espropriare chi vive dei loro prodotti e acquisire nuove forme di rendita monopolistica. Oppure, che trae grandi profitti dall’espansione del mercato dei prodotti “ecocompatibili”. Le classi dirigenti mainstream privilegiano la visione di una “transizione” (e non di una “conversione”) ecologica, ovvero che sia possibile perseverare nell’attuale modello di sviluppo semplicemente sostituendo alle tecnologie delle fonti fossili quelle delle rinnovabili, mantenendo, anzi rinforzando quel modello di crescita infinita della produzione e del consumo che ci ha condotto all’attuale situazione di insostenibilità che si vuole combattere. Viene così ripetuto un mantra tecno-economico che sostiene che si può continuare a crescere, basta riciclare i rifiuti (o addirittura bruciarli come nei cosiddetti termovalorizzatori), seppellire la CO2 prodotta o ancora puntare su reattori nucleari di IV generazione (che però non esistono e comunque richiederebbero uranio, un materiale in via di esaurimento e difficile da maneggiare ex-post).[↩]
- Il neoliberismo è una filosofia economico-politica che mette insieme due visioni ideologiche, una economica e l’altra politica. La visione economica è che le economie laissez-faire del libero mercato sono il modo migliore per organizzare l’attività economica in quanto generano risultati efficienti che massimizzano il benessere. La visione politica è che gli accordi economici di libero mercato promuovono la libertà individuale. Entrambe le visioni sono problematiche. Le prove dell’esperimento quarantennale iniziato nel 1980 mostrano che il neoliberismo ha minato la prosperità condivisa e scatenato forze illiberali e proto-fasciste che minacciano la libertà. La dottrina del neoliberismo insiste sul fatto che la politica si deve sottomettere al «mercato», il che significa che la democrazia deve sottomettersi al potere del denaro. Qualsiasi ostacolo all’accumulazione di ricchezza – come la proprietà pubblica, il welfare e il servizio sanitario nazionale, le tasse, la regolamentazione, i sindacati e la protesta politica – deve essere smembrato ed abbattuto con qualsiasi mezzo. Non a caso il neoliberismo è associato a politiche economiche pubbliche improntate all’austerità, con tagli alle tasse per ricchi e imprese che producono la contrazione delle entrate pubbliche, creando una pressione irresistibile per i tagli alla spesa pubblica (una tattica nota come «affamare la bestia», perché inesorabilmente produce la crisi fiscale dello Stato). Per circa 40 anni, il neoliberismo è stato incontestabile e ha permesso ai ricchi di diventare sempre più ricchi, gonfiando i valori degli asset finanziari ed immobiliari e il debito delle famiglie normali, bruciando le relazioni umane, le condizioni di lavoro e il mondo vivente.[↩]
- Barack Obama aveva incluso il Green New Deal nel suo programma quando si è candidato alla presidenza nel 2008, pensato come uno stimolo in risposta alla crisi finanziaria, ma poi l’ha abbandonato una volta che era stato eletto presidente. In generale, il Green New Deal è visto come una forma di keynesismo verde. È stata data una forma più radicale, sottolineando una giusta transizione e comunità in prima linea dal Partito dei Verdi degli Stati Uniti e poi adottata in una forma annacquata dai Democratici di sinistra, di cui solo una minima parte è poi entrata nell’Inflation Reduction Act (IRA) fatto approvare dall’amministrazione Biden nel 2022 (circa 370 miliardi di dollari di spesa legata al clima destinati a crediti d’imposta per investitori privati e consumatori della classe media interessati all’acquisto di auto elettriche). Una versione più rivoluzionaria è concepita in termini di People’s Green New Deal come originariamente proposto dal movimento Science for the People.[↩]
- Il think tank conservatore Heritage Foundation ha disegnato un progetto di 920 pagine chiamato Project 2025 per smontare tutti gli sforzi fatti negli Stati Uniti finora per affrontare il cambiamento climatico. Si tratta di uno smantellamento metodico e sistematico della burocrazia federale, chiudendo programmi chiave dell’Agenzia per la protezione ambientale (EPA), tagliando drasticamente le soluzioni per il clima e l’energia pulita, bloccando l’espansione dell’eolico e del solare sulla rete e affidando la supervisione dell’inquinamento all’industria dei combustibili fossili e a funzionari repubblicani scelti con cura[↩]
- Mia Mottley, battagliero Primo Ministro delle Barbados, ha lanciato la Bridgetown Initiative, sostenuta da piccoli stati insulari e altri paesi vulnerabili, che cerca di collegare la riforma finanziaria globale alle esigenze dei paesi vulnerabili dal punto di vista climatico nel Sud del mondo. Mottley ha criticato le nazioni industrializzate per aver deluso il mondo in via di sviluppo sulla crisi climatica. Ha detto che la prosperità – e le elevate emissioni di carbonio – del mondo ricco sono state ottenute a spese dei poveri in passato, e ora i poveri sono costretti a pagare di nuovo, come vittime del crollo climatico che non hanno causato. «Siamo stati quelli il cui sangue, sudore e lacrime hanno finanziato la rivoluzione industriale. Dobbiamo ora affrontare un doppio rischio dovendo pagare il costo di quei gas serra della rivoluzione industriale? Questo è fondamentalmente ingiusto». Mottley ha avvertito che ci sarà un miliardo di rifugiati climatici in tutto il mondo entro la metà del secolo se i governi non riusciranno ad affrontare la crisi climatica. P. Greenfield, F. Harvey, N. Lakhani e D. Carrington, Barbados PM launches blistering attack on rich nations at Cop27 climate talks, «The Guardian», 7 November 2022, https://www.theguardian.com/environment/2022/nov/07/barbados-pm-mia-mottley-launches-blistering-attack-on-rich-nations-at-cop27-climate-talks.[↩]
- N. Fraser, “Capitalismo cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta”, Editori Laterza, Bari-Roma 2023:86[↩]
- Si vedano J. O’Connor, The second contradiction of capitalism, with an addendum of the two contradictions of capitalism, in J. O’Connor, Natural causes. Essays in ecological marxism, The Guilford Press, New York-London 1998:158-177; J. B. Foster, Capitalism and ecology. The nature of the contradiction, Monthly Review, LIV 2002, 4:6-16; P. Burkett, Marx and Nature, Haymarket, Chicago 2014; A. Malm, The progress of this storm. Nature and society in a worming world, Verso, London 2018. Ovviamente, non vogliamo sostenere che le crisi ecologiche si verificano solo nelle società capitalistiche. Molte società precapitalistiche sono scomparse a seguito di crisi ambientali, spesso dovute alle loro stesse attività come la deforestazione o il sovrasfruttamento delle risorse naturali o la mancata rotazione delle colture. Si pensi, ad esempio, al collasso delle civiltà di Teotihuacan nella valle del Messico e di Rapanui nell’isola di Pasqua.[↩]
- Il termine decrescita ha avuto origine dal filosofo francese André Gorz negli anni ’70, che si chiese se raggiungere un certo livello di equilibrio con la Terra avrebbe richiesto una “decrescita” della produzione materiale. Ma data l’esplosione nell’uso di risorse ed energia da quando Gorz ha posto per la prima volta la domanda, la sua osservazione ha da allora guadagnato più attenzione da parte del pubblico, attirando elogiatori e critici allo stesso modo. Con prove contrastanti (o inesistenti) per la crescita verde, che hanno portato a un crescente scetticismo sul fatto che la sostenibilità ecologica possa essere raggiunta attraverso mezzi tecnologici, la decrescita è diventata sempre più attraente come narrazione di transizione per influenti organismi scientifici come l’IPCC e l’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services. Per dirla nel modo più semplice possibile: la decrescita significa un ridimensionamento equo della produzione e del consumo aggregati, mirato in particolar modo ai paesi (ricchi) ad alto consumo e ai ricchi a livello globale, con l’obiettivo di riportare l’economia in equilibrio con la terra e di raggiungere così il benessere per tutte le persone. Ridurre la produzione di energia e materiali è un mezzo per sviluppare un’economia non basata sulla crescita e sul profitto, ma che fornisca uno standard di vita sufficiente per tutte le persone attraverso servizi pubblici universali, maggiore tempo libero e democrazia economica, tra gli altri sforzi.[↩]
- Il capitalismo non si limita a ignorare la scarsità naturale, preoccupandosi poco dei limiti del pianeta, sostiene Saito, ma crea artificialmente una scarsità sociale (creando sempre nuove enclosures, recinzioni, smantellando l’abbondanza del “bene comune” attraverso l’”accumulazione per espropriazione” di cui parlano David Harvey e Nancy Fraser), dove siamo sempre costretti a volere di più: l’ultimo telefono, l’auto o la giacca. Ma possiamo riorganizzare il nostro rapporto con la natura, insiste Saito, per immaginare un nuovo tipo di abbondanza: regolamentando la pubblicità, l’uso dei SUV e i continui cambiamenti dei modelli di telefoni cellulari, “distribuendo sia la ricchezza che gli oneri in modo più equo e giusto tra i membri della società”. Alcuni settori, quelli che non realizzano profitti e quindi sono sottosviluppati nel capitalismo, verrebbero migliorati, il che significherebbe più soldi e risorse per “istruzione, lavoro di cura, arte, sport e trasporti pubblici”.[↩]
- Utilizzando la distinzione di André Gorz tra “tecnologia aperta” e “tecnologia chiusa”, Saito sostiene la prima. Mentre la seconda riguarda “il dominio sulle persone e sulla natura”, dove “la tecnologia è per la disciplina e il monopolio dell’offerta di prodotti e servizi”, la trasformazione degli utenti in schiavi – cita le centrali nucleari come esempio – le tecnologie comunitarie possono essere gestite a livello locale da cooperative. I pannelli solari, ad esempio, sono un modo più democratico di “controllare energia ed elettricità”, afferma. Ciò non equivale a eliminare completamente lo Stato, ma sottolinea che la sua visione non è in stile sovietico (una politica centralizzata di tipo top-down). Non sta sostenendo la proprietà statale di tutto o l’economia pianificata dallo Stato. Dal suo punto di vista, ciò cambierebbe semplicemente troppo poco.[↩]
- Saito è membro del comitato per la nuova edizione delle opere complete di Marx e Engels, la Marx-Engels Gesamtausgabe (MEGA), nella quale sono inclusi anche i quaderni di Marx compilati dopo il 1867.[↩]
- La valutazione di Saito riguardante il contributo di Engels al marxismo ecologico è carente. Saito si rifugia in un certo senso nel vecchio mito di Engels come responsabile di molti dei peccati delle interpretazioni grossolane del marxismo. Cerca di rovesciare lo stereotipo di Engels come il più impegnato dei due con il mondo delle scienze naturali e sostiene con successo che avevano un interesse diverso, ma per molti versi ugualmente sostenuto, per le scienze naturali. Tuttavia, si perde un po’ nella marxologia, estrapolando dalle differenze nella presa di appunti per elevare Marx al di sopra di Engels. Mentre Saito riesce a sostenere che la relazione intellettuale Marx-Engels in materia di scienze naturali è più complicata di quanto solitamente descritto, il suo trattamento di Engels non è convincente.).
“Il Capitale nell’Antropocene” (Einaudi, Torino 2024), un libro che in Giappone ha venduto oltre mezzo milione di copie, prosegue questa linea di indagine((In realtà, l’ultimo libro pubblicato da Saito è “Marx in the Anthropocene. Towards the idea of degrowth communism”, Cambridge University Press, Cambridge UK 2022, che però non è ancora stato pubblicato in italiano.[↩]
- Secondo Saito, entrambe queste correnti condividono la nozione che i problemi posti dalla tecnologia capitalista possono e devono essere risolti da un’ulteriore crescita. Quindi l’espansione della produzione e del consumo può continuare attraverso l’ulteriore trasformazione della natura in base alle esigenze umane. Questo, sostiene Saito, è un’indicazione della riluttanza di alcuni socialisti a staccarsi dagli imperativi di crescita del capitalismo. Non volendo rompere con quest’ultimo, tali correnti devono abbracciare tecnologie pericolose, come l’energia nucleare, la cattura del carbonio o la geoingegneria.[↩]
- Seguendo i contributi di John Bellamy Foster, Paul Burkett e altri, come Rosa Luxemburg, György Lukács e István Mészáros, Saito esplora l’assimilazione da parte di Marx, a partire dal 1865 circa, degli studi di Justus von Liebig sull’agricoltura capitalista. Liebig ha spiegato come l’agricoltura capitalista e la polarizzazione tra città e campagna estraessero i nutrienti dal suolo senza restituirli, minando così la sua fertilità. Marx incluse queste intuizioni nel primo volume del Capitale, pubblicato nel 1867. Sottolineò quindi che “La produzione capitalistica… disturba l’interazione metabolica tra l’uomo e la terra, vale a dire impedisce il ritorno al suolo dei suoi elementi costitutivi consumati dall’uomo…; quindi ostacola il funzionamento dell’eterna condizione naturale per la fertilità duratura del suolo”. E aggiunse che la produzione capitalistica mina inevitabilmente “le fonti originali di ogni ricchezza: il suolo e il lavoratore”. Ma questo fu solo l’inizio delle esplorazioni ecologiche di Marx. Saito sottolinea l’importanza del lavoro di Carl Nikolaus Fraas nell’evoluzione di Marx. Fraas, i cui scritti Marx iniziò a studiare nel 1868, spiegò come l’uso non sostenibile del suolo portò alla deforestazione che a sua volta portò a cambiamenti climatici e alla fine portò alla perdita di fertilità e alla desertificazione in regioni come Persia, Mesopotamia o Egitto. Questo fu il processo alla base del declino di civiltà un tempo fiorenti in passato.[↩]
- Saito è scettico nei confronti dell’utopismo tecnologico. “Sperando che ci saranno nuove tecnologie, aspettiamo semplicemente che vengano inventate, ma il risultato sarà che non lo saranno mai e saremo tutti morti”, afferma Saito. Questa non è solo una critica alle tanto decantate soluzioni tecnologiche all’interno del capitalismo, come la cattura e lo stoccaggio del carbonio, ma all’idea che possiamo trasferire le tecnologie capitaliste a un’utopia comunista automatizzata, in cui robot di proprietà collettiva svolgono la stragrande maggioranza del lavoro e non c’è più scarsità di risorse grazie all’energia verde e a cose come la produzione di carne in laboratorio e l’estrazione da asteroidi. Saito accoglie con favore questi tentativi di immaginare un mondo post-capitalista, ma li vede come in ultima analisi fuorvianti (“una fuga dalla realtà” che “non sono altro che una versione alternativa del capitalismo della Silicon Valley”). “Questo tipo di futuro abbondante fa appello alla soddisfazione dei desideri immediati delle persone senza sfidare l’attuale modo di vivere imperiale nel nord globale”, osserva. “Una tale visione accetta troppo acriticamente gli standard di valore esistenti e gli ideali consumistici”.[↩]
- Saito ricorda che il gruppo di ricerca di Johan Rockström, direttore del Potsdam Institute for Climate Impact Research, sostiene che il tempo per la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta sta venendo meno. Ci stiamo avvicinando rapidamente (in alcuni casi li abbiamo già superati) ai “punti di criticità” in nove campi (planetary boundaries): il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, il ciclo dell’azoto e del fosforo, i cambiamenti nello sfruttamento dei terreni, l’inacidimento dei mari, l’aumento del consumo di acqua potabile, la distruzione dello strato di ozono, i danni all’aerosol atmosferico, l’inquinamento da parte di sostanze chimiche come le microplastiche.[↩]
- Prima utilizzando il guano sudamericano scavato da decine di migliaia di coolie cinesi, poi all’inizio del XX secolo con i fertilizzanti prodotti in gran quantità e a prezzi stracciati grazie all’invenzione del processo Haber-Bosch e alla sintesi industriale dell’ammoniaca. In tal modo, però, la frattura ambientale non è stata ricomposta, ma semplicemente orientata altrove, anche perché ora l’agricoltura intensiva produce una gran quantità di anidride carbonica nel corso del suo ciclo di produzione, oltre a disperdere nell’ambiente composti azotati che a loro volta sono alla base dell’inquinamento di acido nitrico delle falde acquifere e del fenomeno delle maree rosse.[↩]
- Come nota Paolo Cacciari, le relazioni tra rossi e verdi non sono mai state idilliche. Nonostante vari tentativi di giustapposizione delle istanze sociali ed ecologiche in chiave di alleanze contingenti o elettorali fino ad ora è prevalsa l’opinione che vi sia una inconciliabilità persino ontologica tra due corpi teorici e due modalità operative pratiche che rimangono insuperabili. È noto che le formazioni green preferiscono collocarsi oltre l’assiologia destra/sinistra, mentre per la cultura politica che trova le sue radici nei movimenti operai, socialisti e comunisti le discriminanti con i partiti conservatori fanno parte della propria identità. Gli uni e gli altri si accusano reciprocamente. I marxisti visti dagli ambientalisti sarebbero prigionieri del paradigma economicista, produttivista, utilitaristico, prometeico secondo cui lo sviluppo delle forze produttive costituirebbe una sorta di precondizione per liberare l’umanità dal “regno delle necessità” e poter aspirare al “regno delle libertà”. Per contro, negli ambientalisti prevarrebbe una dimensione ideale, romantica, spiritualista perdendo di vista le asimmetrie di potere storicamente determinate tra le classi sociali, i luoghi, le etnie, i generi. Secondo Cacciari, tali divaricazioni sono un vero peccato per le fortune di entrambi, poiché al fondo gli autentici rossi e verdi aspirano ambedue ad una trasformazione profonda della società esistente. Tutti e due vedono nelle disuguaglianze sociali e nella devastazione degli ecosistemi il portato di una logica e di un modello di sviluppo insostenibile e intollerabile. Sostenibilità ecologica e uguaglianza sostanziale sono due facce della stessa medaglia. Un socialismo che non realizzi un equilibrio armonico tra attività antropiche e cicli naturali non porterebbe affatto a una società più felice, così come un ambientalismo senza giustizia sociale – per parafrasare una citazione abusata di Chico Mendez – sarebbe solo “giardinaggio”. Così, fino ad oggi, gli uni e gli altri hanno continuato ad usare pratiche politiche che si sono sovrapposte su piani diversi, con poca capacità di incidenza. La lotta sul terreno economico e dei diritti, da una parte, la presa di coscienza culturale individuale e stili di vita solidali e sobri, dall’altra.[↩]
- Saito è consapevole delle difficoltà, ma indica la Gen Z, Just Stop Oil, Extinction Rebellion, Via Campesina e le proteste per il clima in tutto il mondo (ma anche i gilet gialli francesi) e Alberto Garzón (leader di Izquierda Unida), il ministro spagnolo per gli affari dei consumatori, che ha recentemente scritto un libro sui limiti della crescita. Questo è un grande cambiamento rispetto agli ultimi 30 anni, quando tali movimenti sono stati marginalizzati. Saito spera che gli anni 2020 e 2030 diventeranno molto più turbolenti man mano che la crisi si aggrava, e spera che la quantità di proteste radicali crescerà e che i cambiamenti nei nostri valori continueranno ad accelerare. Quello che Saito sta cercando di fare è ispirato da questi movimenti, offrire loro qualcosa. Ha cercato di mostrare perché è necessario criticare il capitalismo e perché il socialismo o il comunismo possono essere una base più solida anche per i loro movimenti.[↩]
- L’argomentazione di Saito si basa su una falsa dicotomia tra un Marx maturo “prometeico”, che avrebbe abbracciato acriticamente il progresso capitalista, e un Marx tardo che rifiutò completamente la nozione di storia come progresso. Ma Marx considerò sempre le società di classe e il capitalismo come formazioni contraddittorie, simultaneamente progressiste e regressive, e nel caso del capitalismo, come una forma antagonista di progresso, ma comunque progresso. Anche nel suo momento più celebrativo dei successi del capitalismo, Marx indicò il terribile costo del progresso capitalista. Ciò includeva i suoi articoli sull’imperialismo britannico in India e Cina, che sono spesso presentati come semplici scuse per il progresso capitalista. Pur indicando ciò che considerava i suoi aspetti progressisti, sottolineò anche che questo era ancora un progresso che assomigliava all'”orribile idolo pagano che non avrebbe bevuto il nettare se non dai teschi degli uccisi.”[↩]
- In una famosa risposta del 1881 a un’indagine della populista Vera Zasulich e nella “Prefazione” all’edizione russa del Manifesto comunista del 1882, Marx ammise che la comune contadina poteva essere la base per una transizione al socialismo. Secondo Saito, la “Prefazione” del 1882 sosteneva che le comuni precapitaliste sarebbero state in grado di raggiungere uno sviluppo comunista prima dell’Europa occidentale. Per Saito, questa conclusione era il risultato non solo degli studi di Marx sulla comune russa, ma anche delle sue esplorazioni ecologiche, ispirate da Liebig e da Fraas (ma anche, tra gli altri, dall’agronomo scozzese James Anderson, dal chimico e geologo scozzese James F. W. Johnston, da John Morton, dall’economista politico e consigliere statunitense Henry C. Carey, dallo storico scozzese Archibald Alison che rispose a Malthus sul problema della popolazione, dal francese Léonce de Lavergne professore di economia rurale, dall’agronomo tedesco esperto di allevamento Hermann Settegast, dall’agronomo tedesco Wilhelm Hamm, dal filosofo tedesco Eugen Dühring e dall’economista tedesco Wilhelm Roscher). Fraas sottolineò che alcune società, caratterizzate da strutture comunitarie ed egualitarie, si erano impegnate in relazioni non distruttive con l’ambiente. Fraas ha discusso il lavoro di Georg Ludwig von Maurer sulle società tribali tedesche basate su pratiche comunitarie. Probabilmente spinto da Fraas, Marx ha ripreso lo studio di Maurer a cui ha attribuito una tendenza inconsapevolmente socialista. Così, al momento dell’indagine di Zasulich, Marx era pronto ad abbracciare la comune contadina precapitalista come prefigurazione e modello per un comunismo a stato stazionario, decrescita o non crescita.[↩]
- È difficile vedere come il socialismo cooperativo e municipale di Saito possa paralizzare il processo di accumulazione capitalista, né è chiaro come tali iniziative locali possano fornire un’alternativa coerente se le relazioni tra loro sono strutturate attraverso il mercato, in altre parole, prive di una qualche forma di pianificazione centralizzata. L’ecosocialismo richiede molto di più delle iniziative cooperative o municipali: richiede una pianificazione democraticamente centralizzata e l’autogestione del posto di lavoro. Anche se un’accumulazione di iniziative locali fosse in grado di minacciare il potere capitalista, è ingenuo pensare che il capitale e gli Stati capitalisti centrali non agirebbero per bloccare e smantellare tale minaccia. Non è possibile abolire il capitalismo sfuggendo all’attenzione di coloro che ne traggono profitto. Pertanto, la lotta ecosocialista richiede l’elaborazione di un programma che colleghi l’agenda ecologica e altre rivendicazioni della classe operaia con l’obiettivo finale di sostituire lo Stato e l’economia capitalista con una democrazia socialista e un’economia socializzata.[↩]
- In relazione agli scenari politici connessi all’Antropocene, Saito esplora quattro possibili scelte: 1. Fascismo climatico, in cui lo Stato farà di tutto per proteggere gli interessi delle classi privilegiate, soffocando severamente le minacce all’ordine rappresentata dalle vittime e dai profughi ambientali; 2. Stato selvaggio, con un mondo nel caos e una guerra di tutti contro tutti al solo scopo di sopravvivere; 3. Maoismo climatico, con un regime che adotta degli interventi contro il cambiamento climatico con la rinuncia al libero mercato e alla democrazia; 4. “Comunismo della decrescita”, con un’economia capace di mettere al primo posto il rapporto tra uomo e natura e con una società del futuro non-capitalista, equa e sostenibile, salvaguardando libertà, uguaglianza e democrazia. Una società in cui l’acqua e l’elettricità, l’abitazione, le cure mediche e l’educazione siano considerate “come beni pubblici, che siamo chiamati a gestire in maniera democratica” (pag. 115).[↩]
- Saito adotta la formulazione di “modello di vita imperiale” utilizzata dai sociologi tedeschi Ulrich Brand e Markus Wissen per definire lo stile di vita dei paesi sviluppati, basato sull’appropriazione delle risorse e delle energie del Sud globale, nonché di molto superiore ai planetary boundaries. Saito non sviluppa un’analisi delle classi sociali nei paesi sviluppati, per cui non parla della disuguaglianza sociale e di quanta parte della popolazione del nord globale sia di fatto esclusa dal “modello di vita imperiale” (il 99% o il 90%), dati i salari stagnanti, il deterioramento delle condizioni di lavoro, l’uso delle banche alimentari e l’aumento dei senzatetto nel Nord del mondo tra la popolazione attiva.[↩]
2 Commenti. Nuovo commento
Ottimo, complimenti. Ricordo un libretto di Transform! di qualche anno fa esattamente su questi temi.
Paolo Cacciari
Grazie per la pubblicazione: testo fondamentale. Pietra miliare che ogni compagno consapevole dovrebbe leggere, valutare e discutere.