di Paolo Ciofi – www.paolociofi.it
La diffusione del Coronavirus, con i suoi effetti devastanti, avviene in un mondo dominato dal capitalismo finanziarizzato globale, già scosso da una crisi che colpisce insieme la natura e la società degli esseri umani. Di cui il medesimo Coronavirus è un’inedita e perversa espressione, finora sconosciuta. Siamo in presenza di un sistema dominante ma decadente, corroso dalle sue interne contraddizioni, in cui sono in gioco non solo la libertà e l’uguaglianza, bensì la vita stessa delle persone insieme all’esistenza del pianeta. Quindi, non di una “normale” crisi ciclica si tratta, ma di una crisi universale di un’intera formazione storica, che insieme all’economia investe la natura e la società, la politica e la cultura.
Se questa è la portata del problema che quotidianamente si rovescia sulla vita di miliardi di persone, la soluzione non sta nel rinculo nazionalista verso le piccole patrie, nell’esclusione dei poveri e dei diversi, nella guerra ai migranti e di tutti contro tutti, nell’accumulo di armamenti che accresce i rischi di un conflitto nucleare. Ma non sta neanche nel ritorno al capitalismo cosiddetto “buono” del passato, come predica un presunto nuovo riformismo. Giacché, nel perenne movimento che lo caratterizza, il pessimo capitalismo che ci circonda non è altro che l’evoluzione di quello che c’era prima.
La soluzione possibile sta nell’affermazione di un universalismo alternativo portatore di pace e solidarietà, di democrazia e libertà, amico e protettore della natura, fermo e determinato nella lotta per rimuovere le cause dello stato di cose presente. Una visione e una pratica, una teoria e una prassi, e anche una condotta morale, alle quali non so dare altro nome se non quello di nuovo socialismo.
Ma non puoi rovesciare il dominio del capitale e andare oltre, se del capitale non conosci la natura più profonda e il suo meccanismo di funzionamento. Al di là delle infinite forme e degli adattamenti sempre cangianti in cui si manifesta, proprio nella fase suprema del suo dominio la domanda preliminare, semplice e fondamentale a cui rispondere (e che in Italia non va di moda) è la seguente: che cos’è il capitale? Una “cosa”? Un accumulo di mezzi finanziari? L’insieme degli strumenti della produzione e della comunicazione? Una somma di denaro che si autoriproduce? Un algoritmo?
In soccorso ci viene Carlo Marx, critico insuperato del capitale, che ha messo a nudo la natura più profonda della formazione economico-sociale denominata capitalismo. «Il capitale – ci dice il Moro di Treviri disvelando il feticismo delle merci – non è una cosa, ma un rapporto sociale mediato da cose», ossia da una immane raccolta di merci. Un rapporto tra esseri umani, socialmente e storicamente determinato, nel quale una parte monopolizza gli strumenti della produzione, della comunicazione e della finanza. Mentre un’altra parte, che costituisce la stragrande maggioranza, monopolizza solo le proprie abilità fisiche e intellettuali racchiuse nel corpo di ciascuno, denominate forza-lavoro.
Dunque, secondo la visione di Marx, al di là dell’immane raccolta di merci e della finanziarizzazione del sistema, lo sfruttamento di esseri umani da parte di altri esseri umani sulla base di determinati rapporti di proprietà costituisce il codice genetico del capitale. E poiché il processo di produzione finalizzato all’ottenimento del profitto riproduce al tempo stesso il rapporto sociale tra i produttori, ne deriva che la distribuzione della ricchezza dipende in ultima analisi dalla distribuzione della proprietà.
Se nella sua caccia spietata al profitto, in un mondo dalle risorse limitate, il capitale cerca di superare il suo limite assumendo una dimensione universale insinuandosi in ogni angolo del pianeta e in tutte le espressioni della vita umana, in pari tempo trova nella sua stessa natura gli ostacoli che ne fanno esplodere le contraddizioni. Per alzare i profitti, il capitalista deve contenere i salari, ma i bassi salari comprimono il potere d’acquisto e quindi ostacolano la realizzazione dei profitti. E il ricorso all’ indebitamento, come si è visto nella crisi del 2007-2008, è stato un’aggravante piuttosto che una soluzione.
In questa fase del capitalismo maturo e senescente, le contraddizioni del sistema sono diventate esplosive. In modo drammatico si presenta la divisione del mondo tra chi compra e chi vende la forza-lavoro. Tra chi è proprietario dei mezzi finanziari e di produzione, delle più sofisticate conquiste della scienza e della tecnica, dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi, e li usa per sfruttare il lavoro, e chi è proprietario soltanto del proprio corpo e dei mezzi per vivere.
I non proprietari delle condizioni della produzione e della riproduzione sociale non sono stati mai così numerosi nel pianeta. Al contrario, la proprietà capitalistica su tali condizioni, invece di essere socializzata, ha raggiunto il top della concentrazione. Ma i rapporti di proprietà capitalistici si dimostrano troppo angusti e primitivi, addirittura distruttivi di fronte alle potenzialità innovative e di liberazione umana offerte dalle conquiste della scienza. Il punto di massima tensione si raggiunge allorché è la scienza stessa a configurarsi come forza direttamente produttiva, che traina il progresso dell’umanità. Una condizione, e una contraddizione, che la diffusione del Coronavirus mette bene in evidenza.
Osserva Marx che «quando l’intero processo di produzione (…) si presenta come applicazione tecnologica della scienza» il lavoro non scompare ma assume un livello superiore di conoscenze. Fino a formare l’intelligenza generale dell’intera comunità, il «cervello sociale» che inventa le macchine, le usa e le controlla. Ciò che comporta un elevamento culturale generalizzato, affinché ciascuno, uomo e donna, nella sua individualità possa diventare padrone del proprio destino. Nel superamento non della proprietà individuale, ma della proprietà capitalistica.
D’altra parte, osserva ancora Marx, la natura è la fonte dei valori d’uso altrettanto quanto il lavoro. Ciò significa che il proprietario capitalista per ottenere il profitto deve poter disporre, oltre che del lavoro, anche della natura, coinvolgendo entrambi in un unico processo di sfruttamento. Ne deriva, come ha osservato Emanuele Severino, che «inevitabilmente», nella corsa al profitto, il capitalismo «distrugge la terra, la sua base ‘naturale’». E’ ciò che si sta verificando in questa fase di crisi climatico-ambientale che mette a rischio l’equilibrio del pianeta, in presenza di una competizione senza limiti al fine di accaparrarsi le limitate risorse naturali di cui dispone questo mondo.
Insostenibilità climatico-ambientale e insostenibilità sociale si alimentano a vicenda, dando luogo anche a fenomeni inediti come la diffusione del Coronavirus. Da un lato, la spogliazione di interi territori, dove avanza, insieme alla cavalleria dei mercati, la desertificazione, e non solo in Africa. Dall’altra, l’inurbamento di masse di diseredati senza terra né lavoro verso le periferie metropolitane, dove si moltiplicano i fattori inquinanti nel degrado ambientale e antropologico, alimentando spinte autoritarie e fascistiche. È il risultato di un modello di sfruttamento fondato sul consumo onnivoro dei combustibili fossili che l’Occidente liberale ha imposto al mondo, e che porta a «imprimere un’impronta ecologica cinque volte più grande di quella del pianeta», come già nel 2010 aveva sottolineato la conferenza dei popoli a Cochabamba.
Per districarsi nella complessità del mondo contemporaneo, identificare la sostanza del capitale nelle sue continue mutazioni e avviare un rivoluzionamento dello stato di cose presente, c’è bisogno di un pensiero critico dinamico, in divenire, aperto alle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Al tempo stesso profondamente legato ai bisogni emergenti delle masse, e perciò in grado di offrire soluzioni concrete sul terreno sociale e ambientale. Senza di che la politica, da strumento per cambiare la società, nella migliore delle ipotesi decade a mera gestione tattica dell’esistente.
Aver abbandonato il dirompente pensiero critico di Marx, sempre legato – nel disvelamento del capitale come processo di sfruttamento della classe lavoratrice e della natura – all’evolvere del conflitto tra le classi e alla diversità dei percorsi storici concreti, per un riformismo liberal-liberista senza anima e senza classi, si è rivelata una scelta retrograda, subalterna e perdente. Il riformismo malattia senile del capitalismo, ha detto qualcuno. Ma non si può neanche tornare alle varie ortodossie del passato, che hanno imbalsamato il pensiero rivoluzionario del Moro in un catalogo inerte di formule e formulette senza storia e senza futuro. Non è crollato il pensiero critico di Marx, ha osservato Aldo Tortorella, è crollato l’imparaticcio pseudo marxista. Che già ai suoi tempi aveva spinto Marx a dichiarare di non essere marxista.
A lui era estranea l’idea che il passaggio a una civiltà più avanzata, oltre il capitalismo, si possa compiere per spontanea evoluzione, come pure la affermazione infondata e primitiva secondo cui ci si debba affidare a un modello unico, valido ovunque e in ogni tempo. L’appello all’unità dei proletari nel mondo con il quale si conclude il Manifesto del partito comunista non esclude, anzi suppone, che i proletari abbiano una presenza e una capacità di lotta in ogni Paese. Ed è noto che nella Lettera a Weydemeyer e nella Critica al programma di Gotha si fa riferimento alla dittatura del proletariato come forma di potere dello Stato e di democrazia che esclude la minoranza sfruttatrice del lavoro.
Pressoché ignorato è invece il discorso contro gli anarchici astensionisti pronunciato ad Amsterdam nel 1872. Nel quale Marx, dopo avere affermato che gli sfruttati devono «prendere il potere politico per fondare una nuova organizzazione del lavoro», aggiungeva: «Non abbiamo affatto preteso che per arrivare a questo scopo i mezzi fossero dappertutto identici. Sappiamo quale importanza abbiano le istituzioni, i costumi, le tradizioni di vari Paesi». E perciò riteneva che nei Paesi più avanzati «i lavoratori possono raggiungere il loro scopo con mezzi pacifici».
In Italia non resta quasi nulla del pensiero critico di Marx. E delle conquiste storiche del movimento operaio e della democrazia, che nella specificità delle condizioni italiane a quel pensiero e a quella prassi si ispiravano. È significativo il fatto che contestualmente venga cancellata la memoria della lotta antifascista, e di ciò che ha significato per l’Italia l’abbattimento del fascismo con la conquista della Costituzione, che fonda sul lavoro la Repubblica democratica. Lavoro e Costituzione: su questo tema andrebbe aperta una discussione e messo in campo un movimento di massa con rivendicazioni concrete. Non per rinchiuderci nel nostro orticello nazionale. Ma per unificare le lavoratrici e i lavoratori del XXI secolo, portando in Europa e nel mondo i principi e i valori universali della nostra Carta fondamentale: vale a dire un progetto di nuova società.