Questo articolo contiene le osservazioni di CILAP-EAPN sul disegno di legge n. 685 (Conversione in legge del decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48 recante misure urgenti per l’inclusione sociale e l’accesso al mondo del lavoro). È stato scritto da Luigi Colombini, Alessandro Scassellati e Nicoletta Teodosi ed è diviso in due parti: la prima è dedicata ad un’analisi critica delle misure previste in materia di lotta alla povertà (articoli 1-13), la seconda è dedicata alle misure per il lavoro (articoli 14-45).
Le misure di lotta e contrasto alla povertà
Il lungo percorso di lotta e di contrasto alla povertà, allo stato attuale, è stato ridefinito dal decreto legge oggetto della odierna audizione.
Una analisi comparata del decreto legge con la legge sul R.d.C. ci porta a considerare che in sostanza in molti articoli si sono ridefinite e riconsiderate alcune disposizioni, accentuando comunque una impostazione più di carattere difensivo che promozionale, sottolineando misure di controllo e di punizione atte a intimidire ed ammonire le persone che chiedono di accedere ai benefici.
Il decreto legge, per come è stato impostato ed articolato, ignora il rispetto della dignità della persona, pur previsto nella Costituzione.
Vengono prefigurate le linee di una società in cui vivono gli “in” che sostanziano la presenza parallela di un popolo in agio di vita, e gli “out”, il popolo povero, che viene colpevolizzato nella sua propria condizione di sofferenza sociale, e una profonda divaricazione fra chi “ha”, e chi “non ha” determinandosi, nel corso degli anni, anche in relazione all’epidemia Covid 19, una accresciuta differenziazione fra i ricchi ed i poveri, indicati in effetti quali perdenti ed esclusi.
La concessione dell’assegno di inclusione sociale si configura quale arretramento dello stato di diritto, ed ignora qualsiasi riferimento al principio di solidarietà e di fratellanza, che dovrebbe caratterizzare la società italiana che ha come riferimento fondamentale la Costituzione.
La precarietà della concessione dell’assegno è significativa del modo con cui gli stessi beneficiari rimangono nell’attesa kafkiana di cosa succederà dopo i primi diciotto mesi di erogazione dell’assegno, rinnovabile, dopo la pausa di un mese, per altri dodici.
Nemmeno al tempo degli enti comunali di assistenza erano previsti tali limiti.
Il percorso amministrativo posto in essere individua un approccio asettico attraverso l’INPS, o i patronati, con la digitalizzazione del sistema di accoglimento delle domande.
In tale contesto il ruolo del servizio sociale comunale (che è comunque un Livello Essenziale delle Prestazioni, assieme al Segretariato sociale) viene indicato quale secondo livello, di fronte alla domanda di chi richiede aiuto, prevedendo, solo ove necessario, il ricorso all’UVM, dove peraltro viene indicato, quale componente fondamentale l’operatore sociale e non già l’Assistente Sociale, lasciando intendere equivoche interpretazioni.
A tale riguardo, in termini propositivi, si ritiene che occorre rivalutare tutto il quadro scientifico della prestazione professionale propria del Servizio Sociale Professionale, di cui è titolare e competente l’Assistente Sociale, prevedendo la predisposizione della “cartella sociale” (coperta dalla privacy e dal segreto professionale) in cui viene redatta la diagnosi sociale, la certificazione dello stato di disagio e di povertà, la definizione dell’azione di accoglimento e di orientamento, di favorire la capacitazione e l’empowerment delle persone, secondo le più accreditate linee di intervento sociale volto a far uscire la persona dalla propria condizione di povertà, che non può essere risolta solamente con l’offerta del lavoro, ma orientata verso la piena capacità di saper individuare le opportunità presenti nel contesto comunitario in tutti gli ambiti in cui si esprime la vita sociale (istruzione, formazione, abitazione, cultura, assistenza, ambiente ecc.).
Si ritiene che è del pari necessario determinare le correlazioni con il Piano Nazionale di lotta alla povertà 2001-2023, e il Piano Nazionale 2021-2027.
In tale contesto si richiama la sottolineatura che il Servizio Sociale Professionale è considerato nel Piano per gli interventi e i servizi sociali di contrasto alla povertà, e di riparto del Fondo per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale relativo al triennio 2021-2023, il “perno centrale” per lo svolgimento di adeguate azioni di contrasto alla povertà. Inoltre, le Regioni hanno approvato i propri Piani regionali di lotta alla povertà impegnando a tale riguardo sia i fondi statali che i fondi non statali, nonché, in base a ulteriori specifici programmi i Fondi europei.
Le Regioni stesse, nel quadro delle proprie strategie per affrontare alla luce dei propri Statuti e della Costituzione la promozione di interventi volti a superare le condizioni di sofferenza e di disagio sociale delle cittadine e dei cittadini, delle famiglie, dei minori, hanno istituito vari redditi e provvedimenti di accompagnamento mirati: reddito di cittadinanza (Campania); di inserimento (Basilicata); minimo garantito (Lazio); di sostegno al reddito (Abruzzo), di solidarietà (Emilia Romagna), di base e di inclusione (Friuli V.G., Sardegna, Valle d’Aosta), di dignità (Puglia) reddito di inclusione attiva (RIA) – Sostegno all’abitare (S.o.A.), Povertà educativa (P.E.) (Veneto).
Così come nella presente stagione il Reddito di Cittadinanza, per vari aspetti, ha rappresentato, per le forze politiche che l’hanno sostenuto, la chiave di volta per assumere il governo del paese, e per converso, per le forze politiche che ne hanno prospettato la soppressione, il modo per assumere a loro volta il governo del paese, vorremmo che la conversione del presente DL non sia una ulteriore bandiera per le forze di maggioranza, al cui cambio anziché prestare attenzione all’andamento e alla valutazione tecnica della norma, che peraltro è stata avviata dall’ANPAL e che rappresenta la base di partenza per l’ulteriore completamento di un adeguato ed approfondito studio sulla povertà, secondo i canoni scientifici del premio Nobel per l’economia 2019 Ester Duflo, fino alla costituzione di una Commissione parlamentare sulla povertà, prediligono frettolosamente la sua abrogazione in base ad un presunto mandato elettorale, illegittimo sul piano costituzionale, ed artatamente provocato, proprio a scapito delle persone in povertà che vengono colpevolizzate e punite nella loro condizione di sofferenza personale, familiare e sociale, e che nulla hanno a che fare, ma molto da subire, da chi è costituzionalmente deputato alla loro tutela, secondo l’articolo 38 della Costituzione.
Si richiede pertanto di specificare il ruolo del Servizio Sociale Professionale e del Segretariato sociale con maggiore pregnanza nel testo di legge, e sottolineare il ruolo fondamentale del Comune singolo o associato negli Ambiti Territoriali Sociali – ATS), come previsto dall’ art. 8 della legge 328/2000, riprendendo quanto già indicato nel d. lgs n 147/2017 e nel Piano nazionale di lotta alla povertà, e collegando all’interno della Cabina di regia per la definizione del LEP anche il Livello essenziale dell’ assegno di inclusione quale prestazione continuativa, e non temporanea, come previsto, ad esempio dalla RSA in Francia e dall’Universal credit in Inghilterra e da quanto disposto in Finlandia.
Studi scientifici dimostrano che la sicurezza di un piccolo reddito, che conferisce serenità e modo per sopravvivere, accompagnata da una politica di opportunità e sviluppo della persona, determina la fuoriuscita dalla povertà e dalla sofferenza, mentre la precarietà e l’insicurezza di una concessione di aiuto e sostegno temporaneo fanno sprofondare le persone in una acuta depressione sociale.
Si sottolinea che l’Italia, terza potenza economica europea ed ottava mondiale, non può permettersi sul piano umano, economico e politico, di giustizia sociale, di promuovere la povertà, invece che combatterla seriamente.
Essendo la povertà una “questione nazionale” che vede da oltre settanta anni impegni collettivi, che iniziarono con la Commissione parlamentare sulla miseria del 1952, si ritiene che sia necessaria la costituzione, come già disposto per la lotta alla mafia, di una Commissione parlamentare sulla povertà, che avvalendosi di studi scientificamente attendibili (in base già a quanto indicato dal Premio Nobel 2019 Ester Duflo) possa finalmente indicare la rotta migliore in termini di politiche pubbliche per far superare ai poveri la loro condizione di sofferenza e di deprivazione.
Non si può non ricordare che nelle religioni cristiana e musulmana è indicata la “decima” quale tassa che i ricchi devono dare a favore dei poveri, mentre allo stato attuale la ricchezza dei poveri va sempre più assottigliandosi a favore dei ricchi. Questi ultimi, specialmente dopo il Covid 19 e la crisi energetica, sono diventati super ricchi a livello planetario a fronte di una crescente ed inarrestabile estesa miseria e povertà.
Le misure per il lavoro
Una valutazione complessiva degli articoli del decreto legge dedicati al lavoro alimentano i timori, di chi come noi si batte per il contrasto alla povertà, in quanto questi sembrano essere orientati unicamente nella direzione di rafforzare la precarietà del lavoro, aumentando ulteriormente la “flessibilizzazione della disciplina” dei contratti a termine e, quindi, ad essere forieri di una ulteriore crescita dei working poor, ossia delle persone che pur avendo un qualche tipo di lavoro si ritrovano in una condizione di povertà assoluta o relativa.
In Italia le persone che vivono in condizioni di povertà assoluta sono almeno sei milioni, con uno stretto legame con il numero di figli. I dati riferiti al 2019, peggiorati poi con la pandemia, mostrano come la povertà assoluta sia oltre il triplo per chi ha tre bambini rispetto a chi si ferma a uno. C’è poi oltre un milione di lavoratori con un salario orario di 8,41 euro l’ora e quasi quattro milioni che percepiscono 12 mila euro l’anno. In sostanza, circa dieci milioni di italiani sono privati della possibilità di un reale consumo. Bisogna poi considerare che ci sono oltre 14 milioni di over 65, nella stragrande maggioranza dei casi in possesso di una pensione attorno ai mille euro mensili. Infine, sette milioni di giovani di età compresa fra 18 e 34 anni vivono in casa con i genitori. Sono circa 18 milioni i cittadini che rischiano l’esclusione sociale, il 28,7% del totale, più di uno su quattro – uno su due nel Mezzogiorno, dove vivono 20 milioni di persone -, perché non in grado di affrontare imprevisti, in ritardo con mutuo, affitto e bollette, incapaci di fare un pasto adeguato ogni due giorni o di garantire alla famiglia una settimana di vacanza all’anno. Questo in un Paese dove le famiglie incapienti o a basso reddito subiscono le conseguenze di tagli pubblici come il mancato rifinanziamento del Fondo di sostegno alle locazioni (che nel 2021 e 2022 aveva avuto una dotazione annua di oltre 300 milioni) e del Fondo per morosità incolpevole.
Anche in presenza di una progressiva trasformazione di molti contratti a tempo determinato in tempo indeterminato, come emerge da recenti confortanti statistiche, non suffragano i dubbi in merito alla natura precarizzante di questo Decreto Lavoro. È certamente vero che la forza-lavoro occupata nel tessuto produttivo italiano, esclusi gli imprenditori e gli autonomi, è costituita dai 18,3 milioni circa di persone che svolgono una attività dipendente retribuita, dei quali 15,3 milioni stabili e 3 milioni a termine (circa il 16,4% del totale, in linea con la media UE), ma riteniamo che vi sia oggi una totale mancanza di riflessione sulla natura precaria di tanti contratti a tempo indeterminato, che sono precari non nel senso di un’intermittenza temporale, ma per la tenuità del salario/stipendio (ad esempio, sotto i 7 euro lordi l’ora) che non consente un’esistenza dignitosa, non consente a tanti lavoratori e alle loro famiglie di arrivare a fine mese. La questione salariale, infatti, è diventata negli ultimi 30 anni (a partire dall’accordo del 23 luglio 1993, noto come “Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo” o anche come Protocollo Ciampi-Giugni) una vera e propri emergenza sociale e politica nel nostro paese. L’Italia è l’unico paese europeo dove l’andamento dei salari è stato negativo tenendo conto del potere di acquisto. L’ondata inflazionistica dell’ultimo anno e mezzo ha ulteriormente tagliato i redditi reali dei lavoratori italiani.
Forse governo e forze politiche e sociali dovrebbero domandarsi se non sia proprio il ricorso a salari da fame e contratti precari una delle cause principali della sostanziale stagnazione dell’economia italiana e della perdita di competitività del sistema produttivo italiano: compete sulla svalutazione del lavoro e del suo costo, piuttosto che sulla base delle innovazioni organizzative, tecnologiche di processo e di prodotto. La questione dei bassi salari è un fattore devastante della regressione sociale complessiva alle quali le politiche antipopolari in nome dell’austerity e della primazia delle imprese – a scapito del lavoro – hanno precipitato il paese negli ultimi trenta anni. Ha creato anche un circolo vizioso socio-demografico: se in una famiglia ci sono figli o anziani da accudire, in assenza di servizi di welfare adeguati, le donne restano bloccate a casa, ossia non possono lavorare e guadagnare un secondo reddito familiare, ma una famiglia monoreddito fa grande fatica a far quadrare i conti e spesso finisce nella condizione dei lavoratori poveri o poveri al lavoro, per cui di figli se ne fanno pochi (nessuno, uno o al massimo due) e il paese viene investito dalla denatalità e dal declino demografico.
Inoltre, riteniamo che il taglio del cuneo fiscale per il lavoro dipendente pari a 4 punti percentuali per la seconda metà del 2023, con un costo totale di 4 miliardi di euro, realizzato in nome di un abbattimento delle tasse tanto invocato dalle associazioni datoriali e anche in funzione di un’attrazione degli investimenti stranieri nel paese, sia destinato a creare presto ripercussioni negative sul welfare, ossia sullo strumento cardine per combattere la povertà. In ogni caso, è bene ricordare che in Italia mentre il lavoro dipendente è tassato al 40%, la rendita immobiliare al 21%, quella finanziaria al 20%, il reddito dei lavoratori autonomi al 15%.
Allo stesso tempo, si aumenta da 10mila a 15mila € la soglia del compenso annuo per il singolo lavoratore assunto per prestazione occasionale per gli «utilizzatori che operano nei settori dei congressi, delle fiere, degli eventi, degli stabilimenti termali e dei parchi di divertimento». In pratica, si amplia del 50% la possibilità di utilizzare il lavoratore in questa tipologia contrattuale. Parliamo di realtà che potrebbero ricorrere a tempi determinati per attività stagionali o nel peggiore dei casi al vecchio interinale.
Dopo anni spesi per dimostrare come il voucher sia strumento di precarietà parrebbe superfluo ripeterci, ma è ormai evidente che per il governo sia divenuta ben accetta qualsivoglia tipologia contrattuale anche quando va a sostituire contratti a tempo determinato. Il ricorso al voucher è solo la tappa finale, ma forse neanche quella definitiva, di un lungo percorso che ha portato prima a rafforzare il tempo determinato a discapito dei quello a tempo indeterminato, il part time (nella maggioranza dei casi involontario, ossia subito dai lavoratori) preferito a contratti full-time soprattutto per le donne (e qui il divario di genere viene riconosciuto perfino dalla Banca d’Italia) e i buoni lavoro esaltati come uscita dalla disoccupazione.
Per quanto concerne i contratti a termine il decreto interviene con l’Art. 24 direttamente sull’Art. 19 del decreto legislativo del 2015 e così i contratti a termine tra i 12 e i 24 mesi saranno liberalizzati recependo nella contrattazione collettiva questa sorta di stravolgimento del “Decreto Dignità”, che almeno aveva provato a scoraggiare il ricorso datoriale a contratti temporanei, e celando i rinnovi dietro a esigenze organizzative e altri casi pattuiti tra associazioni datoriali e sindacati rappresentativi. Dopo il dodicesimo mese sarà sufficiente inserire qualche postilla in un contratto nazionale per reiterare il tempo determinato fino a 24 mesi. Ben sappiamo come le esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva siano sempre decise solo dalla parte datoriale, il sindacato viene chiamato quindi a ratificare quanto deciso in altra sede e senza mai fare i conti con la sua natura tanto passiva quanto assertiva verso le istanze produttive.
Il rischio che corriamo è di vedere recepite le norme del decreto Lavoro in fretta e furia nelle parti normative contrattuali rinviando ulteriormente l’adeguamento economico del contratto collettivo nazionale. E con il dilatarsi dei tempi per i rinnovi dei CCNL potrebbe essere proprio la contrattazione aziendale a decidere in materia di causali del tempo determinato, una contrattazione che copre soltanto un terzo circa della forza-lavoro occupata e opera quasi esclusivamente nelle aziende di grandi dimensioni, mentre nelle piccole e medie aziende sovente non esiste se non per essere finalizzata alla detassazione dei premi di risultato.
Infine, l’estensione della precarizzazione e frammentazione del mercato del lavoro viene confermata dall’eliminazione dei limiti percentuali relativi alle assunzioni con il contratto di apprendistato in regime di somministrazione e quelli quantitativi in caso di somministrazione a tempo indeterminato di specifiche categorie di lavoratori (lavoratori in mobilità, soggetti disoccupati non del settore agricolo). Inoltre, con l’esenzione dal rispetto dei limiti quantitativi nell’utilizzo di personale in somministrazione, già prevista per altre fattispecie, si estende al caso in cui tale personale sia assunto dal somministratore con rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Gli effetti della flessibilizzazione del mercato del lavoro nel settore privato come sopra descritti, si estendono anche al settore pubblico che mette al lavoro migliaia di lavoratori con rapporti di consulenza, con pagamenti a giornata, a partita IVA, a tempo determinato, con contratti di somministrazione.