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Referendum, all’esame della cittadinanza e della democrazia

di Movimento  italiani senza cittadianza

L’8 e il 9 giugno abbiamo avuto l’opportunità – da italiani – di votare, di partecipare, informare, e di dire sì a un’Italia più giusta, più inclusiva, più uguale. E, attraverso il referendum sulla cittadinanza, di dimezzare il requisito della residenza continuativa per la naturalizzazione, portarlo da dieci a cinque anni. Una modifica che avrebbe significato la possibilità, per centinaia di migliaia di persone, di avvicinarsi a una piena cittadinanza, prima. Oltre alla vittoria del sì era necessario anche il superamento del quorum, che è arrivato soltanto al 30%.

Siamo stati parte di un momento storico, di un’occasione unica ad un tema profondamente intersezionale che andava toccando questioni di razza, classe, provenienza, genere e, infine, accesso ai diritti.

È stato uno stress test, un tempo (da settembre a giugno) al contempo tragico e distopico per la democrazia italiana: senza dubbio si è trattato una campagna referendaria oscurata, ostracizzata, in un contesto politico in cui chi cercava di promuovere il referendum veniva silenziato, mentre le istituzioni che avrebbero dovuto tutelare il diritto all’informazione e alla partecipazione democratica facevano di tutto per ostacolare. Con ostracismo che è arrivato a toccare anche il diritto di voto di chi aveva diritto di voto in quanto cittadino italiano, tra burocrazia, voto estero e questioni di accessibilità.

Il mancato raggiungimento del quorum rappresenta certamente una sconfitta. Ma una sconfitta che non è nostra. Non è di chi ha ideato, promosso e creduto profondamente in un referendum che parlava di giustizia, equità, riconoscimento. La vera sconfitta è quella di una democrazia istituzionale che continua a escluderci e di una partecipazione che ancora fatica a riconoscerci come parte politica reale del Paese. Abbiamo proposto un referendum, lo abbiamo portato nelle piazze, nei quartieri, nelle scuole, anche se molti di noi non potevano esercitare il diritto di voto. Abbiamo dimostrato che si può partecipare anche senza scheda elettorale in mano. Perché democrazia significa anche questo: esserci, comunque. Molte di noi non potevano nemmeno votare, altre lo hanno fatto per la prima volta nella loro vita, o per le prime volte.
E se c’è una verità che questo referendum ha rivelato, è che a perdere è stata la democrazia. È stato un vero e proprio stress test, un esame di maturità delle istituzioni. E le istituzioni hanno mostrato, ancora una volta, i propri limiti: opache, verticali, razziste e autoritarie. Davanti a un esercizio democratico nato dal basso, non hanno risposto con apertura o rispetto, ma con silenzi, ostacoli, censure. Ci hanno sbattuto in faccia una verità che conosciamo bene: quando la partecipazione mette in discussione i rapporti di potere, chi è al potere chiude le porte. Hanno avuto paura di una domanda troppo semplice e troppo giusta: chi vive qui deve poter appartenere qui. E nel chiudersi, hanno confermato quanto fosse urgente porla.

Come figli e figlie di immigrati, non era la prima volta che l’Italia ci deludeva. Lo sapevamo già, eppure abbiamo sperato. Lo sapevamo dai troppi silenzi, dalle attese burocratiche infinite, dai diritti dimezzati. Lo sapevamo dalla legge 91 del 1992 e da tutte le norme che decidono delle nostre vite senza conoscerle. Da anni la politica tenta di silenziarci, di renderci invisibili. E anche stavolta ci ha provato. Ma siamo ancora qui. Lo denunciavamo già nel 2016, quando ci vestimmo da fantasmi per legge: una legge che non riconosce chi cresce in Italia come cittadino o cittadina. E continuiamo a denunciarlo oggi, con corpi, storie, numeri, voci. Più forti, più numerosi, più determinatə.

Il quorum non è l’unica misura della democrazia. E, mentre la crisi delle istituzioni è evidente, insieme ai comitati organizzati dal basso abbiamo portato al voto oltre 9 milioni di persone che hanno detto Sì a una legge più giusta sulla cittadinanza. In un’epoca di astensionismo, è stato un gesto radicale di democrazia. Questo referendum non è un’occasione sprecata. È un seme. È parte di un percorso politico che portiamo avanti da oltre otto anni, con costanza e visione. E se abbiamo intrapreso il cammino referendario anche per il nostro compagno Omar Neffati – che ripeteva convinto: “Se i politici non fanno nulla, chiediamo al popolo” – allora dobbiamo continuare questa strada. Non possiamo e non vogliamo arrenderci.

 

Il tema della cittadinanza è ancora centrale, perché la sua struttura è neocoloniale, classista e razzista. Mattone dopo mattone, lavoriamo per costruire insieme un altro modello di cittadinanza, un altro modello di democrazia.

Movimento  italiani senza cittadianza

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