articoli, editoriali

Quando Israele eravamo noi

di Stefano
Galieni

Fra l’ottobre del 1935 e il maggio del 1936, il regime fascista raggiunse in Italia il massimo del proprio consenso con l’aggressione e l’invasione dell’Etiopia, Stato indipendente facente parte della Società delle Nazioni, al punto che l’impresa coloniale venne condannata e vennero imposte al governo di Mussolini pesanti sanzioni. Fu tutto inutile, oltre mezzo milione di soldati entrarono nello stato africano, la capitale Addis Abeba fu occupata il 5 maggio. La propaganda fascista, dopo l’assoggettamento della Libia, convinse la popolazione di come l’Italia, finalmente, poteva assolvere alla propria “missione civilizzatrice”. Il 9 maggio, in una Piazza Venezia gremita, Benito Mussolini poté annunciare la nascita dell’Impero. Poco importa che gran parte dell’aspro territorio del Paese occupato non fu mai realmente sotto il controllo italiano e poco importa che la resistenza partigiana etiope continuasse ad arrecare continui danni ad un esercito potente e ben armato. Le immagini e le notizie che giungevano in Italia erano quelle false di una popolazione felice di andare verso la modernizzazione e di venire fascistizzata: si giunse anche a raccontare di italiani accolti come liberatori dal potere assoluto del Negus, Hailé Selassié. Le aree più controllate dell’Etiopia, in primis la capitale, vennero in poco tempo occupate da coloni italiani e da milizie fasciste. Addis Abeba divenne un esperimento ante litteram dell’apartheid sudafricano, con quartieri, case e vie di comunicazione utilizzabili solo dagli italiani e altre solo dagli autoctoni, con una ripartizione iniqua dell’accesso alle risorse idriche, con la militarizzazione della città. Nella gran parte del territorio in cui la guerriglia agiva più facilmente, anche grazie ad una forte conoscenza del territorio, l’Italia sperimentò l’uso dei gas contro la popolazione civile, per avvelenare le fonti idriche e uccidere anche gli animali da soma e da allevamento, praticando una guerra di sterminio senza pietà contro chiunque non si assoggettava all’occupante. La vita di un uomo o di una donna etiope valeva meno di zero, altro che “italiani brava gente e portatori di civiltà”: anche essere trovati in possesso di un’arma da taglio poteva portare a finire trucidati. E che dire poi delle imposizioni razziste attraverso cui si condannavano per il reato di “madamato”, i soldati che stabilivano relazioni sentimentali e avevano figli con donne autoctone? Ai soldati era permesso sfogare i propri istinti animali con le prostitute, ma guai ad avere figli, guai ad inquinare la pura razza italica. Le stesse leggi razziali del 1938, che colpirono le popolazioni di religione ebraica, trovarono anticipazione in Etiopia.

I crimini contro l’umanità commessi in Etiopia come in Libia, Somalia ed Eritrea, non sono mai stati puniti da alcun tribunale, neanche dopo la fine ingloriosa dell’occupazione. A rompere il velo pietoso per coprire la vergogna di questa parte di storia patria si sono cimentati alcuni illustri storici già negli anni Sessanta, come Del Boca, Rochat e numerosi epigoni. I loro volumi sono stati pubblicati, la loro voce si è sentita ma il muro di gomma su quel periodo iniziato ben prima del fascismo, con l’occupazione della Libia nel 1911 e le “imprese” nel Corno d’Africa iniziate nella Somalia di fine ottocento, è rimasto, nel sentire comune, mai scalfito. Due le versioni complementari: “le altre potenze europee sono state peggiori”, “gli italiani hanno costruito scuole, ospedali, hanno insegnato a coltivare e hanno portato benessere”. Come se il colonialismo in fondo fosse stato un bene per i continenti depredati, in cui si sono verificati unicamente danni collaterali. La memoria nostrana si abbeverò e si costruì per decenni sui racconti nostalgici di Montanelli (stupratore di minorenni) e di altri che rovesciarono nella pubblicistica ad ampia diffusione i propri rimpianti e ricordi giovanili.

Una terra occupata militarmente e a suon di stragi è un indizio, la creazione di colonie è il secondo, ma ora abbiamo il terzo per poter – senza mai dimenticare quanto i fatti storici decontestualizzati non possano essere comparati – fare un raffronto col presente. 

Il 19 febbraio del 1937, in mattinata, si celebrava una festa in cui una serie di notabili e dignitari etiopi dovettero fare atto di sottomissione all’allora Vice Re d’Etiopia, il Maresciallo Rodolfo Graziani. La cerimonia, con tanto di elemosina ai poveri come dimostrazione di magnanimità, venne infarcita da un discorso del Generale, sprezzante, carico di odio e di razzismo, nonché di minacce verso si sottomessi (in parte prigionieri di guerra) che vennero riempiti di improperi. Ma una pattuglia di arbegnoch (partigiani), 3 o 4 persone, riuscì ad avvicinarsi al palco e a lanciare granate che provocarono 7 morti, il ferimento di numerose persone compresi alti gradi dell’esercito italiano fra cui lo stesso Graziani. La repressione che scatenarono soprattutto i coloni e le milizie fasciste non ebbe eguali. Uomini, donne e bambini uccisi unicamente per il colore della pelle, tucul con le famiglie dentro vennero dati alle fiamme, un inferno di cui è pressoché impossibile avere le dimensioni. In 3 giorni, tanto durò il massacro di civili, le cifre fornite oscillano fra le 2.000 e le 30.000 vittime (considerando anche i successivi episodi di stragi indiscriminate), Addis Abeba divenne un bagno di sangue e di battaglia totalmente asimmetrico, in cui prevalse la logica della “caccia al nero” totalmente priva di freni inibitori. Solo alla sera del 21 febbraio giunse l’ordine da Roma di interrompere la “rappresaglia”. 

Quasi che l’obiettivo, non dichiarato ma perseguito, fosse quello di una pulizia etnica della capitale, per farla divenire una “città bianca”, priva di pericoli per l’occupante. La furia fascista si accanì in particolar modo contro i poveri, in attesa della moneta d’argento di elemosina, accusati di ingratitudine, e contro gli indovini, che secondo alcuni avevano previsto o erano a conoscenza dell’attentato. Durante i 5 anni di occupazione, milizie ed esercito si macchiarono di numerosi stragi di civili – oggi le chiameremmo terrorismo – da quella di Debra Libanos, dove trovarono la morte soprattutto monaci copti, a quella meno nota della caverna di Zaret, sempre nel 1937, dove con l’uso di gas arsina e yprite vennero uccisi 11.000 civili rimasti intrappolati. Ma al di là degli infiniti crimini commessi è giusto fare alcune considerazioni in conclusione. Intanto il 19 febbraio (Yekatit 12 in Etiopia) è divenuta la “Giornata della memoria”, in cui, invece che recriminare odio nazionalista, ci si incontra contro i fascismi. In Etiopia i responsabili dei crimini hanno un nome, un cognome ed un’ideologia che non viene trasposta in un popolo intero. Possibile che questa data non assuma un modesto significato riparatorio – insufficiente – ma utile a riannodare i fili della memoria? Si preferisce invece dimenticare. I tentativi flebili di riportare tale ricorrenza come giorno della vergogna, in Italia, sono andati sempre a vuoto. Un eccidio non deve divenire memoria collettiva che porti a complessi interrogativi storici. A tal proposito si consiglia la lettura di uno splendido romanzo, Regina di fiori e di perle, della scrittrice Gabriella Ghermandi, italo-etiope, in cui si racconta della resistenza antifascista dei partigiani. E si provi a ricercare la storia di partigiani italiani come Ilio Barontini, che venne mandato insieme ad altri pochi comunisti a combattere in Etiopia accanto agli antifascisti, mostrando, armi in pugno, quanto fosse importante e prezioso schierarsi dal lato scomodo della barricata.

Seconda considerazione: quell’azione di pura criminalità ebbe il potere di rafforzare la resistenza, di convincere anche i più rassegnati che l’Italia fascista si poteva combattere, che essere partigiani avrebbe portato alla vittoria. La liberazione, esattamente 5 anni dopo l’ingresso delle truppe italiane, dei partigiani e delle forze inglesi, dimostrò che quei resistenti avevano ragione. Li chiameremmo oggi terroristi? In Italia sì. In Italia si permise al criminale Graziani di tornare in patria, di divenire Ministro delle Forze Armate nella Repubblica di Salò, di essere condannato a peni lievi, ma unicamente perché repubblichino, con la beffa di divenire presidente di un partito erede della Repubblica Sociale. Gli epigoni di quel partito, l’MSI, con la fiamma tricolore, oggi governano il Paese. Insomma un eroe da ricordare. Altra considerazione: le sanzioni inflitte all’Italia dopo l’aggressione all’Etiopia, durarono pochi mesi, in fondo, per un pianeta ancora fondato sugli imperi coloniali, anche il regime fascista aveva diritto al suo pezzo d’Africa, per quale motivo rendere giustizia ad un popolo comunque da colonizzare ancora? L’Italia fascista era ancora considerata un baluardo anti bolscevico, con cui intrattenere buone relazioni diplomatiche e militari. Guai a chiederle il rispetto delle convenzioni internazionali.

Da ultimo, come si precisava mai abbastanza all’inizio, è inutile e fuorviante paragonare periodi storici fra loro diversi per costruire falsi universi fondati sulle similitudini. Non volendo far questo, il mondo intellettuale silente, i vertici della politica, della comunicazione, avrebbero il dovere di ricordare, almeno sommessamente, cosa significa un’occupazione, quali sofferenze causa, a quali risultati determina, quanto può portare a disumanizzare l’altro in nome dell’affermazione di un potere fondato unicamente sulla capacità di provocare morte. Morte e distruzione, morte e fine di ogni prospettiva, morte e bisogno di vendetta come unica ragione di vita. Ha ragione un ragazzo come Ghali, che è figlio di un mondo diverso e che non si rassegna, nel momento in cui grida anche dal più nazional popolare dei palchi e degli schermi “Fermate il genocidio”.

Stefano Galieni

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1 Commento. Nuovo commento

  • Raimondi Mauro
    17/02/2024 11:42

    Complimenti. Una ignobile pagina della nostra storia completamente rimossa che viene, invece, giustamente rievocata. Grazir

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