Le tante polemiche sorte attorno ad alcuni aspetti del congresso della Cgil che si è appena concluso rammentano, ad avviso di chi scrive, la sempiterna necessità di guardare la luna e non il dito che la indica. Non c’è dubbio che buona parte dell’assise di Rimini abbia avuto gli aspetti della kermesse mediatica: dalla tavola rotonda a cui sono stati invitati soltanto esponenti del mondo politico rappresentati in parlamento e poco disturbanti per il manovratore, fino all’invito ed all’intervento del primo Ministro Giorgia Meloni. Ma la domanda da porre e da porci è relativa al contenitore o al contenuto? Sul contenitore, se si eccettua qualche buon intervento e la sacrosanta contestazione alla presenza della prima presidente postfascista della storia dell’Italia repubblicana, quello che è emerso è un sindacato in gran parte inadeguato alle sfide del XXI secolo che soffre degli stessi mali endemici della sinistra politica in Italia. Entrambi, infatti, faticano ad essere rappresentati e faticano ad essere percepiti come utili se non necessari. Non sfugge a nessuna/o che alle recenti elezioni politiche, buona parte del mondo del lavoro dipendente, in tutte le sue centinaia di articolazioni contrattuali in cui è stato parcellizzato, ha scelto come propria posizione politica quella dell’astensione dal voto. Che esista poi uno scollamento fra appartenenza sindacale e politica è dato da molto tempo. Già 10 anni fa capitava, anche ad assemblee della Fiom sentirsi dire: “In fabbrica mi difende il sindacato, fuori la Lega”. Già questo dovrebbe portare in molte/i, non solo all’interno della Cgil ad interrogarsi. Non basta certo un articolo per cercare di diramare la matassa ma almeno si possono offrire spunti di riflessione su cui provare ad aprire un dibattito.
Già alla fine degli anni Sessanta e soprattutto durante i successivi, nonostante le conquiste ottenute, elementi di crisi interna al maggior sindacato italiano erano percepibili. Lo scontro nel 1977 e le critiche avanzate tanto da chi non accettava allora la logica dei “sacrifici”, quanto il mondo composito di coloro che non rientravano nel mondo del lavoro regolarmente contrattualizzato, andava esplodendo. Lo scontro e la sconfitta sulla “scala mobile” del 1984, che fu insieme politico e sindacale, sancì di fatto un lento ma costante percorso in discesa tanto è che rimase come collante aggregativo la giusta opposizione sindacale ai terrorismi e la difesa delle istituzioni, ma poco altro. Negli anni, sono infiniti i fattori – in primis la modificazione strutturale dell’organizzazione del lavoro – che hanno via via visto depredare coloro che col sindacato ottenevano una sorta di “cittadinanza sociale” sempre più di diritti e di garanzie. L’epifenomeno può essere rappresentato dal fatto che dal 1990 ad oggi, a differenza che nel resto dell’UE, i salari sono stati erosi portando ad estendere in maniera micidiale la categoria dei lavoratori poveri, della precarietà diffusa, della perdita sostanziale, soprattutto per donne e giovani, di qualsiasi reale potere contrattuale. Ma questo è l’effetto, o meglio una sua parte. Per troppi anni il sindacato confederale, attraverso le politiche di concertazione, ha lentamente abdicato tanto ad un ruolo politico di confronto, anche duro con i diversi governi che si sono succeduti, in particolare con quelli sedicenti “amici”, quanto con le imprese, Confindustria in primis. Dal “Pacchetto Treu”, al Jobs Act e all’abrogazione dell’Art. 18, passando per una infinità di provvedimenti contro cui non si è stati capaci di levare parole forti, né da parte della sinistra politica né da quella sindacale, ci si è assuefatti al trionfo delle classi dominanti, che neanche andavano ad un certo punto nominate in quanto tali. La parola “conflitto” è stata per troppo tempo espunta quando non ridotta alla ritualità di uno sciopero generale di poche ore, sempre meno accompagnato da mobilitazioni di carattere nazionale. Gli stessi luoghi di lavoro raramente e solo quando ne è stata messa a rischio la sopravvivenza, si sono potuti cimentare in momenti anche altri di lotta fino all’occupazione delle fabbriche. Ma, negli anni cambiava anche la composizione sociale dei quadri sindacali. Una parte consistente, in assenza di turn over, usciva dal mondo del lavoro per raggiunti limiti di età e continuava ad iscriversi alla Cgil ampliando la categoria vasta dei pensionati, con un peso enorme negli organismi direttivi, locali e nazionali, ma non avendo poco o più nulla a che fare con la vita nei luoghi di lavoro. Per quanto raccontato dagli stessi dirigenti sindacali di alcune categorie di lavoratrici e lavoratori, per anni il ruolo dei rappresentanti territoriali, si è ridotto a quello di andare nelle aziende per ragionare in merito ai contratti, cercando al limite di strappare risultati in sede di contrattazione aziendale, di evitare che ad ogni stato di crisi seguissero licenziamenti massicci, favorendo il ricorso agli ammortizzatori sociali, ma non certo quello di mettere in discussione il rapporto di subalternità con datori di lavoro e quadro politico. Una perenne battaglia in difesa. Col risultato che, non riuscendo a portare a casa risultati, né dal punto di vista della qualità della vita nei luoghi di lavoro, né dal punto di vista salariale (non ci si è neanche mai realmente difesi dall’inflazione e dall’aumento del costo della vita) e nemmeno restando punto di riferimento come corpo intermedio in grado di costruire, nel lavoro, società, ci si è trovati spiazzati. L’offensiva liberista e la ventata di antipolitica degli ultimi 20 anni ha, anche di conseguenza, portato larga parte dell’opinione pubblica a considerare sindacati e partiti come inutili quando non dannosi alla modernizzazione. L’individualismo sfrenato, in assenza di una cultura condivisa dei diritti collettivi non solo sul mercato del lavoro, ha fatto divenire per larga parte della popolazione in età attiva, il sindacato come luogo da vivere in forma passiva. Si fa al massimo la tessera, per usufruire dei servizi messi a disposizione nelle Camere del lavoro, nei patronati, nei Caf, ma poco di più. Lo sciopero – è divenuto cultura comune – non sposta, non porta a risultati, non finisce neanche in prima pagina (la stampa mainstream e i circuiti radiotelevisivi evitano di raccontarne ragioni e motivazioni) anzi diventa occasione di sberleffo da parte dei dominanti. Non sono bastate le parole roboanti dell’allora segretario della Fiom, oggi di tutta la Cgil che richiamavano ad una “coalizione sociale”, tutto si è rattrappito in tavoli fra governi e sindacati in cui al massimo si è ottenuto di contenere i danni di chi aveva un contratto nazionale.
Si è determinata, come e forse in maniera più grave nonché di difficile risoluzione, una distanza fra persone che in carne e ossa lavorano, chi dovrebbe rappresentarne e difenderne le istanze e il muro invalicabile delle leggi di bilancio cavalcate da chi, nel frattempo, vedeva crescere a dismisura i propri profitti, al punto che oggi il fossato è divenuto enorme. Chi invidia, comprensibilmente le mobilitazioni francesi per difendere quello che in Italia si è perso già tanti anni fa con la riforma Dini prima e con la legge Fornero poi, il diritto ad andare in pensione ad un’età congrua a potersi godere quel che resta della vita, non può accettare come giustificazione quella per cui è nella cultura transalpina la disponibilità a mobilitazioni di lunga durata. Il sindacalismo italiano ha fatto il possibile per convincere le proprie iscritte e i propri iscritti che tali scelte drastiche non portano a risultati, che creano solo disagi alla collettività, che non permettono di aprire poi tavoli di trattative. E oramai gran parte di coloro che ai sindacati confederali è iscritto crede a tale narrazione, è rassegnata, prova a sopravvivere al peggio che avanza e cerca soluzioni a volte personali – ci sono aziende, tante, in cui le stesse persone con le stesse mansioni hanno diverse tipologie contrattuali – ad una questione che ha rilevanza sociale e strutturale. Certo ci sono esempi che fanno intravvedere altre opportunità, la strenua lotta della GKN è divenuta simbolo e inizia a permeare anche altre aziende in difficoltà, ma è questo sufficiente? E, ripartendo da chi cerca di fare paragoni con le mobilitazioni francesi viene da dire: per quale motivo in Francia, il programma politico delle forze della sinistra vera, estremamente simile a quello in Italia di Unione Popolare ha superato il 20% dei consensi mentre da noi si è giunti a stento all’1,4%? E ancora: per quale motivo le classi sociali di riferimento nel Paese transalpino hanno recepito come proprio il programma di Nupes mentre il bacino di votanti di UP poco proviene dal mondo del lavoro dipendente e dal precariato? Sicuramente ci sono numerose concause oggettive e soggettive, di certo da troppo poco tempo in Italia si è costruita una coalizione, ad oggi minoritaria, che incarna alcune battaglie fondamentali ma fatica ad essere riconosciuta e in grado di produrre risultati, ma è sufficiente questa giustificazione? E la soluzione di una analisi scevra dalla ricerca di capri espiatori non si può tradurre nella semplificazione settaria secondo cui la Cgil è un luogo da cui fuggire perché popolata da traditrici e traditori del popolo.
Se questa analisi fosse vera, il sindacalismo di base e conflittuale, presente in alcuni comparti da maggior tempo, avrebbe dovuto divenire egemone e fungere da traino per chi è sfiduciato dal sindacalismo confederale. Non è accaduto e difficilmente accadrà. Va detto che in alcuni comparti, dalla logistica, all’agricoltura, all’edilizia, molte vertenze sono state e vengono portate avanti da queste forme di sindacalismo, sovente in alternativa agli interventi del sindacalismo confederale. Ma se ad esempio, il rinnovo contrattuale nei contratti dei lavoratori agricoli, firmato nel 2022, che ha portato ad un incremento salariale del 4,2%, nulla a confronto di un’inflazione che supera il 12%, ci si sarebbe dovuti aspettare una fuga verso il sindacalismo conflittuale. Questo non è avvenuto e non solo nel comparto agro industriale. Le mobilitazioni e gli scioperi portati avanti da queste sigle sindacali raramente riescono ad avere un’adesione massiccia, le ragioni delle proteste sono ancor più celate dal sistema mediatico e ignorate da quello politico, la difficoltà derivante da normative significative nel sistema di rappresentanza sindacale, indeboliscono ancora di più il sindacalismo di base che poi ci mette del suo. La pressoché totale indisponibilità a fare fronte comune, anche fra singole sigle che rischiano di divenire corporative, il rigetto settario – spesso reciproco – di avere alcuna relazione con il sindacalismo confederale, viene pagato duramente solo e soltanto dalle lavoratrici e dai lavoratori che necessitano di portare a casa risultati. Una demarcazione che si traduce anche nel cercare poi rappresentanza politica in grado di portare in parlamento le istanze per cui ci si mobilita pensando di trovarne di adeguati quando, ad oggi, nessuna forza politica sembra voler far proprie le istanze del lavoro come centrali. Avere l’accortezza di farsi promotori di alcune istanze: dal reddito di cittadinanza, al salario minimo garantito, all’aumento delle pensioni minime, a riduzioni del danno nella frammentazione contrattuale e nella precarietà, non fanno divenire una forza politica interprete delle esigenze di milioni di persone. Né alcuna organizzazione sindacale può sperare tout court di modificare il ruolo interclassista e refrattario ad assumere identità definite, di un parlamento composto da soggettività liquide, capaci più di guardare ai sondaggi del giorno prima che ad una visione di società dell’anno successivo. Per dirla tutta le evocazioni volontaristiche ad un sindacato da cambiare come quelle fatte dal riconfermato segretario della Cgil e le scomuniche prive di chiesa, lanciate dal sindacalismo più votato alla lotta, rischiano di divenire speculari se non si opera attorno al tema immenso della ricomposizione in cui sindacati (al plurale) e forze politiche, debbono porsi l’ambizione di giocare un ruolo di medio e lungo periodo.
Occorre tanto l’umiltà di afferrare la complessità dello schiavismo 4.0 di questo inizio di millennio, non riducibile alla apparizione simbolica della rider nel congresso della Cgil, quanto la volontà di ricostruire nessi sociali e politici che non possono basarsi su condanne già definitive e senza appello lanciate in maniera indiscriminata. La complessità, con le contraddizioni di cui è portatrice, non permette soluzioni immediate o scorciatoie effimere, non basterà una grande manifestazione, convocata da chiunque sia in grado di farlo né l’ennesimo comizio appassionato a ricostruire il necessario milieu della rivolta che dovrebbe innervare tanto chi lavora quanto chi dal mercato del lavoro è escluso. Occorre contaminazione nell’autonomia fra lavoro politico e sindacale, capace di superare gli steccati, di differenziare i propri campi di azione ma contemporaneamente capace di confrontarsi in maniera paritaria, sostenendosi e rispettandosi vicendevolmente e fungendo da collante sociale ad un Paese frammentato. Tanto alla politica migliore, quella alla ricerca di una alternatività che è l’esatto opposto dell’alternanza ai poli esistenti, quanto al sindacato capace di tornare in strada, nei luoghi in cui il lavoro consente ancora di essere fattore aggregante come in quelli in cui la parcellizzazione è individualizzata – si pensi al lavoro di cura, nel terziario, nei servizi – proponendo non solo contratti più decenti ma una ipotesi di società diametralmente estranea a quella dominante. Coloro che oggi, soprattutto giovani, trovano la forza per scendere in piazza reclamando un ecosistema destinato a non implodere o diritti civili e sociali laddove esistono solo privilegi (sanità, scuola, cittadinanza, parità di genere, contrasto alle mafie ecc…) sono la dimostrazione plastica di come esista la comprensione che il modello di sviluppo è il problema e che conviverci non potrà mai essere la soluzione. Ma se costoro non incontrano buon sindacato e buona politica rischiano di restare l’ennesimo corpo a sé stante, non rappresentato e non rappresentabile. Si torna ad un antico dilemma: il mantenimento di una cultura politica e sindacale in Francia, come in altri Paesi ha permesso che, nonostante l’ondata neoliberista, alcuni risultati ottenuti come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – il tempo liberato – il rifiuto di vedersi aumentati gli anni da passare al lavoro in nome della memoria condivisa dei già troppi anni passati a produrre, diventano elemento comune che confliggono, in forme diverse, col potere dominante. Eppure anche in Francia il lavoro ha subito enormi trasformazioni, anche lì si è determinata una trasformazione capitalista dal sistema produttivo a quello della finanziarizzazione. Il sindacato ma anche forze politiche e movimenti, hanno avuto meno problemi a mantenere la barra dritta anche perché su alcune conquiste – non privilegi – la società francese non era disponibile a fare passi indietro. In Italia l’accumularsi di cicli di crisi economiche ha visto l’assenza di reazione generalizzata. Ci si è affidati al mercato in maniera quasi religiosa come unica divinità in grado di dispensare briciole di salvezza perdendo qualsiasi possibilità di libero arbitrio. Ma è mancata anche la capacità, da parte di tutte/i di svolgere un profondo lavoro di inchiesta capace di comprendere le modificazioni sociali, politiche, financo esistenziali e antropologiche delle persone in attività lavorativa. La frammentazione si è così radicata da divenire anche perdita di qualsiasi capacità di analisi complessiva. Inutile prendersela con l’eccessiva burocratizzazione della macchina sindacale – fatto incontestabile – tanto gli istituti di ricerca sindacali quanto le ricerche compiute dal mondo degli storici, spesso militanti, si limitano a inquadrare un settore, un territorio e le sue peculiarità, ma non riescono a fornire un quadro più ampio. La stessa internazionalizzazione del mercato del lavoro e della circolazione delle merci prodotte è in una fase di perenne transizione, sottoposta a trasformazioni epocali che avvengono nell’arco di pochi anni e che risentono di fattori legati alle macro vicende politiche. Il mondo produttivo italiano comprende nello stesso tempo, negli stessi luoghi, negli stessi comparti, filiere arretrate rimaste immobili a 50 anni fa e aree in cui si è giunti alla digitalizzazione quando non all’ingresso delle intelligenze artificiali che scompaginano le qualifiche richieste per accedere ad un posto di lavoro ed escludono i non nativi digitali.
Tutto ciò è potuto avvenire senza che organizzazioni politiche e sindacali ne prendessero consapevolmente coscienza per attrezzarsi a nuove modalità dell’agire conflitto. Se non si comprende questo si reiterano approcci residuali con cui si resta sconfitti. E se continuano a prevalere analisi e riflessioni rispetto alla carne viva di chi lavora, fuori dal tempo e dalla storia, confinate, anche nel linguaggio utilizzato per nominare le cose, al secolo scorso è inutile appellarsi a spontaneismi o a velleitari afflati volontaristici. Ricostruire le ragioni del conflitto e renderle patrimonio condiviso ben consapevoli della portata della sconfitta subita è doloroso ma necessario.
Stefano Galieni