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Referendum: il silenzio degli indecenti

di Stefano
Galieni

L’8 agosto prossimo dovrà entrare in vigore l’European Media Freedom Act, di seguito EMFA, un nuovo regolamento, approvato dal parlamento europeo, con 464 voti favorevoli, 92 voti contrari e 65 astensioni, che dovrebbe obbligare gli Stati membri a proteggere l’indipendenza dei media e a vietare qualsiasi forma di ingerenza nelle decisioni editoriali. Molto probabilmente, dato il silenzio italiano, sarà difficile rendere applicabili da noi le normative previste che, senza essere rivoluzionarie, intervengono su un tema da tempo fonte di crisi e di estrema problematicità. La libertà e il pluralismo dei media sono considerate in forte declino in tutta l’Unione Europea, come evidenziato dall’ultimo rapporto pubblicato dalla Civil Liberties Union for Europe, di Liberties, redatto con il contributo di ben 43 organizzazioni per i diritti umani da 21 Stati membri. Il documento denuncia un attacco sistematico all’indipendenza dei media, favorito da una crescente concentrazione proprietaria, opacità nei finanziamenti pubblici e debolezze normative. Il “caso italiano” è considerato fra i più gravi, insieme a quello di Croazia, Francia, Spagna, Slovenia, Svezia e Paesi Bassi, in cui pochi gruppi privati dominano interi settori dell’informazione, riducendo drasticamente il pluralismo. Ma in Italia c’è una aggravante. A causa della legge 220/2015 (cd Legge Renzi) lo stesso servizio pubblico, in altri Paesi più garantito e rappresentato per noi dalla Rai, è sottoposto ad uno stretto controllo dell’esecutivo e della maggioranza parlamentare che può nominare la quasi totalità del consiglio di amministrazione. Di fatto l’emittente pubblica è dominata, dal 2015 (altro che “Tele Meloni”, dalle pressioni politiche. L’amministratore delegato, scelto dal governo, gode di ampi poteri gestionali e libertà di spesa, in contrasto con i principi di indipendenza stabiliti dall’EMFA. A maggio 2024, due ricorsi al TAR del Lazio hanno contestato la legittimità della procedura di nomina del CdA Rai, ritenuta contraria alle norme UE. Nonostante questo, il nuovo consiglio è stato insediato il 1° ottobre. 

Non a caso e da allora, non passa giorno che qualche giornalista, redazione o trasmissione televisiva subisca attacchi e intimidazioni per evitare di disturbare il manovratore, in uno scenario di estrema crisi degli spazi di democrazia che, con quest’ultimo governo, sembrano restringersi sempre più. L’elenco delle notizie date in maniera deformata, di una gerarchia dell’informazione che segue i dettami, a volte i capricci, di qualche esponente di governo o, peggio ancora, di veri e propri ultra lealisti che si mostrano più zelanti di coloro a cui debbono poco irresistibili carriere, potrebbe riempire volumi interi, ma quanto detto serve oggi unicamente a puntare il dito su l’ultima, in ordine di tempo delle truffe alla collettività. 

Le lettrici e i lettori di Transform sono già informati, ma fuori da questa e da poche altre bolle, quante persone sono minimamente informate del fatto che l’8 e 9 giugno prossimo si andrà ad esprimersi su 5 quesiti referendari, 4 sui temi del lavoro e l’ultimo, non certo per importanza, sulla riforma della vetusta legge sulla cittadinanza? In quali talk show si è parlato di questi quesiti invitando a pronunciarsi persone con posizioni divergenti ma, in quanto tali, in grado di informare la cittadinanza? Praticamente pochissimi tanto da far sparire tale scadenza ravvicinata da qualsiasi agenda, togliendo visibilità, nascondendo. La ragione è tanto semplice quanto volgare: per essere ritenuto valido un referendum ha bisogno di superare un quorum, il 50% +1 di chi ha diritto, altrimenti tale consultazione non ha valore. Ora al di là del fatto che mentre un parlamento può essere eletto anche se tale soglia non si raggiunge ma, anzi, diviene sempre più distante, a causa di una fortissima disaffezione alla ricerca di una rappresentanza politica, possibile che il non voler dare notizia dei referendum o facendolo, obbligatoriamente, con spazi limitati, solo alla fine della campagna referendaria, possa essere utilizzato per impedire il raggiungimento del risultato? 

Non è la prima volta che accade. Quando i quesiti sono ostili alle forze dominanti e quando il solo fatto che se ne possa discutere e conoscerli, si preferisce creare un vero e proprio muro di gomma e passare oltre. È accaduto con il referendum sulla ripubblicizzazione dell’acqua – che si è poi vinto ma a cui non è mai stato dato seguito -, con quello (coincidenza renziano), atto a modificare l’impianto costituzionale, su cui c’è stato un grande battage propagandistico che non ha però portato ai risultati auspicati non solo dall’allora presidente del Consiglio. Numerosi referendum non hanno mai raggiunto il quorum con l’inghippo dell’astensione programmata combinata alla scarsa informazione data alle scadenze. Negli 80 anni di storia repubblicana si sono svolti finora 78 consultazioni referendarie nazionali: 67 abrogativi, quattro costituzionali, uno consultivo e uno istituzionale. Quest’ultimo riguarda proprio quello con cui il popolo italiano fu chiamato a scegliere tra monarchia e repubblica, il 2 giugno 1946. Dal 1974 al 1995 il quorum è stato raggiunto in 8 referendum su 10 (furono disattesi quello sulla caccia e quello sui pesticidi), mentre negli anni successivi, se si eccettua, per l’appunto quello sull’acqua, nessun quesito ha superato il quorum. La vulgata ha portato a dire, semplificando, che la sovrabbondanza dei referendum ha allontanato le persone dall’importanza di tale istituto. Che se ne sia stato fatto un uso spropositato è in parte vero ma questo è l’effetto e non la causa. Con l’affermarsi di un sistema elettorale maggioritario, di un imperfetto bipolarismo e di una concentrazione sempre più forte dei poteri in capo al governo – il progetto di premierato segnerebbe la fine della repubblica parlamentare – , i referendum sono divenuti l’unico strumento per provare a scalfire le pareti di quarzo del Palazzo. Anche le proposte di legge di iniziativa popolare, per cui si necessita di “sole” 50 mila firme, non portano a nulla o quasi visto che poi restano sepolte nei cassetti di qualche commissione parlamentare. Il referendum resta il solo strumento di democrazia diretta, silenziarne la potenzialità è il modo più efficace per impedire che agisca come sano elemento di stimolo al parlamento. 

Nel caso dei referendum dell’8 e 9 giugno poi, le ragioni del silenzio sono ancora più evidenti. I 4 referendum indetti sul lavoro, mettono in discussione un percorso trentennale di erosione dei diritti di chi è occupata/o che una parte consistente del centrosinistra ha avallato e fatto propri come cardini delle politiche liberiste. I referendum promossi dalla Cgil e sostenuti convintamente dalle forze politiche più progressiste ma che, nonostante l’impegno della Segretaria nazionale Elly Schlein, hanno creato non poco malumore in una parte del Partito Democratico, di fatto possono riaprire la strada ad un impegno per recuperare, almeno in parte, i diritti tolti e la giungla contrattuale che si è determinata, riforma dopo riforma. Quello che prova a ritoccare le normative per l’accesso alla cittadinanza è, per alcuni versi, ancora più pericoloso per chi governa, in quanto svela la tossicità di una narrazione imperante e mette in crisi una egemonia culturale. Togliere alcune parole all’Art 9 della legge 91/1992, permettendo di tornare ai “bei tempi” che, “dal 1912, permettevano di poter richiedere la cittadinanza italiana dopo 5 anni di permanenza regolare sul territorio nazionale e non 10 com’è ora, non è altro che un granello di sabbia per inceppare il motore dell’esclusione sociale. Più volte si è provato a modificare una legge, nata con l’unità d’Italia e basata sul “diritto di sangue”, (sei italiana/o se almeno una/o dei tuoi genitori lo è), questa condizione impropria, presente peraltro in tutta Europa, non viene scalfita dal quesito referendario. In caso di vittoria del SI, cosa che auspichiamo, non verrebbero nemmeno scalfiti i vincoli per permettere la “naturalizzazione”, ovvero presenza continuativa, residenza stabile e certificata, fedina penale pulita, reddito adeguato e conoscenza della lingua italiana a livello B1 (non facile da conquistare). Ma si tratta di una lotta condotta già dagli anni Novanta dai movimenti antirazzisti e dall’associazionismo di persone migranti, perennemente bloccata in un parlamento da tempo impermeabile a quanto accade nella società. I 5.300 mila uomini, donne e bambini, presenti regolarmente in Italia da anni, fanno parte a pieno titolo della vita del Paese anche se, troppo spesso, sono relegati a mansioni e lavori sottopagati e se i loro titoli di studio non sono spesso riconosciuti. Le loro figlie e i loro figli, in molti casi anche nipoti, si formano nelle nostre scuole, università, rappresentano un motore propulsivo fondamentale per un Paese vecchio e non più in grado di provvedere a se stesso. Ma, per il timore di alcune forze politiche di esporsi in materia, per il prevalere in altre, di una inesistente idea di “italianità” da preservare, le proposte di legge finora, riservate quasi esclusivamente alle/i giovani, si sono arenate in parlamento. Parlare di questo referendum significherebbe raccontare il Paese reale, in cui l’arrivo di poche decine di migliaia di richiedenti asilo – su cui si applicano feroci politiche di respingimento e di detenzione – è quantitativamente irrilevante rispetto ad una “società nella società” composta da persone che pagano le tasse, consumano, arricchiscono anche la cultura stantia dell’Europa. 

In caso di raggiungimento del quorum, il numero di cittadine/i che potrebbero sin dal giorno successivo alla proclamazione dei risultati, presentare la domanda di cittadinanza, oscillerebbe fra 1.700 mila e 1.900 mila. Resterebbero immutati i tempi di esaminazione per ogni singola pratica, per cui fra la sua presentazione il giuramento passerebbero almeno altri 3 o 4 anni, ma si aprirebbe la strada ad una estensione dei diritti sociali e, soprattutto, politici. Potrebbero votare, scegliere da chi essere rappresentate/i e/o elette/i. Assomiglieremo in tal senso molto più agli altri Paesi dell’Europa occidentale che a quegli Stati in cui è quasi impossibile accedere a tale diritto e si resta perennemente precari anche dal punto di vista del diritto alla residenza. Far entrare questo tema nel discorso pubblico porterebbe a far conoscere anche l’entità di una diseguaglianza inaccettabile e i danni che questa provoca al Paese intero. Porterebbe a far comprendere che se si hanno gli stessi diritti, si riesce anche a lottare insieme, visto che gran parte delle persone che ne usufruirebbero sono lavoratrici e lavoratori doppiamente vessati. Quindi meglio il silenzio. Un silenzio degli indecenti, con cui poter continuare ad alimentare odi, mistificazioni, divisioni fra eguali, paure e razzismi. E pensare che il servizio pubblico, oltre che rispondere all’art 21 della Costituzione dovrebbe rispondere anche all’art 3.

Stefano Galieni

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